mercoledì, Aprile 24, 2024
Diritti

I corpi senza nome del Mediterraneo: la dignità dei morti e i diritti dei familiari

di Cecilia Siccardi

Numeri e problemi

Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni dal 2014 a oggi sono morte, traversando il Mediterraneo centrale, 22.721 persone. La tratta più pericolosa è il Canale di Sicilia, divenuto negli ultimi anni un vero e proprio cimitero.

A seguito dei naufragi, i corpi dei migranti annegati molto spesso non vengono recuperati e giacciono sui fondali marini. Nei pochi casi in cui vengono recuperati dalle autorità italiane o dalle navi delle ong, i cadaveri non sono identificati e sono seppelliti in tombe anonime nei cimiteri siciliani. Basti pensare che dal Registro dei cadaveri non identificati, istituito presso il Ministero dell’Interno, risultano 1.670 corpi di migranti vittime di naufragi. Solo nel 2020 dei 942 corpi annotati nel registro, 132 sono stati recuperati in mare.

L’assenza di idonee procedure di recupero e identificazione dei corpi dei migranti annegati ha conseguenze devastanti sui familiari, che non conosceranno mai il destino infausto del loro caro.

Perché i cadaveri dei migranti non vengono recuperati e identificati come in qualsiasi altro caso di incidente navale?

In primo luogo, le operazioni di recupero sono ostacolate dalle enormi difficoltà logistiche e dagli ingenti costi che contraddistinguono il recupero dei cadaveri in mare. Banalmente, in questi casi non vi è un’assicurazione che possa coprire le spese delle operazioni, né una lista passeggeri da cui partire per svolgere adeguate ricerche.

In secondo luogo, le procedure di identificazione – che materialmente avvengono mediante l’incrocio dei dati post e ante mortem – sono rese impossibili dalle oggettive difficoltà di reperire i dati ante mortem, in possesso delle famiglie che, tuttavia, non sono nella maggior parte dei casi a conoscenza del naufragio.

In terzo luogo, non esistono norme, né a livello interno, né a livello sovranazionale, volte a definire procedure comuni e a individuare le autorità o gli Stati responsabili di fronte a situazioni di questo tipo.

Del problema si stanno occupando da anni, in stretta sinergia, due team di ricerca dell’Università degli Studi di Milano: da un lato, i medici legali del LABANOF (Laboratorio di antropologia e odontologia forense), coordinati dalla prof.ssa Cristina Cattaneo, impegnati in prima linea nel portare a termine le procedure di identificazione dei corpi dei migranti; dall’altro lato, i giuristi del Dipartimento di Diritto pubblico Italiano e sovranazionale, coordinati dalla Prof.ssa Marilisa D’Amico, dediti a individuare possibili soluzioni idonee a porre fine alle numerose violazioni di diritti umani che emergono di fronte alle morti nel Mediterraneo e che saranno riassunte in questo articolo.

 

La diversa gestione di due drammatici naufragi

L’assenza di obblighi normativi chiari risulta evidente osservando le indagini avviate a seguito di due naufragi, nel corso delle quali i PM sono giunti a decisioni opposte riguardo alla necessità di procedere all’identificazione dei corpi dei migranti annegati.

Ci si riferisce, in particolare, ai naufragi di Lampedusa del 3 e dell’11 ottobre del 2013, nei quali hanno perso la vita più di 400 persone, e al naufragio di un’imbarcazione al largo delle coste libiche nell’aprile 2015, rimasta in fondo al mare con circa 800 corpi al suo interno.

Nel primo caso, il procuratore di Agrigento ha ritenuto necessario procedere all’identificazione dei cadaveri, prelevare il loro DNA e confrontarlo con quello dei parenti. Si trattava, secondo il PM, di un atto dovuto al fine di garantire ai familiari delle vittime «il diritto di costituirsi parte civile».

Diversamente, nel caso riguardante il naufragio dell’aprile del 2015, il procuratore di Catania, avendo già raccolto tutti gli elementi probatori utili per formulare la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti dei presunti “scafisti”, ha ritenuto che «il recupero di quei corpi non fosse utile alle indagini» . In questo caso, a differenza del naufragio del 3 ottobre 2013, avvenuto a pochi metri dalle coste di Lampedusa, l’identificazione dei corpi risultava particolarmente complessa dato che l’imbarcazione si trovava sui fondali a 700 metri di profondità con quasi un migliaio di corpi incastrati al suo interno.

Nonostante la decisione del PM e l’evidente complessità dell’operazione, il Governo italiano è intervenuto con un’imponente azione della Marina militare volta al recupero dello scafo colato a picco. L’Università degli Studi di Milano, coadiuvata da esperti di altre Università e dalla polizia scientifica, ha così potuto procedere alle operazioni di identificazione dei corpi e di raccolta dati.

L’iniziativa seppur meritevole rischia di rimanere isolata, in assenza di un quadro normativo chiaro. Anzi, le opposte decisioni dei PM rispetto alla doverosità delle procedure di identificazione di fronte del medesimo fatto – il naufragio di un’imbarcazione carica di persone – rendono d’obbligo una riflessione di carattere generale: l’ordinamento impone il rispetto della dignità dei defunti? Quali diritti possono vantare i familiari dei migranti annegati nel Mediterraneo? Di conseguenza, esiste un obbligo giuridico all’identificazione dei corpi?

 

La dignità dei morti

Il tema della tutela post mortem è delicato dal punto di vista giuridico. Si dice infatti “i morti non hanno diritti”, poiché è noto che la capacità giuridica si acquista dal momento della nascita (art. 1 Cod. civ).

Nonostante tale concezione trovi le sue radici già nel diritto romano, è innegabile che l’assenza di identificazione del corpo, potrebbe ledere alcune volontà espresse dai migranti in vita.

L’identificazione del cadavere è, ad esempio, il presupposto per rispettare la volontà testamentaria di una persona, come previsto dalle norme in materia di successioni. Ancora, l’identificazione del cadavere è il presupposto per garantire il diritto a scegliere il luogo di sepoltura, secondo un determinato rito religioso (è il cosiddetto “diritto al sepolcro primario”).

In generale, l’impossibilità di associare un nome al cadavere rischia di ledere un principio fondamentale della nostra cultura giuridica: il rispetto della dignità dei defunti.

A livello sovranazionale, tale principio è sancito, ad esempio, dalla Convezione sui diritti dell’uomo e della biomedicina. Sul tema la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel caso Elberte c. Lettonia (2015), ha affermato chiaramente che la Convenzione prevede il rispetto della «dignità, identità e integrità di tutte le persone, siano esse vive o morte».

A livello interno, l’obbligo di rispettare la dignità dei morti si evince dal Capo II del Titolo IV del Codice penale, significativamente intitolato “Dei delitti contro la pietas dei defunti”, che individua nella dignità dei morti, il bene giuridico oggetto di protezione.

Da ultimo, non si può non richiamare la nostra Costituzione, la quale richiama la dignità in tre disposizioni (l’art. 3, l’art. 36 e l’art. 41). La tutela della dignità umana è dunque un obbligo espresso in numerose norme del nostro ordinamento, anche di rango costituzionale, e certamente “non può spegnersi con la morte”.

 

I diritti dei familiari

L’incertezza riguardo alla sorte di una persona cara, nel caso di un “ambiguos loss”, provoca profondi stati di angoscia, impedendo l’elaborazione del lutto. Tale situazione ha un effetto negativo sul godimento di molteplici diritti dei familiari dei migranti annegati nel Mediterraneo, come dimostrano numerosi rapporti di organizzazioni internazionali.

Uno studio condotto nel 2015 dal Working Group on Enforced or Involuntary Disappearances delle Nazioni Unite ha analizzato le conseguenze che l’assenza di notizie riguardo a una persona scomparsa può comportare sui diritti sociali ed economici delle famiglie.

Soprattutto in paesi caratterizzati da situazioni economico-sociali complesse, la scomparsa delle persone dal contesto familiare può compromettere il godimento di alcuni diritti, quali il diritto alla salute, all’educazione, il diritto a prendere parte alla vita culturale e sociale della comunità, il diritto alla sicurezza, alla proprietà e il diritto alla casa.

Molte volte l’incertezza sulla sorte del familiare impedisce alle famiglie di poter accedere al patrimonio di quest’ultimo e alle misure di assistenza sociale. A titolo esemplificativo, la mancanza di un certificato di morte potrebbe precludere il diritto all’eredità, mettendo a rischio lo stesso diritto alla casa.

L’assenza del certificato di morte potrebbe compromettere il diritto all’unità familiare. A volte, infatti, i genitori che partono per l’Europa lasciano i figli nei paesi di origine, sperando, una volta giunti a destinazione, di effettuare la procedura per il ricongiungimento familiare. Tuttavia, se i genitori perdono la vita durante la traversata, in assenza di un certificato di morte nessun altro parente residente in Europa potrà provvedere al ricongiungimento dei minori rimasti orfani, spettando tale diritto solamente per i figli naturali, adottati, affidati o sottoposti a tutela.

Il godimento di tutti questi diritti è inscindibilmente legato alla consapevolezza della morte del proprio familiare: esiste un diritto a conoscere il destino del proprio caro? I familiari dei migranti scomparsi nel Mediterraneo potrebbero far valere tale diritto?

Il cosiddetto right to know the truth è un pilatro della tutela accordata dal diritto internazionale ai familiari delle persone scomparse. Esso è sancito dal diritto internazionale dei diritti umani ed è stato affermato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in casi riguardanti “sparizioni forzate”.

A causa delle sofferenze provocate alle famiglie, in perenne attesa di notizie riguardo al loro caro, la Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato gli Stati convenuti per violazione dell’art. 3 CEDU, il diritto a non subire trattamenti disumani e degradanti, riconoscendo in capo ai familiari l’esistenza del right to know the truth.

Nelle situazioni prese in considerazione dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la scomparsa o l’assenza di informazioni riguardo alle persone è stata causata dal comportamento delle autorità statali. Per tale ragione, in questi casi è possibile condannare lo Stato responsabile della scomparsa. Diversamente, nel caso dei migranti annegati nel Mediterraneo non è possibile individuare uno Stato responsabile del naufragio, il quale non necessariamente coincide – in assenza di norme sul punto – con lo Stato competente al soccorso.

 

Come intervenire?

Le norme ripercorse e i principi sanciti dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, pur trattando problematiche differenti da quella in esame, dimostrano la necessità di individuare degli strumenti volti a porre fine alla violazione della dignità dei morti e dei diritti umani dei familiari dei migranti scomparsi nel Mediterraneo.

Come visto, le iniziative portate avanti dal Governo italiano, insieme all’Università degli Studi di Milano, possono certamente rappresentare un modello, ma in assenza di norme in materia rischiano di rimanere in balia delle diverse sensibilità politiche.

La via da seguire dovrebbe essere quella della cooperazione fra Stati, al fine di individuare, a livello sovranazionale ed europeo, regole e standards comuni (anche non vincolanti) per affrontare il problema dei corpi dei migranti scomparsi. Solo la politica internazionale può scegliere le modalità per definire gli Stati o i soggetti responsabili al recupero e all’identificazione, nonché le procedure idonee per la raccolta dei dati ante e post mortem.

In mancanza di una presa di posizione nel senso descritto, i corpi senza nome del Mediterraneo rendono drammaticamente attuale il pensiero di Hannah Arendt, che individuava nei profughi il «simbolo del fallimento» del sistema dei diritti umani, proprio a causa dell’assenza di un’entità statale disposta a farsene carico.

 

Cecilia Siccardi è assegnista di ricerca in Diritto costituzionale all’Università degli Studi di Milano, dove insegna diritto antidiscriminatorio, e ricercatrice aggregata al Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace” dell’Università di Pisa. Nelle sue ricerche si occupa di contrasto alle discriminazioni e tutela dei diritti, con particolare riferimento ai diritti degli stranieri e delle donne.