sabato, Ottobre 5, 2024
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A Pylos naufraga l’Europa dei diritti e delle libertà

Le frontiere chiuse dell’Unione Europea e i mancati soccorsi in mare hanno ucciso ancora. Il 14 giugno, a 75 chilometri sud-ovest da Pylos nel Peloponneso, è naufragato un peschereccio con 750 persone migranti a bordo, di cui solo 104 sono sopravvissute. Secondo le testimonianze dei naufraghi, raccolte dai medici dell’ospedale di Kalamata che li hanno visitati, la stiva ospitava un centinaio di bambini. Si tratta della più grave strage marittima avvenuta nel Mediterraneo Orientale dalla fine della Seconda guerra mondiale.

Partita vuota dall’Egitto, l’imbarcazione ha caricato i suoi passeggeri a Tobruk, nel Nord-est della Libia, per dirigersi verso le coste dell’Italia meridionale: una rotta lunga e pericolosa sviluppatasi, negli ultimi anni, per evitare la Grecia dove le autorità costiere respingono violentemente i potenziali richiedenti asilo verso la Turchia.

Nel racconto dei sopravvissuti, il motore dell’imbarcazione avrebbe dato problemi già dopo sei ore dalla partenza, generando tensione tra i passeggeri, alcuni dei quali avrebbero chiesto di ritornare in Libia senza essere ascoltate. Martedì mattina la situazione è rapidamente precipitata: senza più acqua, varie persone disidratate hanno perso i sensi; la scoperta di sei persone morte a bordo, tra cui due bambini, hanno provocato sgomento e ribellione.

Nessuna informazione ufficiale è stata ancora fornita sui paesi d’origine delle persone. Dalle prime testimonianze emerge che i/le migranti provenissero soprattutto dall’Afghanistan, dal Pakistan, dalla Siria e dalla Palestina.

Molti parenti delle vittime stanno raggiungendo Kalamata per ricongiungersi con i sopravvissuti o per avere maggiori informazioni sui dispersi, anche se le speranze di trovare superstiti sono esigue. K.Z. ha preso il primo volo da Amburgo, dopo aver saputo che sua moglie e suo cognato erano sulla nave. “L’ultima volta che ho parlato con mia moglie – ha dichiarato – è stato otto giorni fa. Mi ha detto che si stava preparando per salire sull’imbarcazione. Aveva pagato 5.000 dollari per il viaggio”.

Secondo un comunicato delle autorità portuali greche, il peschereccio era stato avvistato per la prima volta martedì 13 giugno pomeriggio da un drone di Frontex, l’Agenzia europea per la sorveglianza delle frontiere, ma i migranti a bordo avrebbero “rifiutato qualsiasi aiuto”. Le autorità costiere greche avrebbero contattato l’imbarcazione per chiedere informazioni sulla rotta, ricevendo in risposta l’intenzione di navigare verso l’Italia. Una nave battente bandiera maltese avrebbe poi fornito cibo e acqua alle persone a bordo in serata. Poco dopo la mezzanotte di mercoledì il peschereccio ha contattato la Guardia costiera greca informandola di un malfunzionamento del motore, ma i soccorsi sono partiti diverse ore dopo.

Secondo Alarm Phone, organizzazione della società civile impegnata a segnalare migranti in mare in difficoltà, la Guardia costiera greca era al corrente della situazione diverse ore prima dell’invio dei soccorsi: “è scioccante sentir dire che Frontex aveva individuato l’imbarcazione e che nessuno sia intervenuto perché le offerte di aiuto sarebbero state rifiutate. Si trattava di un’imbarcazione sovraccarica e potenzialmente in difficoltà”.

Non è la prima volta che le autorità europee e nazionali scaricano le une sulle altre la responsabilità dei mancati soccorsi in mare, attribuendo le principali colpe agli “scafisti” e ai “trafficanti”, o addirittura alle vittime stesse, accusate di essere inconsapevoli dei rischi del viaggio. Le ricostruzioni dei naufragi più mortali avvenuti nel Mediterraneo negli ultimi 15 anni, realizzate da organizzazioni della società civile, da enti di ricerca indipendenti o da istituzioni internazionali come il Consiglio d’Europa, sono concordi: si è trattato, nella maggior parte dei casi, di eventi prevedibili ed evitabili, se solo le autorità avessero come priorità la tutela della vita e la garanzia del diritto d’asilo, non il controllo delle frontiere e il contrasto militare delle migrazioni irregolari.

Quanto ancora possiamo tollerare che la lista dei morti nel Mediterraneo si allunghi, facendo della frontiera meridionale dell’Europa la più pericolosa al mondo? Quando la società civile europea avrà un sussulto di coscienza, mobilitandosi per mettere fine alle stragi migratorie e al tradimento dei propri principi fondativi?

A Pylos, così come a Cutro, non è naufragata soltanto la speranza di uomini, donne, bambine e bambini di raggiungere l’Europa dei diritti e delle libertà: a naufragare è l’idea stessa di Europa, nata dalle macerie della Seconda guerra mondiale e dall’orrore di Auschwitz.

Il traffico di esseri umani si combatte garantendo la possibilità di esercitare il diritto alla libera mobilità e all’asilo in modo legale e sicuro, attraverso l’istituzione di canali di accesso dai paesi di partenza o di transito. Le morti in mare si evitano con operazioni di ricerca e soccorso promosse a livello istituzionale. Le omissioni di soccorso vanno individuate da autorità terze e perseguite come gravi violazioni dei diritti umani. Ne va della qualità democratica e dell’umanità stessa delle nostre società.

Coordinamento editoriale di “Scienza & Pace Magazine”