sabato, Aprile 27, 2024
ConflittiDiritti

Naufragio di Pylos: le responsabilità greche nel racconto dei sopravvissuti

Sono più di 580 i morti e i dispersi nel naufragio avvenuto al largo di Pylos lo scorso 14 giugno. Partita da Tobruk, Libia, in direzione dell’Italia meridionale, l’imbarcazione ha avuto un guasto al motore, ma i ritardi e le modalità stesse dei soccorsi hanno contribuito alla strage finale. L’evento ha suscitato indignazione in tutta Europa: sia le autorità greche che quelle europee sono state duramente criticate e ritenute co-responsabili dell’accaduto. In questo articolo l’European Council on Refugees and Exiles (ECRE), coalizione di 117 organizzazioni non governative impegnate nella difesa dei diritti dei rifugiati e dei richiedenti asilo, dà conto del dibattito pubblico seguito al naufragio e ricostruisce le ultime ore dell’imbarcazione attraverso le testimonianze dei superstiti e le inchieste giornalistiche disponibili. Emerge una versione che contraddice radicalmente quella ufficiale greca e che rende ancora più paradossale il fatto che le uniche persone attualmente indagate siano nove sopravvissuti accusati di essere membri dell’equipaggio del peschereccio. 

C’erano circa 750 persone, tra cui 100 bambini, a bordo del peschereccio partito da Tobruk, in Libia, con l’obiettivo di raggiungere l’Italia, quando il 14 giugno l’imbarcazione è affondata nel Mar Ionio al largo di Pylos, a 87 km dalla costa greca. Solo 104 persone sono state tratte in salvo, secondo quanto riferito da un superyacht privato che ha risposto alle richieste di soccorso. Alla fine, sono stati recuperati 82 corpi, mentre i dispersi sono oltre 500.  

In base alle testimonianze dei sopravvissuti, i passeggeri pakistani erano costretti a stare sottocoperta, mentre quelli di altre nazionalità potevano salire sul ponte superiore, con maggiori possibilità di sopravvivere a un eventuale capovolgimento. Le testimonianze hanno rivelato anche come donne e bambini fossero effettivamente “rinchiusi” nella stiva per essere “protetti” dagli uomini nella nave sovraffollata. Il 18 giugno The Guardian ha riferito che “non ci siano sopravvissuti tra donne e bambini […]. I media locali hanno riferito che sono morti almeno 298 pakistani, 135 dei quali provenienti dalla parte pakistana del Kashmir”. 

La tragedia ha scatenato forti reazioni a livello internazionale e locale da parte di numerosi soggetti politici e istituzionali. 

Il sindaco di Kalamata, dove sono stati portati i sopravvissuti, ha dichiarato: “Per noi la vita umana non ha prezzo e faremo del nostro meglio per sostenere i sopravvissuti e le loro famiglie in questo momento difficile”. Ad Atene e Salonicco 5.000 persone sono scese in piazza per protestare e solidarizzare con le vittime della tragedia.  

L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) e l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) hanno chiesto “un’azione urgente e decisiva per prevenire ulteriori morti in mare dopo la recente tragedia nel Mediterraneo, la peggiore da diversi anni”. Entrambe le organizzazioni hanno ricordato, inoltre, “sia ai comandanti che agli Stati” che “il dovere di soccorrere senza indugio le persone in pericolo in mare è una regola fondamentale del diritto marittimo internazionale”, sottolineando che tale dovere si impone “indipendentemente dalla loro nazionalità, dal loro status o dalle circostanze in cui si trovano, anche su imbarcazioni non idonee, e indipendentemente dalle intenzioni di coloro che sono a bordo”.  

Il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatović, ha dichiarato: “Il naufragio della scorsa settimana al largo delle coste greche è l’ennesimo promemoria del fatto che, nonostante i numerosi avvertimenti, le vite delle persone in mare continuano a essere a rischio a causa dell’insufficiente capacità di salvataggio e coordinamento, della mancanza di rotte sicure e legali e di solidarietà, e della criminalizzazione delle ONG che cercano di fornire assistenza salvavita”.  

La relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione della difesa dei diritti umani, Mary Lawlor, ha dichiarato: “È chiaro che il disastro è stato il prodotto di decisioni politiche. Sebbene la Grecia e l’Unione Europea, anche attraverso Frontex, l’Agenzia per la guardia di frontiera e costiera, abbiano attribuito la responsabilità della catastrofe ai trafficanti di esseri umani, non sono loro il motivo per cui le persone scelgono di intraprendere rotte estremamente pericolose nella speranza di raggiungere l’UE”.  

The Guardian ha sottolineato, in un recente editoriale, la necessità che l’Europa ammetta la propria responsabilità per il “fallimento mortale” nello stabilire rotte sicure, concludendo: “Le misure draconiane di dissuasione non fermano l’immigrazione irregolare; costringono i disperati a contemplare azioni ancora più pericolose. Ma non è solo la Grecia a dover fare un bilancio. In tutta Europa, i governi sostengono con noncuranza che l’erezione di alti muri e recinzioni di filo spinato e il trasferimento della responsabilità dei richiedenti asilo a Paesi terzi possano essere interpretati come un atto morale”.  

Anche varie ONG hanno evidenziato la co-responsabilità dell’UE nel naufragio. Il direttore editoriale europeo di Human Rights Watch, Andrew Stroehlein, ha dichiarato: “Gli annegamenti di massa sono per l’UE quello che le sparatorie di massa sono per gli Stati Uniti. Continuano ad accadere. E ogni volta che succede, i politici fingono di essere preoccupati, ma mantengono le politiche governative [di controllo e militarizzazione delle frontiere, ndt] che sono alla radice del problema. Così, la gente continua a morire”.  

Il Commissario europeo per gli Affari interni, Ylva Johansson, ha definito il naufragio mortale “forse la peggiore tragedia di sempre” nel Mar Mediterraneo. Tuttavia, il giornale online non-profit Solomon sottolinea che “Mentre i funzionari dell’UE esprimono il loro dolore per il naufragio più mortale degli ultimi anni, occorre mettere a nudo l’ipocrisia dell’UE: su 800 milioni di euro assegnati alla Grecia per la gestione delle frontiere, solo 600.000 euro (0,07%) sono destinati alle attività di ricerca e salvataggio”. “È allarmante, ma non sorprendente, che la priorità dell’UE sia quella di tenere a distanza le persone migranti, piuttosto che salvare vite umane”, ha dichiarato Catherine Woollard, direttrice dell’European Council on Refugees and Exiles (ECRE).

Anche le autorità greche, a partire dal governo provvisorio in carica al momento del naufragio, sono state oggetto di critiche a livello politico e da parte delle ONG, poiché le testimonianze dei sopravvissuti e le inchieste di alcuni media hanno messo in discussione la ricostruzione ufficiale della tragedia. L’alleanza di sinistra-progressista, SYRIZA, ha chiesto di sapere se è stata effettuata un’operazione di salvataggio, se il capitano ha lasciato la nave, perché non è stato possibile fornire giubbotti di salvataggio e perché non è stata richiesta l’assistenza di Frontex. In risposta, il governo provvisorio ha fatto riferimento a un’indagine in corso affermando che “ascolta, registra e valuta attentamente tutte le informazioni, le opinioni e i pareri pertinenti, ma la sua posizione è che spetta agli organi competenti nell’ambito dello Stato di diritto e in particolare alla magistratura indipendente emettere un giudizio definitivo”.  

L’ex ministro greco dell’immigrazione, Notis Mitarakis, sembra aver già concluso il caso quando afferma: “Stiamo parlando di un naufragio avvenuto a 49 miglia al largo delle coste della Grecia. La Guardia costiera non ha il diritto di intervenire in acque internazionali”. La relazione della Guardia costiera greca, resa pubblica il 19 giugno nell’ambito delle indagini preliminari, sostiene che l’imbarcazione abbia rifiutato i soccorsi nonostante i numerosi tentativi delle imbarcazioni vicine e della stessa Guardia Costiera, mantenendo ferma la rotta verso l’Italia. Nora Markard, docente di diritto pubblico internazionale e diritti umani internazionali presso l’Università di Münster, ha contestato questa ricostruzione dichiarando ad Al Jazeera: “Gli operatori della Guardia costiera erano sul posto, erano nella loro zona di ricerca e salvataggio, ma non hanno operato nessun soccorso, né hanno coordinato il salvataggio [venendo meno in questo modo ai propri obblighi, ndt]. Alla fine, hanno messo attivamente a rischio la vita delle persone sulla barca”. 

Tempistica e natura degli eventi, tra il primo allarme lanciato dall’imbarcazione il 13 giugno e il naufragio avvenuto il 14 giugno, rimangono controverse. Secondo Syria Direct, Frontex ha allertato le autorità greche e italiane sulla condizione di sovraffollamento del peschereccio alle 9:47 del 13 giugno – dato confermato da un video diffuso dall’agenzia. L’organizzazione fa riferimento alle informazioni della BBC, secondo cui il peschereccio è affondato intorno alle 23:00 del 14 giugno. La BBC contraddice la versione ufficiale degli eventi affermando che: “L’analisi dei movimenti di altre navi nella zona suggerisce che il peschereccio sovraffollato non si sia mosso per almeno sette ore prima di rovesciarsi”. La Guardia costiera greca continua a sostenere che durante quelle ore il peschereccio fosse in rotta verso l’Italia e non necessitasse di soccorso.  

Anche le ONG hanno respinto questa spiegazione: “Né Frontex né la Guardia costiera greca sono intervenute in modo tempestivo, nonostante il peschereccio fosse ovviamente non idoneo, sovraffollato e in difficoltà”, ha dichiarato Eva Cossé, ricercatrice senior per l’Europa di Human Rights Watch. Secondo il New York Times “la decisione di non intervenire solleva il timore che una convergenza di interessi, tra i contrabbandieri pagati per raggiungere l’Italia e le autorità greche che preferirebbero che i migranti fossero un problema dell’Italia, abbia portato a una catastrofe evitabile”. Sebbene le autorità greche abbiano negato di aver ricevuto richieste di soccorso, Markella Io Papadouli, avvocata specializzata in diritto del mare e diritti umani presso l’Advice on Individual Rights in Europe Centre, ha dichiarato al New York Times che queste dichiarazioni evitano di affrontare la questione centrale: “Se la Guardia costiera greca ha riconosciuto che l’imbarcazione era in difficoltà, e questa è una valutazione oggettiva, avrebbe dovuto tentare di salvarla a prescindere da tutto”, sottolineando inoltre che non era necessaria alcuna chiamata di soccorso per attivarsi, come hanno insistito ad affermare i greci. Papadouli ha anche osservato che “a prescindere da quello che volevano i trafficanti” o da dove speravano di andare i migranti “si ha l’obbligo di soccorrere” quando una nave è in grave pericolo. “Negoziare con i trafficanti è come negoziare con i dirottatori di aerei”. 

Le autorità greche sono sotto pressione perché, a partire dalle testimonianze dei sopravvissuti, sono emerse accuse di negligenza e persino di responsabilità diretta nel naufragio. Secondo un sopravvissuto, la Guardia costiera ha lanciato una corda alle persone sulla barca, ma “poiché non sapevano come tirare la corda, l’imbarcazione ha iniziato a inclinarsi a destra e a sinistra”, aggiungendo: “Il mezzo della Guardia costiera stava andando troppo veloce, ma la nave si stava già inclinando verso sinistra, ed è così che è affondata”.  

È stato diffuso l’audio di un sopravvissuto siriano, che avrebbe raccontato quanto segue: “La Guardia costiera greca è arrivata e ha detto che ci avrebbe portato in acque italiane. Abbiamo accettato di seguirli, anche se non sapevamo se che ci avrebbero portato in Italia o in Grecia. Dopo 30 minuti il motore della nostra barca si è rotto, così li abbiamo informati e abbiamo chiesto il loro aiuto. A quel punto la Guardia Costiera greca ha legato la nostra barca alla loro nave. Era una nave da guerra. Erano vestiti di nero e mascherati. Hanno legato la nostra barca con una corda blu, poi sono partiti a velocità. Abbiamo percepito, dalla nostra barca, che qualcosa non andava bene. Poi hanno iniziato ad andare a destra e a sinistra. Noi eravamo di fronte a loro e loro spingevano da destra e una volta da sinistra. Prima hanno iniziato da sinistra, poi da destra, poi di nuovo da sinistra. Dopodiché la nostra nave si è rovesciata”. Lo stesso sopravvissuto ha proseguito così il racconto: “Hanno solo acceso i fari sulla barca. Non hanno fatto alcun tentativo di salvataggio per 30-45 minuti, poi hanno contattato altre navi. Quando ho visto la situazione, sono scappato a nuoto. Avevo paura che mi volessero far annegare”, e ha aggiunto: “Ho parlato con altri sopravvissuti e siamo totalmente convinti che la Guardia costiera ci abbia fatto naufragare, ma non sappiamo se sia stato intenzionale o se si è trattato soltanto di un errore”.  

Inizialmente le autorità greche hanno negato di aver legato delle corde alla barca in difficoltà. Ma in seguito la Guardia costiera, sempre secondo il New York Times, “ha riconosciuto di aver legato per poco tempo una corda per accertarsi delle condizioni della barca e dei passeggeri, alcuni dei quali, secondo i sopravvissuti, erano già morti per l’esposizione al sole e per la sete”. Secondo la testimonianza di un altro sopravvissuto, sostenuta da altri quattro naufraghi intervistati dal Sunday Times, la Guardia costiera ha ignorato le persone in difficoltà per almeno tre ore dopo che l’imbarcazione si era rovesciata. “Si sono limitati a guardare”, ha detto, aggiungendo: “Avrebbero potuto salvarne molte di più”. 

Mentre 180 ONG hanno chiesto “indagini esaustive e indipendenti” sugli eventi, le Nazioni Unite hanno accolto con favore la proposta di un’inchiesta indipendente e la Commissione europea ha dichiarato che qualsiasi indagine dovrà essere “approfondita e trasparente”, il Procuratore della Corte Suprema greca Isidoros Dogiakos ha sollecitato un assoluto riserbo sulle indagini. 

El Pais ha raccontato che “durante la loro permanenza nel porto di Kalamata, i sopravvissuti hanno avuto mobilità e accesso alle comunicazioni limitati. La Guardia costiera li ha confinati all’interno di uno spazio recintato, dal cui non potevano uscire. In seguito, sono state installate delle barriere divisorie accanto ai bagni chimici per impedire ai giornalisti di far loro domande dall’altro lato della recinzione”. Il giornale spagnolo aggiunge anche che: “Da venerdì [16 giugno], i sopravvissuti al naufragio sono confinati a Malakasa, un campo profughi vicino Atene. Non sono più sotto la custodia della Guardia costiera, ma del Ministero della Migrazione e dell’Asilo. Il suo titolare ad interim, in carica fino alle elezioni che si sono tenute il 25 giugno, era Daniel Esdras, ex inviato speciale in Grecia dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM). Sotto il suo ministero, le restrizioni alle attività dei giornalisti e ai diritti dei migranti sono rimaste in vigore”. Frontex ha avviato la stesura di un “rapporto sugli incidenti gravi” lo scorso 22 giugno, richiedendo ai funzionari dell’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione Europea di registrare potenziali violazioni dei diritti umani: così ha dichiarato un portavoce dell’agenzia alla testata online Politico

Nel frattempo, nove sopravvissuti di origine egiziana sono accusati di omicidio colposo, naufragio e associazione criminale. Un tribunale di Kalamata ha ordinato la loro detenzione dopo averli interrogati per ore. Come riferisce El Pais, “uno degli avvocati nominati dal tribunale e assegnati ai detenuti – che ha preferito non fornire il suo nome dal momento che il procedimento è ancora soggetto alla segretezza dei procedimenti sommari – ha detto di essere fiducioso che le accuse contro i suoi clienti verranno ritirate. “Le prove sono così deboli che non si giustificherebbe una decisione di altro tipo”, ha dichiarato. L’avvocato ha rivelato che, a differenza degli altri migranti, i nove egiziani non sono ancora stati autorizzati ad avviare le procedure per la richiesta di asilo, né sono stati sottoposti ad alcun esame medico.  

I rappresentanti legali dei nove imputati hanno accettato di coordinarsi per scambiarsi informazioni. Le persone condannate per aver guidato imbarcazioni coinvolte in migrazioni non autorizzate costituiscono il secondo gruppo più numeroso nelle carceri greche. Secondo Christina Karvouni, portavoce dell’ONG Aegean Migrant Solidarity – Community Peacemaker Teams, la maggior parte dei processi che coinvolgono i migranti si svolgono senza interpreti, presentano gravi carenze procedurali e sono spesso conclusi in assenza di prove certe. “Secondo le testimonianze dei sopravvissuti – osserva Karvouni – i veri trafficanti non rischiano la vita salendo su imbarcazioni come questa. Al massimo le pilotano all’inizio, ma poi le abbandonano per raggiungere la terra ferma”. 

Fonte: European Council on Refugees and Exiles, 23 giugno 2023 (traduzione di Anthony Dimasi e Federico Oliveri).