venerdì, Aprile 19, 2024
ConflittiCultura

Ucraina: dalla parte della pace

di Valentina Bartolucci e Giorgio Gallo

 

Si è molto parlato in questi giorni, a proposito dell’attuale intensificarsi del conflitto armato in Ucraina a seguito della gravissima aggressione russa, della distinzione tra “etica dell’intenzione” ed “etica della responsabilità”. L’“etica dell’intenzione” o “dei principi” fa riferimento a principi generali e assoluti, e non si preoccupa delle conseguenze che l’adesione a tali principi comporta. È un’etica deontologica che agisce mossa da “dogmi” considerati fondamentali senza curarsi di ciò che essi causeranno. L’“etica della responsabilità”, invece, è consequenzialista, valuta cioè criticamente le conseguenze dell’agire umano e non può che operare a partire da una seria e articolata analisi della realtà da cui ha origine l’esigenza dell’azione e del contesto in cui tale azione si dovrà svolgere.

A ben guardare, tuttavia, sembra che, nell’attuale dibattito pubblico sulla guerra in Ucraina, più che uno scontro tra “etica dell’intenzione” e “etica della responsabilità”, ce ne sia uno fra due versioni diverse di etica dell’intenzione. Da un lato, infatti, troviamo i pacifisti “senza se e senza ma”, che rifiutano le armi sempre e comunque, “amici della pace” sventolanti bandiere colorate che di colpo ammutoliscono quando viene loro chiesto “e allora, cosa proponete di fare?”. La loro posizione si basa su un principio etico astratto e indipendente da una qualsiasi analisi del contesto in cui si svolge il conflitto e delle responsabilità delle parti in causa. Dall’altro lato, invece, troviamo chi, in una situazione in cui c’è un aggressore e un aggredito, ritiene che l’imperativo morale, di nuovo “senza se e senza ma”, comporti il porsi dalla parte dell’aggredito. Anche qui l’analisi del contesto manca, riducendosi alla sola, semplicistica, individuazione dell’aggredito. L’unica risposta ritenuta possibile è quella di inviare armi, perché l’aggredito non soccomba, mancando del tutto una seria analisi delle conseguenze di tale scelta. La convinzione che è alla base di questa scelta risponde alla prevalente “cultura di guerra” da cui sembra non si riesca a uscire.

Il principio etico di mettersi sempre dalla parte della vittima, dell’aggredito nel caso di una aggressione, o più in generale degli ultimi, è fondamentale e fa parte anche della nostra tradizione giudaico-cristiana. Ricordiamo a questo proposito Emmanuel Lévinas, filosofo di origine ebraica, quando dice, in Difficile libertà: “Il Messia è il giusto che soffre, che ha preso su di sé la sofferenza degli altri […]. E, concretamente, questo significa che ognuno deve agire come se fosse il Messia”. Il punto non è se mettersi o meno dalla parte dell’aggredito, ma come farlo, naturalmente dopo avere analizzato seriamente le diverse possibili conseguenze delle nostre azioni. È quello che hanno fatto molti tra coloro che si oppongono all’invio/uso di armi in Ucraina. L’analisi della complessa realtà del conflitto e delle conseguenze che deriverebbero della scelta di inviare armi è, invece, troppo spesso carente da parte di coloro che questa scelta sostengono. Va usualmente poco oltre il “si deve fare”, “è una scelta obbligata” o “non mandare armi vuol dire essere complici”.

È significativo a questo proposito il fatto che il conflitto venga rappresentato come un contrasto fra due entità ben definite, omogenee, senza distinzioni al loro interno e collocate in una sorta di spazio vuoto. È quello, ad esempio, che fa Vito Mancuso quando, in un articolo sulla Stampa del 6 marzo, parla di “guerra giusta” e richiama le parole di Gandhi: “Supponiamo che un uomo venga preso da una follia omicida e cominci a girare con una spada in mano uccidendo chiunque gli si pari dinnanzi, e che nessuno abbia il coraggio di catturarlo vivo. Chiunque uccida il pazzo otterrà la gratitudine della comunità e sarà considerato un uomo caritatevole”. È un tipico errore: usare un esempio di conflitto fra individui per trarre conclusioni su un conflitto fra entità molto più complesse quali gli Stati, che non sono realtà date una volta per tutte, ma realtà in continua evoluzione, sia per le dinamiche interne, spesso molto complesse, che per le relazioni con le altre entità che agiscono a livello sistemico. Che nel conflitto in questione non si possano trascurare le interazioni con gli altri attori a livello internazionale lo coglie bene Tomaso Montanari, in un articolo sul Fatto Quotidiano dell’11 marzo, quando osserva come l’Ucraina sia stata usata “come una scacchiera per una lunga partita con Putin, pur sapendo benissimo che quando questi avrebbe perso la scacchiera, non avremmo potuto salvare gli scacchi, cioè i corpi degli uomini e delle donne ucraini”. Uomini, donne e anche bambini sacrificati nella speranza di mettere Putin all’angolo, in uno scenario che rischia di fare dell’Ucraina il nuovo Afghanistan, e che gli fa concludere: “non è realismo: è avventurismo con la pelle degli altri”.

Quello a cui fa riferimento Montanari è il contesto esterno, ma quello che è non meno importante è quello interno. L’Ucraina non è un “monolite” ma, come per altro tutti i Paesi, è una realtà complessa e diversificata, in termini politici, culturali e anche economici. Una complessità e diversità che la guerra, che non dimentichiamoci va avanti sia pure a bassa intensità dal 2014, tende a cancellare. La prima vittima è stata la diversità linguistica e culturale del Paese. Le nuove norme di legge sulla lingua, entrate in vigore nel 2019, ben prima dell’aggressione di Putin, impongono nei media l’uso dell’ucraino escludendo quello del russo, in un contesto in cui la minoranza russa supera il 17% e il russo è parlato da quasi il 30% della popolazione. Paradossalmente può essere invece utilizzato l’inglese. Dopo l’aggressione russa sono stati messi al bando 11 partiti considerati “russofili”. Fra questi, un partito che conta di una rappresentanza di quasi il 10% del Parlamento ucraino. In realtà la guerra, e l’invio di armi che la alimenta, cambia le stesse società dei Paesi coinvolti e le cambia in peggio. Dà spazio e forza alle componenti più estremiste e violente, spegne il dissenso e rafforza quelle identità basate su “sangue e terra” che troppo spesso sono all’origine della violenza. Questo lo stiamo verificando sia in Ucraina che, soprattutto, in Russia.

Che fare allora? Esiste un’alternativa alla guerra che non sia la resa? Può essere a questo proposito interessante ricordare un caso di resistenza civile non armata e nonviolenta a noi molto vicino, quello della resistenza del popolo danese all’occupazione nazista fra 1940 e il 1945. Troppo inferiore in armamenti, la Danimarca non resistette con le armi all’occupazione, ma non per questo la accettò. Subito, nel 1940, girò fra la popolazione un volantino in cui si indicava cosa i danesi dovessero fare: rifiuto di lavorare per i tedeschi, sforzo minimo nell’assisterli, distruzione dei macchinari e degli strumenti tedeschi, boicottaggio delle merci tedesche e protezione di chiunque fosse oppresso e minacciato dall’occupante. Si trattò all’inizio di una iniziativa personale, ma divenne ben presto, con la diffusione in tutto il Paese, un vero e proprio programma di azione per la resistenza. Una resistenza che prese diverse forme: manifestazioni, scioperi, sabotaggi e, particolarmente importante e significativo, protezione degli ebrei, quasi ottomila, di cui circa 1400 erano tedeschi riparati in Danimarca prima della guerra. Molti degli ebrei furono traghettati nottetempo in Svezia, altri nascosti dalle famiglie danesi. Solo poche centinaia furono arrestate e trasferite in Germania. Un piccolissimo contributo alla sconfitta di Hitler a livello mondiale, ma non tanto piccolo per gli ebrei salvati, né per la stessa società danese, che ne uscì più forte, coesa e con un maggiore senso della collettività. Di questo esempio di resistenza civile tratta anche Hannah Arendt in La Banalità del Male. Eichmann a Gerusalemme, evidenziando come la ferma, nonviolenta, resistenza danese avesse messo in difficoltà lo stesso occupante, in qualche modo cambiando il suo atteggiamento. Da qui il suo contenere e ridurre l’uso della forza nel rastrellamento degli ebrei.

Un caso, quello della resistenza danese, molto particolare e irripetibile? Non sembra proprio. Al di là dei contributi fondamentali di Gandhi, di Aldo Capitini, e, negli anni ‘70, di Gene Sharp che fa un’analisi dettagliata delle tattiche di lotta nonviolenta, negli ultimi venti anni l’argomento è oggetto di una sistematica ricerca empirica, che ha mostrato come la difesa non armata e nonviolenta sia più efficace della risposta armata, anche contro i despoti/tiranni. È, inoltre, una difesa più sostenibile nel lungo tempo perché comporta meno sofferenze, contribuisce a ricostruire e a compattare la società (anche nel caso in cui fallisca, si veda quanto accaduto in Cecoslovacchia nel 1968) e, spesso, riesce anche a mettere in discussione l’aggressore stesso, aiutando le componenti della sua società civile più attente alla pace e ai diritti umani.

Ma che fare quando la guerra è ormai scoppiata e sta infliggendo morti, distruzioni ed enormi sofferenze alla popolazione civile? Certamente non è facile rispondere a questa domanda, ma difficilmente la risposta può essere quella di continuare ad armare i combattenti. È certamente necessario un impegno più forte, e soprattutto intelligente ed efficace, per portare le parti a un vero negoziato. Ma è anche importante sostenere quelle componenti della società civile, delle parti in conflitto, che si oppongono alla guerra. Esistono anche in Ucraina, dove ci sono stati tentativi di azioni di resistenza civile nonviolenta e di obiezione all’uso delle armi. Ad esempio, il giornalista ucraino Ruslan Kotsaba, presidente della “Ukrainian Pacifist Society” e, inizialmente, sostenitore della rivoluzione che nel 2014 ha portato alla deposizione del presidente filo-russo Viktor Yanukovych, dopo avere visto, durante una visita nel Donbass, la brutalità con cui le milizie e i coscritti di entrambe le parti combattevano la guerra nata dal tentativo di secessione delle provincie russofone, il 23 gennaio 2015 ha pubblicato un video su YouTube in cui affermava: “Preferirei andare in prigione piuttosto che entrare in una guerra civile ora e uccidere i miei compatrioti che vivono nell’Est”. Per questo, un paio di settimane dopo, Kotsaba è stato arrestato e detenuto per 16 mesi in attesa del processo, processo che ancora oggi non si è concluso.

Successivamente, sin dall’inizio dell’invasione delle truppe russe, sono stati diversi i tentativi di fermarle in modo nonviolento. Cittadini ordinari hanno utilizzato sacchi di cemento e sabbia per bloccare le strade ai carri armati russi e hanno cercato di impedire l’avanzata degli stessi utilizzando il proprio corpo o semplicemente camminando lentamente verso i mezzi corazzati con le braccia alzate al cielo. Queste azioni hanno colto di sorpresa i militari russi, mettendoli in difficoltà. Così è stato anche per il gesto di una vecchietta che, di fronte all’avanzata dell’esercito russo a Henychesk, si è avvicinata ai soldati con le braccia aperte, ha frugato in una delle sue tasche alla ricerca di una manciata di semi di girasole e ha provato a metterli nella tasca del soldato che aveva di fronte, dicendo che sarebbero diventati fiori quando i soldati sarebbero morti su quella terra. La vecchietta interagisce con il soldato, che è palesemente a disagio, ma che è costretto a interagire a sua volta, umanamente, con la donna. Queste sono solo alcune delle azioni nonviolente, semplici ma potentissime, capaci di modificare lo sguardo e il comportamento dell’altro. Non combattere, dunque, non equivale ad arrendersi, significa non usare violenza (che non è la stessa cosa della forza). La nonviolenza, spesso vista come lo strumento del debole, diventa in questa ottica la strategia del forte, potenzialmente molto rischiosa perché gli attori rischiano moltissimo, anche la morte (non che coloro che combattono con le armi non la rischino). E certamente talvolta può anche non funzionare, ma aiuta a riequilibrare i rapporti di forza e a vedere l’altro in un’ottica diversa. Nell’approccio nonviolento, infatti, l’altro viene trattato come un essere umano (e non disumanizzato, come nella guerra) e questo può portare a un ripensamento profondo della relazione (come è successo nel caso danese). La resistenza nonviolenta, infatti, disorienta proprio perché utilizza strumenti diversi e può costringere di conseguenza l’altro a ripensare il proprio metodo e a ripensare le alleanze. I video che hanno girato in internet mostravano chiaramente l’imbarazzo dei soldati russi che magari sparavano in aria, ma non contro i manifestanti.

Il 3 aprile, è stato pubblicato su Avvenire un articolo in cui si parla di donne che tornano in Ucraina, dopo avere lasciato al sicuro in Italia e in Francia i loro figli. Rivendicano il diritto a non esser d’accordo con i loro mariti che combattono, pur continuandoli ad amare, e a resistere senza imbracciare armi: “non lasceremo né le nostre città né i nostri anziani e … siamo disposte a far da barriera ai carri armati. Come? Magari con le bandiere della nostra identità”. E l’opposizione alla guerra esiste anche in Russia, dove, per sfuggire alla fortissima repressione, assume forme nuove e originali, quali messaggi contro la guerra scritti su banconote o mostrati da pupazzetti lasciati in giro che “manifestano” contro la guerra esponendo cartellini con parole o immagini di pace.

In uno degli articoli letti in questi giorni si scrive, con riferimento ai pacifisti, che porgere l’altra guancia va bene purché sia la propria e non quella degli altri. L’idea sottesa è che il pacifista farebbe pagare le proprie scelte agli altri, al popolo aggredito in questo caso. Al contrario di chi interviene inviando armi per sostenere chi combatte e paga di persona. Ma è davvero così? Certo chi combatte rischia, e non poco, ma chi paga davvero sono le decine di migliaia di vittime civili dei bombardamenti e dei combattimenti, e i milioni di profughi, soprattutto anziani, donne, e bambini, conseguenza della scellerata aggressione dell’Ucraina da parte di Putin. A loro nulla è stato chiesto, né hanno avuto la possibilità di esprimere il proprio consenso o dissenso. E le ferite le porteranno probabilmente per sempre. Diversa è la resistenza civile nonviolenta, che qualcuno in Ucraina ha cercato di iniziare e sta ancora, fra grandi difficoltà, portando avanti. Una lotta di cui sarà lui o lei la sola a subire le conseguenze. Sono loro che dobbiamo incoraggiare e aiutare dall’esterno, e, perché no, anche dall’interno.

 

Valentina Bartolucci è Ricercatrice aggregata del Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace” dell’Università di Pisa, insegna Sociologia della pace nel Corso di laurea in Scienze per la Pace della stessa università e si occupa di teoria dei conflitti, sicurezza e terrorismo.

Giorgio Gallo è uno dei fondatori del Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace” dell’Università di Pisa, di cui è stato il primo Direttore. Informatico, esperto di modelli e metodi di decision-making in situazioni di conflitto, si interessa da molti anni alla situazione in Palestina.