In Iraq le femministe ricostruiscono la comunità
di Silvia Abbà
Ogni giorno, M. si sveglia, aiuta suo figlio a vestirsi, si prepara per uscire, lo accompagna a scuola, attraversa il traffico di Baghdad su una grande macchina bianca. Arriva in ufficio, esce per andare in tribunale. Va in carcere a fare visita ai minori detenuti perché ritenuti affiliati al cosiddetto Stato islamico. Torna a casa, cena con la sua famiglia. Mette a letto suo figlio. Si sfila le scarpe con il tacco, mentre si strucca davanti allo specchio ripensa a quei bambini, “potrebbe esserci mio figlio là dentro”, pensa.
M. è un’avvocatessa di trentaquattro anni, nata nel sud dell’Iraq all’indomani di quella che, nella retorica di Saddam Hussein, avrebbe dovuto essere una guerra lampo contro l’Iran rivoluzionario. È cresciuta sulle sponde del Tigri, in spazi delimitati da rigide norme di genere che si rinforzano nella consuetudine degli scambi interpersonali. Si è trasferita a Baghdad per studiare, lì ha scoperto la passione per la legge. Nel 2017 ha fondato la sua organizzazione con cui, insieme a un gruppo di sole donne, garantisce supporto legale a donne vittime di violenza. Nel suo percorso personale, M., che proviene da una famiglia religiosa, ha deciso di smettere di portare il velo. Dopo essersi occupata per anni di diritti delle donne, oggi M. lavora sugli effetti collaterali dell’ISIS.
È risaputo quanto la storia recente dell’Iraq sia costellata di guerre: quella contro l’Iran dal 1980 al 1988, l’invasione del Kuwait e la prima guerra del Golfo nel 1991, la seconda guerra del Golfo del 2003, la guerra civile tra il 2006 e 2008, l’occupazione di porzioni di territorio da parte dello Stato islamico, la guerra di liberazione dall’ISIS, conclusasi nel 2017. Tutto questo tenendo in considerazione soltanto gli ultimi quarantatré anni. Meno conosciuta è, invece, la storia delle piccole imprese quotidiane portate avanti dalle donne irachene che, nel paese, cercano di ricucire ciò che la guerra – perché unica è nella sua logica – ha lacerato.
Nel corso della storia irachena, le donne si sono mobilitate a partire da quegli spazi – spesso risicati – che l’accordo patriarcale ha concesso loro, riuscendo a superare i confini che le imbrigliavano in un ruolo di genere prescrittivo e senza scampo: quello di moglie e madre silenziosa e devota, la divinità della casa, rabbat al manzil. Dalle proteste indipendentiste che attraversarono il paese negli anni Venti, fino alla cosiddetta Rivoluzione di ottobre, la thawra tishreen, scoppiata nel 2019, le donne irachene hanno rivendicato per sé spazi di azione e diritto di parola. L’hanno fatto in forme e modalità differenti a seconda dei periodi e delle congiunture politico-economiche-sociali con cui si sono trovate, inevitabilmente, a fare i conti. È grazie alla mobilitazione delle donne nelle fila delle forze politiche di sinistra, e principalmente del Partito comunista iracheno, che nel 1959 in Iraq venne adottato il Codice dello statuto personale (CSP), attraverso cui si sottraevano i diritti della persona alle volontà delle singole comunità confessionali.
Il CSP è, ancora oggi, bastione che ripara le donne dall’impeto della politica identitaria, delle forze settarie e patriarcali che vorrebbero vedere le questioni di matrimonio, eredità, custodia dei figli e divorzio gestite dalle diverse confessioni. Le donne irachene attive in campo politico e per la difesa dei diritti delle donne sanno che il CSP è uno strumento su cui vigilare attentamente. La prima misura proposta dal nuovo governo in carica nell’Iraq post-2003, in quell’Iraq che – grazie a una guerra illegale – avrebbe dovuto vedere crescere e rafforzarsi la democrazia e in cui, soprattutto, le donne sarebbero state – finalmente – libere, è stata quella di abolire il CSP. Due anni più tardi, nella Costituzione veniva inserito un articolo che sancisce che lo statuto personale dei cittadini iracheni sia regolato dalle loro «religioni, sette, fedi o credenze» (art. 41, Costituzione del 2005). La mobilitazione delle donne, attraverso organizzazioni della società civile e contatti con le forze partitiche di sinistra, ha permesso di bloccare entrambi questi tentativi: il CSP è tuttora in vigore, mentre l’articolo 41 della Costituzione è formalmente non applicabile.
Raccontando le battaglie portate avanti per garantire un numero di seggi alle donne in Parlamento, Hana Edward, 75 anni, esponente del movimento femminista iracheno, racconta: “Nel 2006, nel quadro delle revisioni costituzionali, abbiamo fatto pressione per alzare il numero di seggi riservati alle donne. [I leader islamisti] erano furiosi. Ci hanno detto: «Questa è la nostra linea rossa». Abbiamo risposto: «Per noi non esiste linea rossa».
Certo, non tutte le donne in Iraq si oppongono alle forze disgreganti che spingono membri di comunità etniche e confessionali sempre più lontani, sprofondando il paese in un clima di sfiducia generale. D’altro canto, non potrebbe essere diversamente, dal momento che gli interessi delle donne non si articolano soltanto a partire dal genere, quanto invece dal sovrapporsi delle loro identità multiple.
La sociologa Zahra Ali, nel suo Women and Gender in Iraq: Between Nation-Building and Fragmentation, identifica quattro tipologie di femministe: le femministe per i diritti umani, le islamiste, le musulmane e le femministe radicali e di sinistra. Attraverso le sue interviste, la sociologa rileva come le islamiste siano in una posizione diametralmente opposta rispetto a quella delle femministe radicali. Scrive: «le femministe islamiste si trovano in una posizione di maggior potere rispetto alle femministe radicali. In un contesto di conservatorismo egemonico a livello di religione, società e politica, le femministe radicali sono marginalizzate». Definiti questi poli, però, Ali evidenzia la presenza di un immaginario comune, un’idea simile dei concetti di genere e di attivismo delle donne, condivisa dalle femministe dei diritti umani, le musulmane e le femministe di sinistra. Le islamiste, d’altro canto, vedono nella religione un importante mezzo di difesa dello status delle donne. Diversamente dagli altri gruppi, però, attraverso questo tipo di attivismo viene diffusa una lettura conservatrice dei diritti umani, che risiede in un’idea patriarcale di famiglia e società. Per questo motivo è controversa la decisione di definirle “femministe” a tutti gli effetti.
Molte donne delle nuove generazioni si mobilitano oggi all’interno di organizzazioni della società civile, la loro formazione sui temi di genere è di stampo internazionale, il loro linguaggio rispecchia quello delle Nazioni Unite e le loro azioni, allo stesso modo, possono essere ricondotte a convenzioni e risoluzioni dell’ONU. Se, da un lato, la caduta del regime baathista ha significato l’istituzionalizzazione della “razza” attraverso il sistema delle quote e lo svuotamento della categoria di “cittadini/e iracheni/e”, dall’altro, questo ha portato alla rinascita della società civile e – almeno per le donne dei centri urbani appartenenti alla classe media – all’apertura di nuovi spazi di mobilitazione. Anche in questo campo, però, i rischi non mancano. Come sottolinea Islah Jad, infatti, il progressivo allineamento delle organizzazioni della società civile al discorso e agli obiettivi della comunità internazionale – Nazioni Unite, Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, Stati Uniti, ecc. – rischia di fatto la depoliticizzazione dell’attivismo femminile.
Nonostante numerosi ostacoli e battute d’arresto, le attiviste irachene oggi alzano la voce per rivendicare il loro diritto a esistere e a scegliere, per sé e per tutte le donne. Attraverso pratiche femministe fortemente radicate nei loro contesti, queste donne cercano di ricucire i propri mondi, ricompongono le loro comunità tessendo alleanze che si svelano essenziali alla loro stessa esistenza. Le loro strategie di resistenza all’oppressione settaria e patriarcale sono imbevute di pragmatismo, necessario a sopravvivere in un contesto segnato da decenni di conflitti che hanno lasciato dietro di sé ferite fisiche e mentali, disturbi da stress, calcinacci, macerie – sia degli edifici che degli immaginari che reggevano i mondi delle singole comunità – e un conservatorismo rafforzato dalla sfiducia dilagante tra le diverse componenti della società. In questo contesto si muovono le femministe irachene per i diritti umani, in una commistione di rivendicazioni personali e collettive, formulate in parole dall’aspetto liberale, eppure radicate nell’esperienza di vita quotidiana.
M. ha da poco iniziato il percorso per diventare giudice. Parlando dei contenuti che vede sui social media, dice che molta della discussione pubblica verte sul tema dell’hijab, mentre lei vorrebbe che ci si concentrasse sull’adozione di leggi che contrastino la violenza domestica. “Ci sono cose più importanti del velo, su cui dovremmo concentrarci”. Sono queste le pratiche attraverso cui possiamo costruire legami di sorellanza, mettendoci in ascolto attivo di quelle che sono le vere necessità delle donne in Iraq e riflettendo sul nostro posizionamento, secondo i principi della transversal politics. Affinché M. – e con lei chi si batte per i diritti delle donne – non si senta mai sola.
Queste e altre storie di attiviste irachene sono raccontate nel libro Il mio posto è ovunque. Voci di donne per un altro Iraq (2023), edito da Astarte edizioni in collaborazione con Un Ponte Per. Il volume fa parte della collana Manifesta, diretta da Renata Pepicelli, che propone una prospettiva femminista e decoloniale fatta di voci, lotte, soggettività e istanze di genere, spesso sconosciute o fraintese, che attraversano le società del Mediterraneo, del Nord Africa e dell’Asia sud-occidentale. Manifesta racconta le molteplici esperienze di donne, soggettività LGBTQ+, mascolinità in trasformazione e lotte (trans)femministe come lenti attraverso cui leggere e comprendere i profondi cambiamenti in atto nella realtà contemporanea, superando stereotipi patriarcali e orientalisti.
Silvia Abbà ha conseguito la laurea triennale in Comunicazione interlinguistica applicata all’Università di Trieste. Ha poi proseguito gli studi presso l’Università di Pisa, laureandosi in Scienze per la pace: cooperazione internazionale e trasformazione dei conflitti nel 2022. Dal 2020 è coinvolta nelle attività dell’organizzazione non-governativa Un Ponte Per. Negli anni ha fatto diversi viaggi in Medio Oriente, specialmente in Libano e in Iraq.