sabato, Aprile 27, 2024
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“Non puoi dire quello che pensi”: le paure degli arabi israeliani

I circa 2 milioni di cittadini arabi di Israele costituiscono la più grande minoranza etnica del paese: praticano varie religioni (musulmana, cristiana, drusa), sono generalmente bilingui e appartengono a diversi strati sociali. Nonostante l’articolo 10 della Dichiarazione d’Indipendenza di Israele affermi che “lo Stato di Israele garantirà completa parità di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso; garantirà la libertà di religione, coscienza, lingua, istruzione e cultura”, gli arabi-israeliani vivono frequenti discriminazioni. Inoltre il 18 luglio 2018 il Parlamento israeliano ha approvato una legge che, per la prima volta nella storia del paese, definisce Israele come “la casa nazionale del popolo ebraico“, offrendo una potenziale base legale per trattamenti sfavorevoli nei confronti dei cittadini arabi e di altre comunità non ebraiche. Da quando il conflitto israelo-palestinese è entrato nell’attuale fase di escalation, molti cittadini arabi israeliani vivono un clima di forte e crescente ostilità, accompagnato da comportamenti apertamente discriminatori: esprimere opinioni contrarie alla guerra o mostrare solidarietà con i palestinesi di Gaza ha comportato licenziamenti dal lavoro, sospensioni di studenti dall’università e persino arresti di comuni cittadini: le autorità inquadrano tali opinioni come un incitamento alla violenza o un sostegno ad Hamas. Ripubblichiamo in traduzione italiana un articolo apparso su The National, quotidiano in lingua inglese pubblicato ad Abu Dhabi di proprietà del vice primo ministro degli Emirati Arabi Uniti, in cui si dà voce alle paure degli arabi israeliani e alle preoccupazioni di attivisti per i diritti umani impegnati a contrastare questa ondata di ostilità e richiamare la Guardia Civile Israeliana al suo dovere di tutelare la sicurezza di tutte e tutti.

di Thomas Helm

Mentre infuria la guerra a Gaza, sui media continua il dibattito sui bombardamenti dell’esercito israeliano sull’enclave che ospita più di due milioni di persone. Ma per i palestinesi che vivono all’interno di Israele, condividere in pubblico le loro opinioni a riguardo può avere un prezzo elevato. Un numero crescente di persone è stato licenziato dal lavoro o sospeso dall’università per aver espresso opinioni contrarie alla guerra, considerate dalle autorità come forma di sostegno ai militanti di Hamas che, il 7 ottobre scorso, hanno ucciso più di 1.400 tra civili e militari israeliani.

“Le cose non sono mai andate così male come adesso”, ha dichiarato al The National un parlamentare arabo israeliano del Nord del paese, che ha voluto rimanere anonimo. “Non puoi letteralmente dire nulla di critico, perché possono sempre ricondurre le tue posizioni al fatto che sei arabo o musulmano. Non ho mai pensato di andarmene, ma ultimamente non riesco a pensare ad altro. E non sono solo io. Molte persone qui la pensano allo stesso modo: non si può vivere in un posto dove non si può esprimere ciò che si pensa”. Ed ha aggiunto: “Sono contrario a qualsiasi tipo di guerra, ma non posso dirlo, perché sarei visto come qualcuno che sostiene l’altra parte”.

La polizia israeliana ha dichiarato mercoledì [22 ottobre] di aver arrestato 110 persone, per lo più arabo-israeliane, sospettate di incitare alla violenza dopo l’inizio della guerra. Di queste 17 sono state effettivamente incriminate. La notizia è arrivata mentre la Bezalel Academy of Arts and Design di Gerusalemme ha dichiarato di aver sospeso almeno 9 studenti per presunti commenti che incitano alla guerra.

Un rappresentante degli studenti palestinesi in università, che non ha voluto essere nominato per paura di ritorsioni, ha dichiarato che la maggior parte delle denunce provengono da un gruppo studentesco sionista formatosi durante la crisi israelo-palestinese del maggio 2021 [la crisi è scaturita dalle proteste contro una decisione della Corte Suprema di Israele in merito allo sgombero di alcuni residenti palestinesi a Sheikh Jarrah, un quartiere di Gerusalemme Est, territorio occupato ai sensi del diritto internazionale ma annesso di fatto da Israele nel 1980, ndr]. Il rappresentante ha accusato l’università di non trattare le accuse in modo imparziale e di sospendere gli studenti che hanno semplicemente pubblicato sui social versetti coranici.

Il crescente inasprimento della censura verso le voci dei palestinesi all’interno di Israele ha rinnovato i timori di una recrudescenza delle violenze che, da ultimo nel 2021, avevano segnato numerose città a popolazione mista israeliana e palestinese.

“Si vedono persone che vengono licenziate per aver messo like a un post su Instagram o per aver cambiato la loro foto profilo con un messaggio contro la guerra. La situazione sta peggiorando di ora in ora” ha dichiarato Alon-Lee Green, responsabile del movimento pacifista Standing Together [si tratta di un movimento di base che riunisce cittadini ebrei e palestinesi di Israele nel perseguimento della pace, dell’uguaglianza, della giustizia sociale e climatica, ndr]. “È difficile o forse addirittura impossibile poter dire che anche a Gaza ci sono bambini e persone innocenti. Se lo dico come ebreo, vengo condannato come traditore, ma se lo dice un palestinese, pur essendo entrambi cittadini dello stesso paese, lui viene considerato un sostenitore del terrorismo”.

Il movimento pacifista ha istituito una linea telefonica diretta per i cittadini palestinesi che “vengono criminalizzati per le loro convinzioni o solo per la loro etnia”. “Riceviamo centinaia di chiamate al giorno, facciamo quello che possiamo fare per contrastare le difficoltà vissute dai cittadini arabi di Israele”. Alcuni chiamano perché hanno troppa paura di andare a fare la spesa da soli, mentre altri vogliono semplicemente parlare. “Stiamo lavorando molto duramente per trovare un modo per diminuire la tensione e sopravvivere a questa fase, per affermare che questa società è fatta di ebrei e arabi che vivono insieme. Puntare il dito contro i cittadini arabi, come sta facendo la destra, non risolverà nulla. Creerà solo più violenza e tensione”.

Itamar Avneri, un altro membro di spicco del movimento e candidato al Consiglio comunale di Tel Aviv, è volontario della Guardia di solidarietà arabo-ebraica di Jaffa, una delle 15 in tutto il Paese che cerca di prevenire e contenere la violenza, promuovendo relazioni più strette tra cittadini ebrei e palestinesi. Quasi 4.000 persone si sono unite a un gruppo WhatsApp che organizza “pattuglie civili”, monitorando l’incitamento alla violenza e le minacce fisiche contro gli arabi. “Molti studenti si sentono attaccati”, ha dichiarato Avneri. “Abbiamo persone che si occupano della linea telefonica diretta e altre che sono state addestrate per diminuire la tensione in caso di violenza”. “Alcune persone ci ringraziano”, ha detto a proposito delle interazioni avute a Jaffa. “Altri ci dicono: ‘mi sarei unito a voi due settimane fa, ma ora non posso’”.

Ad alimentare i timori degli arabi israeliani c’è anche l’annuncio da parte ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, di aver dato disposizioni per acquistare 10.000 fucili per armare le squadre di sicurezza formate da civili, in particolare nelle località vicine al confine, nelle città miste arabo-ebraiche e negli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Sono stati acquistati anche elmetti e giubbotti antiproiettile, che verranno distribuiti insieme ai fucili d’assalto. Il sostegno dato dal Ministro a queste squadre è stato molto criticato, anche prima della guerra in corso, come un tentativo di costituire una sorta di milizia privata.

Ben-Gvir, noto per aver incitato in passato alla violenza contro i palestinesi in Israele e nella Cisgiordania occupata, ha giurato di voler “continuare ad armare Israele” mentre la guerra a Gaza continua. “L’obiettivo è terrorizzarci”, ha affermato Jafar Farah del Centro Mossawa di Haifa, che lavora per la piena uguaglianza dei cittadini palestinesi in Israele. “Non hanno bisogno di altre armi nella Striscia di Gaza. Le stanno spingendo verso le città miste. Abbiamo paura di quello che faranno, ma credo che anche i cittadini ebrei dovrebbero avere paura” ha dichiarato.

“Ci vogliono dipingere come il volto del nemico e ci trattano come il nemico interno. La polizia opera in modo discriminatorio. Da una parte, ci sono enormi limitazioni alla libertà di parola: qualsiasi dichiarazione di solidarietà con Gaza viene trattata pesantemente dalle forze dell’ordine. Dall’altra parte, non si fa nulla per affrontare l’incitamento alla violenza contro i cittadini palestinesi”.

Ad Haifa una conferenza arabo-ebraica è stata annullata dopo che la polizia israeliana ha avvertito il proprietario della sede delle “conseguenze” che ne sarebbero seguite, ovvero la chiusura dello spazio, accusando l’evento di essere un incitamento contro Israele. La conferenza annullata intendeva chiedere la fine immediata della guerra e la protezione dei civili dalla spirale della violenza”. “Si tratta di un passo estremamente pericoloso” ha aggiunto. “Fa parte di un assedio politico contro i cittadini arabi israeliani, finalizzato anche a impedire la loro convergenza con le forze progressiste e democratiche della società ebraica”.

Nonostante le difficoltà, Avneri ritiene che le alleanze [tra ebrei e palestinesi contrari all’uso della violenza, ndr] portino con sé la speranza di un cambiamento dopo la guerra. “È difficile parlare di pace, ora. Ma speriamo che il lavoro insieme costruisca un ponte, per israeliani e palestinesi, dopo la guerra. Sia gli israeliani che i palestinesi non si sposteranno: nel profondo dei loro cuori, la maggior parte delle persone che vivono qui, sia ebrei che arabi, lo sanno”.

Fonte: The National, 30 Ottobre 2023.