sabato, Aprile 27, 2024
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Un nuovo governo per la Tunisia: tra stato d’emergenza e crisi multidimensionale

di Guendalina Simoncini

Dopo oltre due mesi e mezzo dal colpo di mano del Presidente Kais Saied – che lo scorso 25 luglio ha congelato le attività del parlamento, assumendo di fatto pieni poteri – dall’11 ottobre 2021 la Tunisia ha un nuovo governo che è guidato da una donna, Nejla Bouden Romdhane.

Bouden ha dichiarato che la missione del nuovo governo sarà quella di “ripristinare la fiducia dei cittadini nello Stato tunisino e dei paesi stranieri e di lottare contro la corruzione”. Tuttavia, il nuovo esecutivo godrà di prerogative considerabilmente ridotte rispetto ai governi precedenti, per effetto delle disposizioni del Decreto presidenziale numero 117 emanato da Saied il 22 settembre. Il Decreto, pieno di incoerenze giuridiche, concentra i poteri nelle mani del Presidente della Repubblica andando verso un regime presidenziale: all’articolo 8 stabilisce che “il potere esecutivo è esercitato dal Presidente della Repubblica assistito da un Governo diretto da un Capo di Governo”, limitando dunque anche i poteri dei diversi ministeri. Tale Decreto ha di fatto sospeso la Costituzione del 2014, fatta eccezione per il preambolo e i primi due capitoli che riguardano le disposizioni generali e i diritti e le libertà, stabilendo misure d’eccezione temporanee in previsione di un vero e proprio emendamento costituzionale accompagnato da importanti riforme in programma.18 tra le più importanti organizzazioni della società civile tunisina hanno definito tale Decreto come “un primo passo verso l’autoritarismo” e una “svolta che minaccia i diritti umani e le aspirazioni democratiche del popolo tunisino”. Nel mese di luglio, mentre alcuni osservatori hanno immediatamente espresso la loro preoccupazione di fronte alle decisioni annunciate, definendo gli avvenimenti un colpo di stato, una importante frangia della popolazione ha sostenuto la scelta del Presidente Saied.

Tuttavia, nonostante il desiderio di Saied di rompere con il sistema politico vigente, i 17 ministri e le 8 ministre che si accingono ad assisterlo, nell’esercizio dell’esecutivo, non sembrano segnare un significativo taglio con l’establishment. In effetti, colpisce la nomina del banchiere Samir Said a Ministro dell’Economia e della Pianificazione, e la stessa nomina di Nejla Bouden Romdhan, nonostante la mancanza di esperienza politica precedente, è stata interpretata come un tentativo di strizzare un occhio alla classe alto-borghese tunisina.

 

Nejla Bouden Romdhan: prima donna a ricoprire il ruolo di capo del governo in un paese arabo

La nomina di Bouden è stata celebrata da media nazionali ed internazionali con giubilo come prova del progresso e dell’emancipazione delle donne tunisine. Tuttavia, come Renata Pepicelli ha affermato in una recente intervista radio (GR2, Rai Radio 2, 30/09/2021), tale nomina deve contestualizzarsi nell’attuale panorama politico, segnato da un progressivo accentramento di poteri nelle mani del Presidente. Sebbene sia la prima volta che una donna ricopra tale ruolo nella storia di un paese arabo, la nomina di Bouden deve leggersi nel contesto del regime d’eccezione che continua a vigere in Tunisia. Inoltre, secondo alcuni osservatori ed osservatrici questa nomina ricorda pratiche di femminismo di Stato proprie dei vecchi regimi. L’intellettuale Hatem Nafti ha recentemente osservato: “È una cosa molto bella aver nominato una donna Prima Ministra, ma quello che è davvero un peccato è che tale ruolo sia stato svuotato di tutta la sua sostanza”. Da parte di alcuni gruppi femministi esiste, infatti, una diffusa diffidenza nei confronti di Bouden e del nuovo governo perché, come sottolineato da Ikram Ben Said, “le donne in posizioni di potere non servono necessariamente l’agenda e gli interessi delle donne.”

 

Uno stato d’eccezione prolungato

Come si diceva poc’anzi, la nomina del nuovo governo non implica un’interruzione dello stato d’eccezione, che viene mantenuto, così come la sospensione delle attività del Parlamento e la revoca dell’immunità dei parlamentari stabilite dal Presidente il 25 luglio scorso. Gli avvenimenti attuali riposizionano al centro del dibattito il regime derogatorio e interrogano sulla sistematicità con la quale lo stato d’emergenza è stato, a partire dalla rivoluzione del 2011, utilizzato come un vero e proprio strumento di governo in Tunisia: dapprima in relazione agli avvenimenti rivoluzionari, poi alla lotta antiterrorista, ed infine all’emergenza sanitaria da Covid-19, con una evoluzione significativa conseguente alla presa dei poteri da parte di Saied. La Tunisia vive da ormai più di un decennio sotto il regime d’eccezione, in contrasto con gli obblighi internazionali che impongono il rispetto della temporaneità dello stato d’emergenza e la promozione e rispetto dei diritti fondamentali che invece vengono sistematicamente violati nel contesto dell’eccezionalità.

 

Le preoccupanti violazioni di diritti fondamentali

Se è vero che il Presidente Kais Saied gode di un ampio sostegno da parte della popolazione e che la reazione da parte di alcune frange della società civile tunisina ha tardato ad arrivare, dopo le dichiarazioni del 22 settembre e la promulgazione del Decreto 117, le voci critiche nei confronti dell’appropriazione di pieni poteri da parte del Presidente si sono moltiplicate, denunciando l’assenza di meccanismi di controllo e chiedendo che siano fissate delle scadenze precise per il ripristino dello stato di diritto per uscire dall’emergenza.

Il regime derogatorio, operando ampi trasferimenti di poteri nelle mani del Ministero degli Interni e ora della Presidenza della Repubblica, si è dimostrato negli anni post-rivoluzionari un terreno fertile per la violazione di diritti e libertà. Negli ultimi due mesi sono avvenuti numerosi arresti anche tra deputati e magistrati in posizioni critiche con la Presidenza di Saied, e si è visto il triste ritorno dei civili come imputati nelle corti militari per crimini riconducibili all’opinione e/o alla libertà di espressione. Tali atti sono stati denunciati in un recente comunicato del Sindacato Nazionale dei Giornalisti Tunisini, che ha espresso profonda preoccupazione per le violazioni dei diritti duramente conquistati con la rivoluzione di dicembre 2010-gennaio 2011. Sono tornate anche pratiche appartenenti al passato, come gli accerchiamenti da parte della polizia delle case di privati cittadini ed attivisti. Recentemente, la casa di Jawhar Ben Mbarek, professore di diritto costituzionale, nonché organizzatore delle ultime proteste contro Kais Saied dello scorso 10 ottobre, è stata circondata da decine di poliziotti senza motivo. Alcune misure di controllo amministrativo, tra cui la cosiddetta S17, ovvero una limitazione alla libertà di movimento dentro e fuori i confini nazionali, è stata recentemente imposta anche a deputati del parlamento sciolto dal Presidente. Si tratta però di misure evidentemente extragiudiziarie, poiché applicate unilateralmente e segretamente dal Ministero degli Interni, privando i cittadini interessati del diritto di appello.

L’Associazione tunisina di Difesa delle Libertà Individuali ha pubblicato negli scorsi giorni un rapporto sulle violazioni di diritti civili e politici commesse a partire dal 25 luglio 2021, dal quale traspare un preoccupante inasprimento delle misure di controllo e di repressione.

 

Una grave crisi multidimensionale

Gli ultimi dieci anni in Tunisia sono stati duramente segnati dalla rivoluzione, dalla violenza politica e da una profonda crisi economica e sociale alla quale i numerosi governi alternatisi non sono riusciti a mettere un freno. Queste condizioni, acuite dalla pandemia da Covid-19, che nel primo semestre del 2021 ha portato il numero delle vittime a oltre 20.000, hanno dato vita a un sentimento di insoddisfazione nei confronti di una classe politica giudicata troppo lontana dalle vere preoccupazioni dei cittadini e delle cittadine, segnata dalla corruzione dilagante e dall’incapacità di trovare delle risposte alla crisi multidimensionale che attanaglia il paese.

A partire dalla sua peculiare campagna elettorale nel 2019, Kais Saied ha saputo cavalcare questa ondata di malcontento, proponendosi come una figura “pulita” e capace di comunicare alle differenti frange della popolazione, soprattutto a quella giovane. Nutrite manifestazioni continuano a tenersi a partire dal mese di luglio 2021 in sostegno al Presidente, alternandosi ad altre (altrettanto numerose) di protesta. Tuttavia, l’opposizione stenta a organizzarsi e i partiti facenti parte del governo dissolto si trovano in una situazione debole e ambigua, come il partito Ennahda che ha visto l’uscita di 113 membri dalle sue fila qualche settimana fa.

Tuttavia, sebbene si respiri una sorta di cristallizzazione della situazione politica dopo gli eventi del 25 luglio, la crisi sociale ed economica continua a incalzare. La migrazione irregolare ha conosciuto un nuovo aumento: secondo i numeri forniti dal Forum Tunisino per i Diritti Economici e Sociali, dopo la data del 25 luglio, circa 7.500 tunisini avrebbero tentato di emigrare irregolarmente via mare verso l’Italia.

 

Nuovi scenari

A due anni precisi dalla sua investitura, nell’ottobre 2019, Kais Saied ha concentrato di fatto i poteri nelle sue mani e gode di un forte sostegno. Tuttavia, la preoccupazione di alcuni componenti della società civile tunisina non è legata soltanto alla figura dell’attuale Presidente della Repubblica, ma piuttosto alla natura delle misure stabilite nel decreto 117. Questo desta preoccupazione poiché, indebolendo le garanzie democratiche stabilite nel 2014 dall’Assemblea costituente post-rivoluzionaria, apre le porte a una potenziale deriva autoritaria. Il decreto potrebbe essere strumentalizzato da altri potenziali attori, in caso Saied perda popolarità e sostegno. Gli scenari sono molteplici, come è recentemente emerso in un interessante dibattito ospitato dall’organizzazione canadese Alternatives: da monitorare, sarebbero soprattutto il settore della difesa, sul quale Saied si sta appoggiando sempre più palesemente, e quello degli Interni, che esercitano una forte pressione politica attraverso i sindacati di polizia.

Romdhan Ben Amor del Forum Tunisino per i Diritti Economici e Sociali ha sottolineato la mancanza di effettive prospettive e alternative concrete per il ruolo di Presidente, mentre il ricercatore Mohammed Dhia Hammami ha sostenuto che Saied non sarà in grado di soddisfare le richieste popolari, incapace di dare una svolta alla crisi economica e sociale che attanaglia il paese. Per entrambi la preoccupazione è che le misure di eccezione prese da Saied, e la sua revisione della Costituzione, possano in un futuro aprire la strada alla svolta autoritaria da parte di altri attori.

A dieci anni dalla rivoluzione del gennaio 2011, la Tunisia attraversa dunque una nuova stagione di crisi istituzionale e politica, che va a sommarsi a una difficilissima situazione economica e sociale. Tuttavia, come sottolinea Aziz Krichen, “le rivoluzioni, come le opere di teatro classiche, non vengono mai rappresentate in un unico atto”1.

 

Nota

1 Aziz Krichen, La promesse du printemps (Paris: Editions de la Sorbonne, 2018).

 

Guendalina Simoncini è laureata in Studi Arabo Islamici ed è attualmente dottoranda presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Pisa. La sua tesi riguarda le politiche di sicurezza e i diritti umani nella Tunisia post-rivoluzionaria.