giovedì, Aprile 18, 2024
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Guerre in Jugoslavia: cosa hanno fatto i nonviolenti

Le guerre jugoslave degli anni Novanta del Novecento segnano uno spartiacque per il movimento pacifista e nonviolento: ne ricostruisce il senso profondo Giulio Marcon, in questo articolo pubblicato su Gli asini – la rivista. Dopo decenni di lotte contro la guerra e gli armamenti nucleari, caratterizzati da una forte impronta anti-statunitense, i conflitti che hanno causato la dissoluzione dell’ex Jugoslavia hanno sollevato sfide inedite, sul piano dell’analisi e delle pratiche di intervento. Si è trattato di un conflitto vicino ed estremamente complesso, che ha spinto il movimento per la pace ad approfondire lo studio delle cause e abbracciare una posizione non più a favore di una parte del conflitto o equidistante, ma equivicina alle parti coinvolte. Costruendo relazioni con i movimenti pacifisti e nonviolenti dei paesi coinvolti, ha preso avvio allora una forma di pacifismo concreto, al fianco delle vittime, sostenuto da una molteplicità di azioni: dall’aiuto umanitario all’accoglienza dei profughi, dalla diplomazia dal basso all’interposizione nonviolenta nei luoghi di guerra. Queste esperienze meritano di essere ripensate oggi, nel corso della guerra in Ucraina, per dare strumenti concreti di azione a chi non si arrende alla logica della risposta armata alle armi, ma vuole spezzare la spirale della violenza per fare spazio a veri negoziati di pace.

 

Di Giulio Marcon

Quando iniziò la guerra in Jugoslavia, con la secessione della Slovenia dalla Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia a fine giugno del 1991, il movimento pacifista veniva da dieci anni di lotte e mobilitazioni contro il riarmo nucleare e la militarizzazione del territorio. Nella prima metà degli anni Ottanta nasceva un grande movimento contro l’installazione degli euromissili Cruise a Comiso con l’organizzazione di manifestazioni con centinaia di migliaia di persone (due volte a Roma, a Milano, a Comiso, Perugia-Assisi, ecc.) e nella seconda metà del decennio continua la lotta per il disarmo e contro le basi USA e della Nato (Gioia del Colle, Isola di Capo Rizzuto, Aviano, Sigonella, Ghedi, ecc.). Sempre in questi anni avevano un grande sviluppo campagne come quelle per l’obiezione di coscienza al servizio militare (che premeva per una riforma della legge 772 del 1972, per la piena equiparazione al servizio militare e la trasformazione dell’obiezione da “beneficio” a diritto) e la campagna per l’obiezione fiscale alle spese militari. Nascevano nuove organizzazioni e movimenti come l’Associazione per la pace, i Beati costruttori di pace e la sezione italiana di Pax Christi.

Prima dello scoppio delle guerre jugoslave, negli anni Ottanta il movimento pacifista e nonviolento italiano si confrontò con guerre possibili e catastrofiche (il rischio di guerra nucleare negli anni Ottanta), con guerre lontane e brevi (come in Iraq), con guerre dimenticate (come in Africa) di cui non parlava nessuno. La protesta pacifista fu quasi sempre, spesso, una protesta antiamericana: dal Vietnam all’Iraq, erano gli Stati Uniti i responsabili principali dell’interventismo militare nel mondo, Ma proprio poco prima del 1980 è invece l’URSS – con l’intervento in Afghanistan – a imitare gli Stati Uniti nel voler sottomettere chi nel “cortile di casa” non ci stava ad essere sottomesso: manifestazioni pacifiste non ce ne furono.

 

Le guerre jugoslave

Le guerre jugoslave furono almeno cinque: la breve guerra tra Federazione jugoslava e la Slovenia del luglio 1991, quella più lunga e e drammatica tra Federazione e Croazia sempre nell’estate del 1991, la guerra in Bosnia-Erzegovina tra serbo-bosniaci e l’alleanza tra musulmani e croato-bosniaci tra il 1992 e il 1995; la guerra dei croati bosniaci contro i musulmani in Bosnia-Erzegovina nel 1993-1994; la guerra in Kosovo nel 1999. A queste guerre vanno aggiunti I conflitti tra macedoni e albanesi nel 2001 e in Sangiaccato negli anni Novanta.

Queste guerre misero a nuova prova il movimento pacifista italiano che dovette confrontarsi con una guerra complessa, vicina e lunga. Una guerra complessa perché interna, nazionale (con radici complicate) in cui era difficile identificare il “nemico” con una parte sola. Una guerra vicina perché bastavano poche ore – attraversando il confine con la Slovenia o viaggiando in nave da Ancona – per stare “al fronte”, nelle aree di combattimento. Una guerra lunga, perché durò un decennio e non era una fiammata come la guerra guerra del golfo nel 1991, contro cui si organizzarono manifestazioni e mobilitarono milioni di persone.

Di fronte allo scoppio della guerra in Jugoslavia, nessuno pensò ad una manifestazione nazionale o ad altre iniziative “eclatanti”, le si considerava inutili: c’era il bisogno di capire, di confrontarsi, di studiare le modalità migliori con cui muoversi, le iniziative più efficaci da prendere. Di fronte a guerre provocate dalla bramosia di potere delle leadership nazionaliste (soffiando sul fuoco dei secolari contrasti nazionali ed etnici) in cui si mescolano motivi sociali ed economici, religiosi e atavici, i pacifisti hanno dovuto fare uno sforzo per adeguare le loro analisi e cambiare anche atteggiamento, più umile e rispettoso rispetto alle certezze delle precedenti epoche. Sempre di più capirono che invece di essere equidistanti bisognava essere equivicini a tutte le comunità nazionali (alle popolazioni civili, a chi si opponeva) coinvolte nel conflitto.

Le categorie della guerra fratricida e della guerra d’aggressione si rivelavano inadeguate a descrivere e ad interpretare le guerre jugoslave. Si trattava di una guerra nazionale, interna, che divideva le comunità al pari di molte altre guerre che si stavano propagando nel mondo, soprattutto in Africa (Ruanda, Sudan). Per usare l’espressione di Mary Kaldor si trattava di nuove guerre, “asimmetriche” con protagonisti attori non statali (bande, milizie irregolari, ecc.) dediti alla pulizia etnica e al business dell’economia nera. Le vittime non erano effetti collaterali, ma la posta in gioco, l’oggetto di una guerra crudele e incontrollata.

 

La carovana per la pace

All’inizio il movimento pacifista si trovò spiazzato, impreparato: fu organizzata una manifestazione a Trieste a fine giugno del 1991, si presero contatti con le organizzazioni nonviolente e degli obiettori di coscienza della Slovenia (allora ero impegnato nel Servizio civile internazionale e prendemmo contatti con la nostra organizzazione partner per i campi di lavoro a Lubjana), si organizzarono le prime iniziative. Durante l’estate si ebbe la seconda secessione, quella della Croazia. I combattimenti – rispetto alle scaramucce in Slovenia – furono ben più ampi e la zona confinaria abitata dai serbi in Croazia (la Krajina) si separò da Zagabria. Proprio in quei giorni si teneva la riunione annuale della END (European Nuclear Disarmament) nei paesi baschi: venne deciso di organizzare una “carovana della pace” in Jugoslavia alla fine di settembre del 1991. Poco prima della secessione slovena era nata la Helsinki Citizens Assembly (HCA), coordinamento di organizzazioni pacifiste e di movimenti civici dell’est e dell’ovest che aveva deciso anch’essa di organizzare iniziative e attività di dialogo in ex Jugoslavia.

Alla carovana per la pace del 1991 parteciparono dall’Italia (con pochissimi europei), circa 400 persone, con dei pullman che partirono da Trieste e toccarono Fiume, Lubjana, Zagabria, Belgrado e Sarajevo. Una parte della carovana andò anche in Kosovo e in Macedonia. L’iniziativa promossa da molte organizzazioni italiane (Arci, Acli, Associazione per la pace, Pax Christi, Beati i costruttori di pace, ecc.) fu organizzata grazie alla collaborazione delle organizzazioni pacifiste delle città jugoslave, in particolare i centri antiguerra di Zagabria e di Belgrado e il Centro internazionale per la pace di Sarajevo. Un punto di riferimento fondamentale furono Sonia Licht, Stascia Kandic, Ibrhaim Spahic, i giornalisti indipendenti e le donne in nero jugoslave. A Sarajevo la carovana si concluse con una catena umana che abbracciò i quattro centri religiosi, simbolo della convivenza: la sinagoga, la cattedrale ortodossa, la moschea, la cattedrale cattolica. La Carovana per la pace fu una occasione fondamentale per coinvolgere le organizzazioni pacifiste italiane nel futuro impegno sul campo: non solo per la conoscenza di quello che stava succedendo, ma anche per i tanti contatti che furono stabiliti, per le relazioni che furono allacciate.

 

Il pacifismo concreto

In un convegno sull’azione nonviolenta a Verona del 1992 Alex Langer propose una classificazione del pacifismo in tre categorie: il pacifismo tifoso, che ha sempre bisogno di un nemico per mobilitarsi, il pacifismo dogmatico che non tiene conto della realtà e si sente vincolato solo ai suoi inossidabili principi e il pacifismo concreto che della realtà tiene conto e che mette in campo iniziative utili e fattive: la solidarietà e l’aiuto umanitario, la diplomazia dal basso, il sostegno alla società civile, l’interposizione nonviolenta. In ex Jugoslavia – ricordava Langer – era proprio il pacifismo concreto che si stava mettendo alla prova con l’aiuto agli sfollati, l’organizzazione di campi profughi, l’invio di aiuti, la promozione degli incontri tra oppositori alla guerra delle diverse nazionalità.

Le guerre jugoslave costringevano i pacifisti a mettere da parte i dogmi e i principi inossidabili e nello stesso tempo ad archiviare la ricerca del nemico contro cui organizzare marce e manifestazioni. Bisognava essere meno dogmatici e più problematici/analitici, meno declamatori e più concreti, meno retorici e più realisti, scrivere meno documenti roboanti e più appelli alla solidarietà, meno propagandisti e più pragmatici. Nacquero in Italia centinaia di gruppi, comitati, coordinamenti locali con l’obiettivo di sostenere le attività umanitarie e di solidarietà in ex Jugoslavia. Si stabilirono dei veri e propri gemellaggi di solidarietà tra le città: Ivrea e Cervia con Mostar, Treviso e Modena con Novi Sad, Trento con Prijedor, Brescia con Zavidovici. Ogni giorno partivano convogli di aiuti attraversando il confine con la Slovenia o salpando con le navi di linea da Spalato ad Ancona. Si moltiplicavano le iniziative di accoglienza (diffusa nei territori, senza grandi campi come poi è successo di recente con i migranti provenienti dall’Africa) dei rifugiati in Italia: ne furono accolti ben 120mila negli anni Novanta. Nel contempo si svolgevano molte attività nonviolente: si davano aiuto e rifugio agli obiettori di coscienza croati e serbi, si preparava e si realizzava la “marcia dei 500” nel dicembre del 1992.

Le guerre jugoslave furono il primo caso in cui i pacifisti italiani ebbero il modo di vivere direttamente la guerra (si calcola che furono oltre 40mila i pacifisti, i volontari, i soccorritori che andarono nelle zone di guerra tra il 1991 e il 1999), sperimentare nuove pratiche, aggiornare la loro capacità analitica e cultura politica. Soprattutto dopo l’inizio della guerra in Bosnia-Erzegovina (aprile 1992) queste forme di intervento si moltiplicarono e interessarono tutto il paese.

 

Il Consorzio italiano di Solidarietà

Alla fine di maggio del 1993 era nato il Consorzio italiano di solidarietà (Ics – Italian Consortium of Solidarity). Oltre 120 organizzazioni nazionali (tra cui Arci, Acli, Anpas, Legambiente, Associazione per la pace, ecc.) e locali decidevano di darsi un coordinamento per intervenire nelle aree di conflitto della ex Jugoslavia. Si stabilivano forme di collegamento, si offrivano supporti logistici, si dava aiuto organizzativo. Ad Ancona e a Spalato venivano realizzati due magazzini in cui depositare e distribuire gli aiuti: ogni giorno partivano camion e furgoni da tutta Italia che venivano portati ad Ancona e poi a Spalato e da lì in tutte le aree di conflitto. Uffici Ics nascevano in tutta la ex Jugoslavia: Mostar, Sarajevo, Belgrado, Zenica, Nis, ecc. A Trieste l’ufficio rifugiati coordinava tutte le attività di assistenza e di accoglienza dei profughi in Italia. Proprio pochi giorni dopo la nascita dell’Ics – alla fine di maggio del 1993 – tre volontari bresciani furono uccisi da una banda di nazionalisti in Bosnia mentre portavano aiuti a Zavidovici. Anche questo drammatico evento diede maggiore impulso alla necessità di coordinamento e di organizzazione dei gruppi locali che fino ad allora avevano agito non sempre nelle condizioni di sicurezza necessarie per evitare conseguenze tragiche di assalti e ferimenti.

Le guerre jugoslave furono un banco di prova fondamentale per il movimento pacifista italiano.

Gli obiettori di coscienza erano pienamente coinvolti in Italia nelle attività di solidarietà, qualcuno – con gesto di disobbedienza (gli obiettori non potevano svolgere il servizio all’estero) – andò a dare una mano anche in ex Jugoslavia. Più tardi l’associazione Papa Giovanni XXIII organizzò il servizio civile di alcuni obiettori di coscienza nelle zone di guerra, anche in questo caso sfidando le norme della legge del 1972. Nacque così il movimento dei “caschi bianchi”, una presenza di peace keeping e di interposizione civile e non violenta, per portare aiuto e sostenere i processi di riconciliazione tra le comunità. L’Ics non solo faceva solidarietà e portava aiuti, ma faceva anche politica: aiutava gli oppositori (dei diversi campi) alla guerra, li ospitava per colloqui segreti in Italia, mandava soldi alle radio indipendenti. Era capace di proposta politica: nel 1994 l’Ics lanciò l’ipotesi – documentata e articolata – di 100mila caschi blu dell’Onu da inviare in Bosnia-Erzegovina per impedire i combattimenti tra le fazioni. Le cosiddette “aree protette” (tra cui Sarajevo, Zepa, Bihac Goradze, Srebrenica, Tuzla) erano presiedute da soli 7mila soldati dell’Onu e sappiamo come andò a finire a Srebrenica: il centinaio di soldati olandesi dell’Onu furono facilmente neutralizzati dalle truppe di Mladic e 8mila persone furono trucidate dalle milizie serbo-bosniache.

Conclusioni

Le guerre jugoslave furono un banco di prova fondamentale per il movimento pacifista italiano. Nacquero nuove esperienze e gruppi (alcuni attivi ancora oggi), si sperimentarono pratiche nuove e si formò una cultura politica inedita: la solidarietà, la diplomazia dal basso, l’azione nonviolenta e la disobbedienza civile si forgiarono non in astratto, ma dentro le temperie di una guerra feroce e prolungata. La concretezza delle pratiche fu sempre un punto di riferimento fondamentale. I pacifisti sperimentarono sul campo la peculiarità di quelle nuove guerre che attraversarono il mondo negli anni Novanta; crebbe la capacità analitica, di comprensione dei teatri di guerra di quegli anni. Certo il pacifismo non riuscì a fermare la guerra, ma nemmeno le medie e le grandi potenze di quegli anni, con strumenti e possibilità ben superiori. I pacifisti vennero alla consapevolezza della necessità improrogabile di quello che don Tonino Bello aveva chiamato l’Onu dei popoli, per il quale i pacifisti marciarono in quegli anni da Perugia ad Assisi. Quando nel 1992 l’allora segretario generale delle Nazioni Unite Boutros Ghali varò l’Agenda per la pace – che voleva dare all’Onu strumenti e poteri per prevenire e affrontare i conflitti – le superpotenze e gli stati più importanti la affossarono.

Le guerre jugoslave durarono un decennio e – come tutte le fasi storiche intense, partecipate, emotivamente coinvolgenti: pensiamo alla Resistenza, al Vietnam, al ‘68, ecc. – plasmarono una generazione, ebbero un impatto psicologico, pedagogico e formativo enorme sulle migliaia di persone del nostro paese che andarono in quei luoghi durante il conflitto, accolsero i profughi a casa loro, organizzarono le attività di solidarietà nelle proprie comunità. È stato l’ultimo movimento di solidarietà internazionale di massa che abbiamo avuto nel nostro paese: un movimento non ideologico, ma concreto, pragmatico e animato dai valori più alti, la difesa della vita umana, la solidarietà, la pace e la nonviolenza.

 

Per approfondire

AAVV, Addio alle armi, Edizioni Cultura della pace, 1991.

AAVV, Fare la pace. Pacifismo e nonviolenza alle soglie del terzo millennio, Kaos edizioni, 1992.

Consorzio italiano di solidarietà, Solidarietà dal basso, Lunaria, 1992.

Mary Kaldor, Le nuove guerre, Carocci, 2000.

Alex Langer, Pacifismo concreto, Edizioni dell’Asino, 2010.

Giulio Marcon, Le ambiguità degli aiuti umanitari, Feltrinelli, 2003.

Giulio Marcon, Fare la pace, Edizioni dell’Asino, 2014.

Amoreno Martellini, Fiori nei cannoni. Nonviolenza e antimilitarsimo in Italia nel Novecento, Donzelli editore, 2006.

Josep Palau, El Espejismo Jugoslavo, Ediciones del Bronce, 1996.

Luca Rastello, La guerra in casa, Einaudi, 1998.

 

 Fonte: Gli asini, 30 ottobre 2021.