L’umanesimo come antidoto al totalitarismo. In memoria della Rosa Bianca
di Andrea Panzavolta
Il 22 febbraio 1943 si celebra a Monaco il processo a Sophie e Hans Scholl e a Christoph Probst, accusati di alto tradimento per le loro attività anti-naziste e anti-militariste, condotte come membri della Rosa Bianca. Il Tribunale del Popolo li condanna a morte. Subito dopo la sentenza, vengono condotti alla prigione di Stadelheim per essere ghigliottinati il giorno stesso. Ai genitori viene impedito di vederli e congedarsi da loro prima dell’esecuzione.
La vicenda della Rosa Bianca è nota: si tratta di una delle rare ma più significative pagine della resistenza tedesca al nazismo e al suo bellicismo. Da dove hanno tratto forza e ispirazione i membri del gruppo? E cosa hanno da dirci, oggi, le loro storie?
Li voglio immaginare come quegli amici autentici che, nell’opacità del tempo presente, amalgama informe di eventi epocali e angustie quotidiane, ci tendono una mano per portarci nella loro luce spirituale. Hans Sholl, epigono del Wanderer tedesco, è l’inquieto viandante alla ricerca di una Heimat sempre di là da venire. Sua sorella, Sophie, è capace di sentire come pochi altri la poesia della natura. Christoph Probst, amante dell’Alta Baviera, apprende su quelle cime montane il senso profondo della libertà. Willi Graf è consapevole che non si poteva essere al contempo cristiani e nazisti. Alexander Schmorell, originario della Russia, è caratterizzato da un senso di profonda malinconia per l’instabile e mutevole natura dell’esistenza.
La meraviglia che si prova davanti alla vicenda della Rosa Bianca è la medesima che i suoi membri, a loro volta, provarono per la grande tradizione umanistica tedesca ed europea, cui molti di loro unirono una sentita fede cristiana.
L’incipit di una poesia scritta in vecchiaia da Goethe così recita: «Dov’è uno che si affatichi / col peso che noi abbiamo portato?». Non ci daremmo la pena di far passare da una sponda all’altra un carico se non lo stimassimo prezioso; non lo considereremmo tale se non ci avesse stupito la sua bellezza, a tal segno incomparabile che una volta conosciuta sentiamo di non poterne più fare a meno. A questo carico, potremmo dare il nome di “tradizione”, a patto di riconoscere che in essa non c’è nulla di pacificato o pacificante.
La tradizione, se rettamente intesa, non è un luogo dove prendere stabile dimora, bensì un crocevia che non può non agitarci se solo consideriamo come le diverse strade che da esso si diramano siano segnate dall’imprevisto e dal rischio. Ma l’agitazione, propria di chi ha meditato a fondo e compreso cosa veramente significhi “tradizione”, è la radice del verbo cogitare.
I ragazzi della Rosa Bianca si sono affaticati sotto il peso che altri, prima di loro, portarono. Portare il peso di una tradizione significa, prima di tutto conoscere, le proprie origini per apprendere una sintassi e una grammatica senza le quali il nostro parlare e agire sarebbero insensati. Ma significa anche aprire un contenzioso con il passato, discuterlo, criticarlo: soltanto se si ingaggia con la tradizione un serrato corpo a corpo si può comprendere la sua fruttuosa inattualità, ossia come essa si sottragga al tempo presente e alle mode passeggere che in esso si avvicendano. Affaticarsi sotto il peso della tradizione significa, da ultimo, assumere uno sguardo più acuto, quasi profetico, che inevitabilmente si fa azione, scelta responsabile e, in determinate congiunture storiche, dramma.
Se si leggono di seguito i sei volantini stampati e diffusi dalla Rosa Bianca si avverte come il richiamo ai classici della letteratura e del pensiero, insistente nei primi quattro, a poco a poco si attenui fino a sfumare del tutto nel quinto e nel sesto. E tuttavia, per il fatto stesso che non v’è traccia in essi di preziose citazioni, sono proprio questi ultimi a esprimere più degli altri la vitalità di una tradizione divenuta ormai, per gli estensori, carne della loro carne.
Ma i versi di Goethe, sopra citati, dicono un’altra cosa ancora. Essi non esortano soltanto a farsi carico della tradizione, ma mostrano la via attraverso cui è possibile caricarsi di quel peso, per sostenerlo e trasformarlo in práxis. «Dov’è uno che si affatichi [Wo ist einer]» scrive Goethe, non «dove sono coloro che si affaticano». La strada indicata dal poeta è esattamente l’opposto di quella seguita in quegli anni dal nazionalsocialismo. Alla vita snaturata della massa, all’ebbrezza orgiastica della Hitlerjugend, alla mistica sovreccitata del «Blut und Boden», del sangue e del suolo, viene contrapposta la sfera personale: è l’agostiniano «rede in interiorem hominem»; è la «solitudine bianca», come la chiama Hannah Arendt. Quel raccoglimento in cui il proprio “io” è recuperato e sottratto all’assimilazione omologante.
Si legge in un passo del sesto volantino: «Siamo in uno Stato caratterizzato dalla spietata sopraffazione di ogni libera espressione di opinione. La Gioventù Hitleriana, le SA, le SS hanno cercato negli anni più formativi della nostra vita di renderci uniformi, di rivoluzionarci, di narcotizzarci. ‘Educazione a una nuova concezione del mondo’: così veniva chiamato il metodo spregevole di soffocare in una nebbia di vuote frase i germi del pensiero individuale».
Se si studiano le biografie dei membri della Rosa Bianca risulta limpidissimo il lavoro fatto su se stessi, per riconoscersi prima di tutto come individui: i cinque amici poterono incontrarsi e riconoscersi simili solamente perché prima compresero la preziosa unicità del proprio io attraverso un percorso arrischiante, fatto di domande e di dubbi, di crisi e di dolorose prese di coscienza.
Ma in che cosa consiste esattamente il «peso» della tradizione sotto il quale anche i ragazzi della Rosa Bianca si affaticarono? Certo non nello sfoggio di citazioni erudite. Il tempo abnorme che stavano vivendo, nel pieno della seconda guerra mondiale e del lungo, devastante, assedio nazista a Stalingrado, esigeva di essere non degli studenti irreprensibili, ma dei lavoratori del pensiero capaci di cogliere lo spirito vivificante dei testi classici, con cui provare a restituire la vista ai ciechi contemporanei.
In irriducibile opposizione al furore che degradava la patria a un idolo barbarico e sanguinario, i giovani resistenti parlavano, sì, della Germania, ma sempre come parte di quella patria più ampia che chiamavano Europa: un nome che significa, per loro, tensione verso la giustizia, ricerca della verità, amore per la libertà, vita coscienziosamente vissuta, sforzo infinito per eliminare quanto nell’esistenza c’è di volgare, di violento, di umanamente povero. Se per Hitler l’Europa era un possesso e i suoi singoli Stati macchie diversamente colorate sulla cartina geografica, da uniformare sotto il segno della croce uncinata, per i resistenti di Monaco essa era invece un’espressione dello spirito.
Spesso ci chiediamo come dei giovani poco più che adolescenti, cresciuti in una rancida retorica nazionalista, educati al disprezzo verso gli altri popoli nel nome di una delirante superiorità razziale, siano riusciti non solo a capire quanto criminale fosse quel guazzabuglio di menzogne, ma a maturare in alternativa una visione autenticamente europeista, in forza della quale potevano affermare: «Siamo tedeschi, e dunque europei». Tedeschi, prima di tutto: i ragazzi della Rosa Bianca non hanno mai rinnegato la grande cultura letteraria, filosofica e musicale della Germania ed è proprio da questa che essi hanno tratto gli anticorpi necessari per resistere al veleno nazionalsocialista.
Chi aveva occhi per leggere e cuore per comprendere, come avrebbe potuto non scorgere nelle liriche di Goethe, nei drammi di Schiller, nelle messe di Bach, nelle sinfonie di Beethoven, nelle pagine di Schopenhauer i segni irrefutabili di un umanesimo elevato e cosmopolita? Come avrebbe potuto non cogliere, in quella tradizione, il migliore antidoto contro l’ubriacatura totalitaria di slogan, di marce condotte a passo dell’oca, di esulcerati sentimentalismi, di virulenti teoremi?
Soltanto chi ama davvero il proprio luogo natio acquista consapevolezza che la vera patria si trova in un più ampio orizzonte: un assunto, questo, che nessuno può capire meglio di chi nasce o cresce in Europa, terra dai molti nomi, dove diverse sono le lingue, le tradizioni e le religioni. Solamente chi ama la propria patria sente di appartenere alla Haimat, suggestiva e forse intraducibile parola tedesca che indica la casa più autentica, la dimora finale, sempre di là da venire: perché essa è l’utopia, dove le spade saranno trasformate in vomeri e i giavellotti in falci, dove la «Giustizia e la Pace si baceranno» (Salmi 85, 11). Un luogo non inesistente, ma che ancora non c’è. Non un miraggio o un’inconsistente ombra, bensì una tensione che non conosce stanchezza: questa è l’Europa, sempre inquieta, sempre raminga.
Si legge in un passo del sesto volantino: «L’orribile bagno di sangue che [Hitler e i suoi seguaci] hanno causato in tutta l’Europa in nome della libertà e dell’onore della nazione germanica ha aperto gli occhi anche al più ottuso dei tedeschi. Il nome tedesco rimarrà disonorato per sempre, se la gioventù tedesca non insorgerà e vendicando, ed insieme espiando, non schiaccerà i suoi aguzzini e non darà origine a una nuova Europa dello spirito».
«Una nuova Europa dello spirito», una nuova Bildung europea, capace di formare soprattutto le giovani generazioni. Se il quinto volantino esordisce con un «Appello a tutti i Tedeschi!», il sesto e ultimo, invece, si rivolge alle «colleghe» e ai «colleghi» dell’Università di Monaco, affinché, destandosi dalla narcosi, onorino il luogo in cui studiano, un luogo dove, come indica il nome stesso, l’universalità delle discipline e delle arti lì coltivate tende a una visione olistica del sapere: la premessa necessaria per discernere, discutere e criticare con fondamento, esprimere giudizi ben argomentati. Premessa fondamentale della libertà.
Se la generazione dei padri aveva condotto l’Europa al suicidio, occorreva che quella dei figli e delle figlie la rifondasse. Ma non vi può essere autentica rinascita se non si riconosce il male commesso: non per restare inchiodati a mortiferi sensi di colpa, che continueranno ad alimentare il male, ma per fare ritorno alla verità dopo essersene allontanati.
Non può che destare profonda ammirazione il seguente passaggio tratto dal quarto volantino: «La rinascita [dello spirito tedesco] deve essere preceduta da un chiaro riconoscimento di tutte le colpe di cui il popolo tedesco si è macchiato». Riconoscere le colpe significa diventare personaggi tragici i quali, come si legge in un verso memorabile dell’Agamennone di Eschilo, attraverso il páthos raggiungono il máthos: il dolore apre la strada alla conoscenza, che è anche accettazione dei misfatti commessi, senza la quale la kátharsis sarebbe solo ipocrita posa edificante.
Alto è il messaggio morale e civico racchiuso nel passo appena citato: i resistenti della Rosa Bianca dimostrano di aver colto il male che aveva infettato la Germania, lo stesso che si ripresenta oggi in forme nuove, forse depotenziato ma non per questo meno temibile, ogni qual volta distogliamo lo sguardo dal dolore degli altri. Specie se quel dolore lo abbiamo provocato noi.
Se l’accettazione del páthos è l’emblema del Tragico, l’a-patia lo è dell’anti-Tragico. Due passi del quarto volantino confermano lo spirito di tragedia che innerva l’azione resistente della Rosa Bianca. Il primo: «Cosa sta facendo il popolo tedesco? Non vuole vedere e non vuole ascoltare. Segue ciecamente i suoi seduttori verso la rovina». E poco oltre si legge: «Cosa possiamo imparare dalla fine di questa guerra che mai è stata una guerra nazionale? […] L’idea imperialista della forza […] deve essere eliminata per sempre. […] Soltanto la cooperazione su larga scala dei paesi europei potrà creare le basi sulle quali poggerà la ricostruzione».
Si può imparare dai propri errori solamente se prima si ha il coraggio di dissezionarli con sguardo affilato e impietoso: in poche righe i giovani resistenti di Monaco non avrebbero potuto dimostrare maggiore obbedienza verso la migliore tradizione umanistica europea. Obbedienza nel significato etimologico della parola: ob-audire, ascoltare, che è premessa di ogni azione responsabile, in cui risuona l’atto del respondere.
Ma qual è la migliore tradizione europea? Per affrontare la crisi spirituale dei primi decenni del Nocevento, sconvolti dalla grande guerra, dal rigurgito di regressivi nazionalismi e dall’affermarsi dei totalitarismi, Edmund Husserl invitava a recuperare l’arché e insieme il télos dell’Europa, da lui ravvisati nella greca epistéme, nella ricerca e nell’evidenza razionale. Romano Guardini, invece, in quegli stessi anni riteneva che solamente il cristianesimo, assunto come lievito del presente, avrebbe potuto garantire al vecchio continente un futuro, messo a repentaglio non solo dai totalitarismi, ma anche dall’incontenibile arroganza di un sistema tecnico-scientifico dominato dalla volontà di potenza.
Non si trattava, secondo Guardini, di recuperare le cosiddette “radici cristiane” del continente da accostare, in un ideale erbario, ad altre radici capaci di rallentare ma non di fermare lo scatenarsi delle potenze pagane: si tratta di riconoscere senza reticenze che «o l’Europa sarà cristiana o non sarà affatto». Nulla di reazionario, in questo pensiero, ma una ripresa radicale dell’esistenza di Cristo come modello dell’esistenza umana. E in che cosa consiste questo modello? Nell’essere nel mondo senza essere del mondo: «passare dovunque facendo del bene e guarendo tutti quelli che lo spirito di divisione e di menzogna [tiene] in suo potere» (per citare un passo degli Atti degli Apostoli), avendo piena coscienza che una simile esistenza potrebbe culminare della distruzione mondana di sé.
Gli scritti di Romano Guardini ebbero grande influenza sulla crescita spirituale dei membri della Rosa Bianca, ma non furono decisivi nella loro scelta di entrare nella Resistenza. Quei ragazzi avevano già compreso in che cosa consisteva l’identità cristiana dell’Europa e come questa fosse necessariamente anti-nazista: fare scorta di olio per le proprie lampade, onde evitare di essere sorpresi dai terrori della notte; avere il coraggio di gridare come gli antichi profeti «Ingiustizia! Empietà!» perché il male deve essere chiamato con il proprio nome; annunciare la verità sopra i tetti perché soltanto questa potrà farci liberi.
«Viva la libertà» sono state le ultime parole di Hans Scholl prima di essere ucciso. Operare la giustizia prestando attenzione agli oppressi per poterne udire il grido; proteggere e prendersi cura della coscienza, perché la sua corruzione può avere conseguenze esiziali non soltanto dal punto di vista morale, ma anche politico; credere che negli esseri umani vi siano più cose da ammirare che da disprezzare; essere operatori di pace: questa è la migliore tradizione europea, cui l’umanesimo cristiano ha dato un importante contributo.
E tuttavia, come direbbe Paolo di Tarso, «se abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini» perché per quanto nobile sarà stato il nostro sacrificio, esso inevitabilmente si esaurirà «in questa vita». I protestanti Hans e Sophie Scholl e il cattolico Willi Graf, Alexander Schmorell, appassionato lettore di Dostoevskij e quindi del quinto evangelista, e Christoph Probst, agnostico ma con un senso vivissimo del trascendente, nell’imminenza della prova suprema avvertono in modo sempre più chiaro come la morte non sia la fine, ma un passaggio che conduce alla vera vita.
Le parole più inquietanti a riguardo sono, forse, quelle scritte da Schmorell nell’ultima lettera indirizzata ai genitori: «Tra poche ore sarò in una vita migliore […]. Io non vi dimenticherò mai, pregherò Dio di darvi consolazione e pace. E vi aspetterò! Una sola cosa affido al vostro cuore: non dimenticate Dio!».
Ram-mentare Dio, porlo cioè, come dice la parola stessa, al centro della nostra mente significa strappare quest’ultima dalla quiete mondana e costringerla ad affrontare le aporie della condizione umana: significa rinunciare al sonno, perché inquietati dall’immagine di un Uomo inchiodato a una croce, la quale è «seméion antilegómenon», «segno di contraddizione», di massimo patimento e di massima gloria, patibolo turpissimo e trono regale, l’una e l’altra cosa in una tragica unità. Non dimenticare Dio per un cristiano non vuol dire fare memoria di un giusto, fosse anche il più giusto tra i giusti. Se così fosse la via crucis sarebbe solamente una narrazione tra le tante. Al contrario, il credente ripercorre il cammino doloroso del Calvario sapendo per certo che cadrà, naufragherà e morirà, ma anche che cadrà, naufragherà e morirà in Dio, Signore della vita.
In una missiva datata 22 marzo 1940, che letta a posteriori acquista l’accento della profezia, Hans Scholl riferisce di aver assistito a un’esecuzione della Matthäus Passion di Bach e di esserne rimasto profondamente turbato. Scrive: «Non riesco a rendere a parole l’impressione di quest’opera musicale. E poi è anche sbagliato parlare di profondi sentimenti religiosi. Comunque, immaginerai che questa musica mi è entrata dentro molto in profondità, che ha arato e liberato qualcosa, perlomeno durante il tempo dell’ascolto. E poi sono andato felice a casa, perché sapevo che, nonostante il corpo sia morto, lo spirito al terzo giorno risusciterà dai morti».
Dopo essere stati arrestati, i cinque amici furono condotti davanti al Tribunale del Popolo presieduto da Roland Freisler, soprannominato il giudice-boia (e qui immaginiamo di udire la voce fuori campo del tenore che, nella Passione bachiana, recita il passo: «Il giudice l[i] trascina in tribunale, / non c’è nessuno che l[i] conforti. / Dev[ono] pagare le colpe altrui». Dopo un processo farsa, furono giudicati rei di alto tradimento verso la patria e condannati a morte mediante ghigliottina.
«Siamo servi inutili: abbiamo fatto quanto dovevamo fare» si legge nel Vangelo (Luca 17, 10). Il servo che ha fatto quanto doveva fare, prima di tutto ha ascoltato la chiamata del padrone e poi ad essa ha risposto, dandole pronta esecuzione. È stato, dunque, un uomo responsabile. Tale è il cristiano che accetta liberamente l’ora, avendo come criterio ultimo la chiamata di Dio, la quale ha il proprio fondamento nell’amore di Cristo che salva non dal dolore, ma nel dolore. Per un cristiano, la via della pace passa da qui.
Hans Scholl, che tanto amava il sommo capolavoro di Bach, forse avrebbe gradito come ricordo suo e dei suoi amici soltanto le parole che il coro intona in conclusione:
Dormite in pace! Piangendo ci inginocchiamo / davanti al vostro sepolcro per dirvi: / Riposate le vostra membra affaticate! / La vostra tomba e la sua lapide / saranno un comodo letto / per la coscienza angustiata / e luogo di riposo per l’anima. / Felici sono i vostri occhi / che alla fine si chiudono.
Andrea Panzavolta è giornalista pubblicista. Collabora alla rubrica “Film in discussione” di Iride. Filosofia e discussione pubblica, e ad alcune riviste di critica cinematografica. Dal 2014 è il direttore artistico della rassegna concertistica forlivese “Passioni in musica”.