domenica, Aprile 28, 2024
ConflittiCultura

Johan Galtung: la pace creativa come stile di vita

di Valentina Bartolucci

“Il Picasso della pace”

Johan Vincent Galtung (1930-2024), pioniere degli Studi sul Conflitto e sulla Pace (Peace and Conflict Studies), è stato accademico, operatore per la pace, attivista e instancabile self-promoter. Matematico e sociologo di formazione (completò due Major Subject, uno in Statistica e uno in Sociologia a pochi mesi di distanza), si è dedicato per tutta la vita alle tematiche del conflitto e della pace in chiave internazionale. Nel 1959 fondò il Centro di Ricerca sulla Pace di Oslo (PRIO) e, cinque anni dopo, il Journal of Peace Research. Nel 1969 divenne il primo Professore di Peace Studies presso l’Università di Oslo. Si licenziò, appena nove anni dopo, per i troppo frequenti impegni all’estero. Nel 1993 fondò, insieme a Fumiko Nishimura, la rete Trascend International, un’organizzazione per la mediazione dei conflitti avente lo scopo di operare per la costruzione della pace con mezzi pacifici e, poi, il Galtung Institut a nei pressi di Basilea.

Per Galtung la pace fu un’ossessione fin da ragazzo. Intervistato da Henrik Urdal (2022), racconterà che, ventenne, andò alla biblioteca di Helsinki e chiese alla bibliotecaria se fossero disponibili dei libri sulla pace. La signora rispose di no ma assicurò che avrebbe chiesto alla ‘biblioteca madre’ di Uppsala. Ma neppure lì avevano libri sulla pace; in compenso ne avevano molti sulla guerra. «“Beh, è interessante”, ho pensato. “Gli studi per la pace non esistono”. E mi venne l’idea che quello sarebbe stato il lavoro della mia vita. […] Quando tornai in Norvegia dalla Finlandia nel ’51, avevo maturato una decisione: avrei dedicato la mia vita alla pace e lo avrei fatto attraverso la ricerca» (Urdal, 2022: 4).

Boulding (1978: 75) di lui scriverà: «Ci sono alcune persone come Picasso con una produzione così ampia e così variegata che è difficile credere che provenga da una sola persona. Johan Galtung ricade in questa categoria». Vista la vastità della sua produzione intellettuale, non è facile racchiudere in poche righe i contributi più importanti del suo complesso (e, per alcuni aspetti, criticabile) percorso intellettuale. Tra di essi, è doveroso menzionare la sua concettualizzazione di “pace positiva”, che attrarrà fin da subito un grande interesse perché particolarmente innovativa, la sua riflessione sulla violenza strutturale e la sua visione del conflitto come potenzialmente positivo.

Secondo Galtung (1996), la “pace positiva” è fondata sulla complementarietà di due elementi: (i) l’assenza/riduzione della violenza di ogni tipo e (ii) la trasformazione nonviolenta e creativa dei conflitti. Questa nuova concettualizzazione rimane, nella prima parte, ancorata a una visione della pace come “assenza”. Implicitamente si rimanda a una società pacifica, anche se in termini molto generali e generici (a ragione fu criticata da Boulding, 1977). Nella seconda parte, invece, la pace viene ri-concettualizzata in “positivo” come “risposta a” una guerra o a un conflitto in atto, ma qui l’accento non è posto sulla violenza del conflitto ma piuttosto sui mezzi per superarlo o “trasformarlo”.

Riflettendo sulla sua concettualizzazione di pace, Galtung (1985: 145) ricorderà che l’ispirazione gli venne dalla scienza medica, che vede la salute «sia come assenza di malattia (ovvero assenza di sintomi di malattia), sia come un qualcosa di più positivo: come costruzione di un corpo sano in grado di resistere alle malattie». Emerse così il concetto di “pace positiva”, costruito intorno a idee quali «“armonia”, “cooperazione”  e “integrazione”». Lo studioso ammetterà, tuttavia, che questa concettualizzazione, per quanto innovativa, si rivelò ben presto insufficiente. Prendendo in esame il caso di Harare, la capitale dello Zimbawe, notò, infatti, come nel periodo 1923-65 vi fosse un livello di “violenza interrazziale” molto basso. «Ma – si interrogherà lo studioso – era forse pace?» una situazione di «sfruttamento palese, di negazione ai neri della maggior parte delle opportunità di sviluppo date ai bianchi, di flagrante disuguaglianza […]?» (Galtung, 1985: 145). Nasce così il concetto di “violenza strutturale”, intesa come “danno involontario arrecato agli esseri umani” (Galtung, 1969).

Secondo lo studioso, inoltre, il conflitto non è necessariamente violento o almeno non è necessariamente caratterizzato da violenza in atto. La visione del conflitto come potenzialmente positivo è stato probabilmente l’intuito più felice di Galtung (Bartolucci, 2013). Autore estremamente prolifico, fu anche un attento studioso della nonviolenza gandhiana, a cui fu introdotto dal filosofo Arne Naess (1958).

Notevole il suo impegno anche nel settore del “giornalismo di pace”, di cui iniziò a parlare già negli anni ’70 (Galtung, 2015). Alla base delle sue riflessioni sul  tema, vi è la consapevolezza che anche i media giocano un ruolo attivo nella propaganda di guerra, intenzionalmente o meno. Il “giornalismo di pace”, pertanto, a differenza del “giornalismo di guerra” si prefigge di individuare altre opzioni per i lettori/telespettatori, focalizzandosi sulle possibili vie di pace che le parti in conflitto potrebbero avere interesse a nascondere (Galtung, 2000; 2002). Galtung vede il “giornalismo di pace” come people-oriented, perché si focalizza sulle vittime (spesso civili) dando voce a chi non ce l’ha e truth-oriented, perché rivela le falsità dei partecipanti al conflitto e si concentra sulla propaganda come  strumento di guerra (2002: 261-270).

Johan Galtung “cittadino del mondo”

Viaggiatore instancabile, vivrà in numerosi paesi, tra cui l’Italia. Soggiornerà in Sicilia dal 1956 al 1957 su invito di Danilo Dolci, il “Gandhi italiano” come lo chiamava Aldo Capitini. Proprio in quella terra martoriata dalla violenza, in cui era difficile anche immaginare il futuro, Dolci aveva avviato un programma ambizioso contro la violenza di stampo mafioso. Un’esperienza, quella siciliana, che segnerà profondamente il giovane ricercatore per la pace norvegese, sia sul piano personale, tanto che con Dolci instaurerà un legame di amicizia destinato a perdurare, sia su quello intellettuale, visto chee fu proprio grazie a Dolci che Galtung toccherà con mano l’importanza delle emozioni e il ruolo cruciale dell’immaginazione nei processi di costruzione di pace (Galtung, 1957; 2003). Inoltre, fu proprio in Sicilia che cominciò a imparare l’italiano e “si innamorò” del Bel Paese, tornandoci in seguito a più riprese.

Affascinato da sempre dalla medicina, amava paragonare gli operatori per la pace agli operatori sanitari: così come questi ultimi dovevano adoperarsi per curare le malattie, allo stesso modo i costruttori di pace dovevano occuparsi dei conflitti violenti, del sottosviluppo, delle violenze sistemiche e dei “mali del mondo”. Galtung prese la decisione di dedicarsi anima e corpo alla prevenzione delle guerre e alla costruzione della pace quando il padre, medico norvegese, venne portato in un campo di concentramento nazista (fortunatamente riuscì a sopravvivere). Da sempre radicale nelle sue idee, al rifiuto del governo norvegese di accordargli il permesso di espletare il periodo del servizio alternativo aggiuntivo (più lungo di sei mesi rispetto a quello militare) svolgendo attività per la pace, accettò di buon grado di passare quel periodo in carcere. Dedicò quei mesi preziosi allo studio della nonviolenza gandhiana.

Contrario all’assunto della neutralità della scienza e all’eccessiva specializzazione delle discipline, auspicava la trans-disciplinarietà, per lui necessaria per comprendere le varie componenti del “sistema mondo”. L’impronta matematica della sua formazione si ritrova, tra altre cose, nella visione galtunghiana del processo della conoscenza scientifica come immaginativo, non costretto all’interno di percorsi prefissati ma sempre aperto a nuovi stimoli, basato, “sull’espansione piuttosto che sul rifiuto” delle teorie precedenti (Galtung, 1985: 143). Lo studioso vedeva la ricerca per la pace come, idealmente, trans-nazionale, olistica e globale.

Protagonista di numerosi processi di mediazione (in Irlanda del Nord, in Kashmir, in America Latina, nei Balcani, nel Myanmar, negli Stati Uniti, e in molti altri luoghi), nelle ultime decadi della sua lunga vita si impegnò ancora di più nella prassi. Si definiva “cittadino del mondo” e non disdegnava di “sporcarsi le mani” con i “cani bastardi”, per usare una delle tante espressioni colorite che utilizzava in riferimento agli “ultimi della Terra”, dimenticati perché non “di razza”. Riflettendo sul suo percorso di vita, evidenziò come in effetti avesse fatto il contrario di quanto fanno normalmente i ricercatori, che cominciano col vivere il “mondo reale” per poi lasciarlo ed entrare nel “mondo dei libri”, rimanendovi per sempre. Invece, «io ho fatto quel viaggio nella direzione opposta, almeno finora, con occasionali escursioni nel mondo dei libri, inteso anche come accademia nel senso tradizionale, come luogo di riposo da un mondo reale assai più difficile» (Galtung, 1985: 142).

L’impatto di Johan Galtung nella prassi

Tra i suoi vari interventi da “pacificatore” in varie parti del mondo, è degna di nota la sua mediazione che ha portato all’accordo tra l’Ecuador e il Perù. Fu sua l’idea di una gestione condivisa, come parco naturale, del territorio di frontiera conteso, per il cui possesso esclusivo si erano combattute cruente battaglie. Nel 1995, mentre aveva luogo una conferenza sulla pace in Guatemala, Galtung fu invitato a un incontro con il negoziatore principale della parte peruviana sull’annosa questione confinaria che vedeva contrapposti da decenni i due paesi. Durante la sessione, ascoltò attentamente il discorso del negoziatore e notò come fosse dato per scontato che la zona confinaria contesa dovesse inevitabilmente appartenere a uno dei due Stati.

Gli venne, dunque, l’idea di chiedere al negoziatore principale se avesse mai pensato all’idea di trasformare quella zona contesa in una “zona binazionale con un parco naturale” da amministrare congiuntamente da parte dell’Ecuador e del Perù (Galtung and Fischer, 2013). Il negoziatore disse di non aver mai sentito una proposta simile in 30 anni di trattative di pace e che trovava l’idea interessante ma, probabilmente, “troppo” creativa. Tuttavia, pur essendo convinto che non avrebbe sortito alcun effetto, propose la cosa alla controparte che, sorprendentemente, la accolse apportando piccole modifiche. Questo accordo portò poi alla firma del Trattato di pace di Brasilia del 27 ottobre 1998. Ciascuna parte venne così incaricata di istituire due parchi naturali lungo il confine da amministrare congiuntamente, con la garanzia che gli unici autorizzati a effettuare operazioni di pattugliamento fossero gli addetti della “polizia ecologica”. L’istituzione dei parchi naturali sotto amministrazione congiunta ha comportato non solo la smilitarizzazione dell’area, ma ha anche garantito la tutela dell’ecosistema regionale e della sua straordinaria biodiversità.

L’idea di trasformare il territorio conteso in un’area comune da amministrare congiuntamente è stata efficace non solo nello spostare l’attenzione dei contendenti su altre questioni, ben più importanti della problematica confinaria, ma ha anche inaugurato una modalità molto ingegnosa di “trascendere” il conflitto facendo sì che la soluzione proposta risultasse migliorativa per tutte le parti coinvolte. Ha reso, infatti, possibile che venisse preservata la ricchissima biodiversità di quell’area a beneficio di tutti. La collaborazione dei due paesi nell’amministrare i parchi ha, inoltre, aiutato a rafforzare i legami tra le comunità locali che vivono nei territori circostanti migliorando le condizioni di vita degli abitanti. Il costo dell’intera “operazione” di mediazione si attestò intorno ai 250 dollari, una cifra del tutto imparagonabile ai costi che sarebbero derivati dalla prosecuzione di un conflitto armato, con le conseguenti distruzioni e devastazioni umani e materiali.

È difficile sovrastimare l’impatto delle idee di Galtung nella prassi. Nel manuale da lui scritto per le Nazioni Unite,  intitolato “La trasformazione dei conflitti con mezzi pacifici: il Metodo Trascend”, descrive il suo metodo come composto da tre fasi di lavoro sul conflitto: 1) dialogo con tutti i partecipanti al conflitto (anche con i “cattivi”) per capire gli obiettivi, le preoccupazioni e le paure di tutti e ottenerne la fiducia; 2) distinguere tra obiettivi a favore (legittimi) o contrari (illegittimi) ai bisogni umani fondamentali. Alla base della “legittimità “ vi è il principio che, se desideriamo qualche cosa dall’altro, dobbiamo essere disponibili a concederla anche noi; 3) rompere, attraverso la creatività, l’empatia e la nonviolenza, la distanza tra gli obiettivi legittimi ma in contrasto reciproco, con soluzioni accettabili da tutti e sostenibili nel tempo.

Una vita dedicata alla pace: l’eredità di Galtung

“Bastian contrario” come pochi, con l’avanzare degli anni i suoi interventi pubblici divennero via via sempre più polemici, facendogli guadagnare non poche critiche. Tra gli addetti ai lavori è ricordato non solo per i contributi fondamentali nel settore dei Peace Studies ma anche per la forte consapevolezza della sua caratura (è probabilmente l’autore con più self-citation al mondo!) e per il forte ego (ricordava spessissimo ai suoi interlocutori che era un genio e, in effetti, per certi versi lo era). Era dotato di una sferzante ironia.

Lo studioso norvegese non accettava facilmente critiche ed era restio ad ammettere i propri errori; tuttavia, è ammirabile la tenacia con la quale si è battuto durante tutta la vita per ampliare il concetto di pace, dissociandolo da quello di sicurezza (armata). Negli anni ’80, ad esempio, propose il “transarmo”, un passaggio progressivo dalla difesa offensiva alla difesa difensiva e, infine, alla difesa non-militare, che si ispirava alle dottrine strategiche di paesi neutrali come la Svizzera.

Tra le sue peculiarità, vi era quella di fare previsioni sul futuro. Una, in particolare, è degna di essere ricordata: nel 1980 affermò con decisione che, entro 10 anni, sarebbe avvenuto ciò che allora era “impensabile”, vale a dire che l’impero sovietico avrebbe visto la sua fine. La sua previsione era basata sull’esistenza di cinque contraddizioni che si alimentavano reciprocamente all’interno del suddetto “impero”: 1) il desiderio della classe operaia di avere dei sindacati; 2) il desiderio contrastante della borghesia di avere sempre più beni (e sempre migliori) da consumare; 3) il desiderio degli intellettuali di maggiori libertà di espressione e di stampa; 4) il desiderio delle minoranze di una maggiore autonomia; e infine 5) il desiderio dei contadini di una maggiore libertà di movimento. Circa due mesi prima dello scadere dei 10 anni da lui previsti, venne abbattuto il Muro di Berlino.

Galtung (1984) amava ripetere: “There are alternatives!”. Di fronte a percorsi già segnati, che sembrano trascinarci ineluttabilmente nella violenza e nella guerra, ricordiamoci, dunque, che ci sono sempre delle alternative. Per “trovarle” bisogna pensare fuori dagli schemi, nuotare contro corrente, pensare l’impensabile.

Per tutti coloro che si dedicano alla ricerca sulla/per la pace, Johan Galtung è stato un mentore insolitamente stimolante. Dotato di grande capacità retorica e di un forte carisma, era per lui facile circondarsi di studenti e simpatizzanti. In questo suo ruolo, fu sempre generoso e incoraggiante. Anche gli studiosi che, con il tempo, si sono allontanati dal suo pensiero, prendendo altre strade, non possono non riconoscergli il ruolo cruciale di apripista e l’instancabile impegno alla promozione della pace con mezzi pacifici (Bartolucci, 2024).

Bibliografia

Bartolucci, Valentina (2013), “Italian Peace Studies. Genesi, situazione e prospettive degli Studi per la Pace in Italia”, Scienza&Pace, vol. 4, n. 2.

Bartolucci, Valentina (2024), Il “Picasso della Pace”: Johan Vincent Galtung e l’incrollabile ostinazione a costruire la pace, Centro Studi Sereno Regis, 19 febbraio.

Boulding, Kenneth (1977), “Twelve Friendly Quarrels with Johan Galtung”, Journal of Peace Research, vol.14 no.1, pp. 75-86.

Galtung, Johan (1957), “Gandhi, Dolci e noi”, Il Ponte, marzo.

Galtung, Johan (1984), There Are Alternatives, Spokesman.

Galtung, Johan (1985), “Twenty-Five Years of Peace Research: Ten Challenges and Some Responses”, Journal of Peace Research, vol 22, No2, pp. 141-158.

Galtung, Johan (1996), Peace by Peaceful Means, Sage Publications.

Galtung, Johan (2000), “The Task of Peace Journalism”, Ethical Perspectives, 7(2-3), pp. 62- 167.

Galtung, Johan (2002), Peace Journalism – A Challenge”. In Kempf, Wilhelm & Loustarinen, Heikki (eds.), Journalism and the New World Order, Vol. 2. Studying the War and the Media, Nordicom.

Galtung, Johan (2003), “Danilo Dolci: nonviolenza, sociologia, poesia, azione”. In Costantino, S., Raccontare Danilo Dolci, Editori Riuniti.

Galtung, Johan (2011), “Arne Naess, Peace and Gandhi”, Inquiry, vol 54, No 1, pp. 31-41.

Galtung, Johan (2015), “Peace Journalism and Reporting on the United States”, The Brown Journal of World Affairs, vol 22, No 1, pp. 321-333.

Galtung, Johan & Dietrich Fischer (2013), Johan Galtung: Pioneer of Peace Research, vol. 5, Springer.

Naess, Arne (1958), “A Systematization of Gandhian Ethics of Conflict Resolution”, The Journal of Conflict Resolution, vol 2, No 2, pp. 140-155.

Urdal, Henrik (2022), “Inspiration from a Father: Johan Galtung”. In: Tønnesson, S. (eds.), Lives in Peace Research. Evidence-Based Approaches to Peace and Conflict Studies, vol 3. Springer.

Valentina Bartolucci è Ricercatrice aggregata del Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace” dell’Università di Pisa, insegna Sociologia della pace nel Corso di laurea in Scienze per la Pace della stessa università e si occupa di teoria dei conflitti, sicurezza e terrorismo.