L’eredità di Johan Galtung negli studi per la pace
di Erika Degortes
Lo scorso 17 febbraio è scomparso Johan Galtung, fondatore degli studi accademici per la pace. In questa occasione – in un momento storico in cui c’è tanto bisogno di riflettere su questi temi – per esprimere la gratitudine di essere stata al suo fianco negli ultimi quindici anni e per tutto quello che mi ha insegnato, ritengo che il miglior omaggio possa essere quello di toccare alcuni punti fondamentali dei suoi insegnamenti. A partire dalla sua repulsione per la guerra e la violenza e le critiche verso chi le perpetra, fino ad approdare al suo testamento intellettuale: la formula della pace.
Johan Galtung si è spento a 93 anni in Norvegia, suo paese natale, a cui non ha mai risparmiato feroci critiche per aver partecipato a tutte le ultime guerre e per aver “venduto l’anima agli Stati Uniti”. Queste stesse critiche le ha rivolte, negli ultimi sessant’anni, all’Occidente intero, senza nessuna paura, ricordando continuamente e con voce ferma che non esistono guerre fredde, guerre giuste o guerre umanitarie. La guerra è guerra, porta solo morte e devastazione, o meglio – usando le sue parole – traumi che poi vanno risanati.
L’Occidente è in declino – diceva – dal punto di vista militare, politico, economico e culturale. È impensabile continuare a minacciare e bombardare chi non ci piace e non è d’accordo con noi: è necessario sedersi a un tavolo, dialogare e negoziare. Anche dal punto di vista culturale, pensare di avere sempre tutte le risposte, è controproducente. Sarebbe utile, oltre che necessario, intavolare dialoghi con le altre civiltà: ce n’è più di una nel mondo – per esempio quella islamica, quella buddista, quella cinese, quella africana – e hanno molto da offrire.
Dovunque ci sia vita c’è dialettica, contraddizione, forze e contro forze. Il conflitto non si può “prevenire”, è fisiologico, ma la violenza si può e si deve prevenire. Come? Con empatia, nonviolenza e creatività, da usare nel modo più ampio possibile per concepire progetti che portino a una “cooperazione basata sul beneficio mutuo ed equo”, per usare le parole di Zhou Enlai.
L’equità è fondamentale per una soluzione sostenibile nel tempo. Johan Galtung non amava la terminologia “win-win” – anche questa tipicamente occidentale – perché da questa non emerge la disuguaglianza che spesso vi si nasconde. L’Occidente capisce perfettamente il significato di “mutuo”, ma non quello di “equo”. Infatti, cerca sempre di ottenere qualcosa in più rispetto agli altri, in termini politici, militari, economici o culturali. A volte lo fa per clonazione, spingendo gli altri paesi ad accettare il proprio “DNA culturale” in base alla convinzione che la propria civiltà sia superiore alle altre.
Non può esserci risoluzione se una parte “vince” il 90% e l’altra il 10%, anche se la vittoria, apparentemente, sembra esserci da entrambe le parti.
Esiste una formula più efficace del semplice “win- win”? Sì, esiste, ed è il testamento intellettuale che Galtung ci ha lasciato:
L’aver condensato in una formula l’agenda di qualsiasi operatore di pace, rispecchia la matrice matematica della sua formazione, che si riflette in tutti i suoi scritti. Chiunque abbia familiarità con la sua smisurata produzione – si tratti di libri, saggi brevi o articoli – ha ben presente che qualunque concetto si articola in punti, sottopunti, e rimanda ad altri concetti spesso espressi con acronimi e con frecce che si intrecciano a formare schemi. Questa caratteristica rende la lettura dei suoi scritti non sempre agile ai non addetti ai lavori.
Tuttavia, non si tratta soltanto di un aspetto formale o di uno stile di scrittura, ma era il modo in cui Johan Galtung vedeva il mondo: attraverso analogie, causalità, differenze fra il livello micro (fra persone), meso (fra gruppi), macro (fra stati e nazioni, che non sono la stessa cosa) e mega (fra macroregione e civiltà), espansione, contrazione, introducendo nuovi concetti e discorsi per capire meglio la realtà, senza per questo rigettare quelli vecchi.
Non era estraneo al suo stile coniare neologismi o combinare parole in modo originale. Quando le parole esistenti non bastano a descrivere la realtà esistente o quella desiderata, è necessario fare un salto in avanti anche dal punto di vista linguistico e semantico.
Oltre alle espressioni più celebri (“pace positiva”, “pace negativa”, “violenza strutturale”), ve ne sono alcune meno note come, per esempio, “paxogeni” – per indicare quegli elementi che vanno a rafforzare la pace – o “sanogeni” – in riferimento a quegli elementi che, invece, rafforzano la salute.
La pace, infatti, sta alla violenza come la salute alla malattia: così come diagnosi-prognosi-terapia ripetuti nel tempo hanno permesso di indebolire i patogeni e rafforzare i sanogeni, bisogna fare lo stesso per arrivare alla pace, indebolendo “i bellogeni”, quei fattori che rafforzano la guerra, e rafforzando i “paxogeni”.
Questa terminologia che gli veniva da un lessico famigliare – Galtung era nato in una famiglia di medici – è un altro punto cardine delle sue analisi ed è presente in tutti i suoi scritti. La capacità di elaborare una prognosi valida e accettabile è cruciale per elaborare una terapia efficace, a tutti i livelli: micro (quello del singolo individuo), meso (dello dei gruppi), macro (quello che coinvolge stati e nazioni), mega (quello che coinvolge le civiltà).
La formula della pace di Galtung risponde a un’esigenza precisa: illustrare a colpo d’occhio la complessità del concetto di pace e, soprattutto, indicare come orientare la prassi.
La formula, infatti, comprende il concetto di pace negativa (trauma x conflitto = assenza di violenza) e pace positiva (equità x armonia = presenza di cooperazione e armonia). Al denominatore la pace negativa, “i bellogeni”, non sono altro che il trauma non riconciliato e il conflitto non risolto (cioè gli obiettivi che sono rimasti incompatibili). Più si riducono, più aumenta il numeratore: la pace positiva. Più aumentano i “paxogeni”, cioè, l’equità (cooperazione a reciproco e uguale beneficio) e l’empatia (capacità di soffrire della sofferenza altrui e di godere della gioia altrui), più diminuiscono i bellogeni.
Nella formula ritorna anche il triplice significato del concetto di violenza: diretta, strutturale e culturale (a meno che non si intervenga). La violenza diretta, al denominatore, è quella che risalta agli occhi di tutti e che proviene dalla vendetta o dalla frustrazione di obiettivi che confliggono. La violenza strutturale, invece, la ritroviamo nel numeratore intesa come cooperazione senza uguaglianza. Essa consiste in quegli atti non intenzionali, di omissione, che mantengono intatte strutture politiche, economiche, militari e culturali di diseguaglianza. Sono queste strutture che generalmente uccidono e feriscono molto più di quanto faccia la violenza diretta. A queste due si aggiunge la violenza culturale che legittima quella diretta e strutturale.
In breve, per realizzare la pace positiva è necessario portare avanti quattro compiti principali: costruire equità, educare all’armonia, riconciliare i traumi, risolvere il conflitto. Se anche uno solo di questi viene disatteso, non possiamo sperare in soluzioni efficaci. Come si vede, sono tutti compiti inerenti alla relazione (con se stessi, fra gruppi, fra stati e nazioni e fra civiltà). Ognuno dei quattro deve essere portato avanti in una direzione costruttiva, concreta e creativa, cercando di evitare sterili moralismi e critiche. Di tutti questi fattori, la creatività può sembrare il più difficile. Non esiste una “scuola di creatività” ma questa è una capacità tipicamente umana, cui si può attingere a piene mani da tutti i luoghi del pianeta, non solo da uno e neanche sempre dallo stesso.
Ai conoscitori delle teorie galtunghiane non sfuggirà che la formula della pace include anche il triangolo ABC: attitudine, comportamento (in inglese, behaviour), contraddizione.
Nell’armonia-empatia del numeratore ritroviamo la A (attudine) del triangolo. La B (behaviour) si ritrova nella cooperazione-equità nei loro aspetti di pace, non negli aspetti negativi, di odio e violenza. La C (contraddizione) sta ovviamente nel conflitto che, se trasformato, può diventare la forza motrice dell’evoluzione umana perché stimola la ricerca delle soluzioni e quindi la creatività.
La formula si basa su una visione olistica di sistemi in contraddizione e mira al trascendimento di quest’ultima attraverso una mediazione basata sul dialogo e la ricerca di una nuova realtà a beneficio mutuo ed equo.
Si possono costruire relazioni talmente positive da arrivare a desiderare di contribuire al miglioramento, non alla distruzione dell’altro o di un altro paese. Ci sono molti modi per realizzarlo: un commercio che sia reciprocamente vantaggioso, un turismo per la compartecipazione della natura e della cultura, il sostegno reciproco davanti alla o davanti a catastrofi sociali e naturali, e in più, così facendo, ci si mette al servizio della costruzione della pace nel mondo.
Erika Degortes è co-fondatrice del “Galtung Institute for peace theory and peace practice“, Grenzach-Wyhlen (Germania) e autrice del volume Alla Scoperta di Galtung, Centro Gandhi Edizioni, Pisa, 2017.