giovedì, Aprile 25, 2024
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Il sesto governo Netanyahu: quali rischi per i diritti e la democrazia?

di Arturo Marzano

 

Sabato sera 28 gennaio varie decine di migliaia di persone si sono riversate per le strade di Tel Aviv, Gerusalemme, Haifa e altre città israeliane per protestare contro il nuovo governo. Anche il sabato precedente, il 21 gennaio, si erano registrate manifestazioni in tutto il paese: solo a Tel Aviv si erano contate circa 130.000 persone. Una manifestazione oceanica per gli standard di Israele, visto che i numeri sono di solito decisamente più contenuti. E sia sabato 7 gennaio, sia sabato 14 gennaio, si erano viste scene simili, con manifestazioni di protesta in varie città di Israele. Come si spiega una partecipazione così massiccia e diffusa? E su cosa vertono queste manifestazioni?

Il nuovo governo, il 37° della storia di Israele, che ha ricevuto la fiducia della Knesset con 63 voti a favore su 120 lo scorso 29 dicembre, è considerato da un’ampia fetta di popolazione ebraica israeliana estremamente pericoloso perché rischia di mettere a repentaglio la tenuta democratica del paese. Gli slogan che circolavano – tra i tanti, ne cito due: «Governabilità non significa tirannia», «La democrazia non ha bisogno di un avversario addomesticato» – mettevano in luce il timore diffuso di una deriva autoritaria, sul modello dell’Ungheria di Orban o della Turchia di Erdogan. Alcuni cartelli accusavano Yair Levin, ministro della giustizia, di essere «nemico della democrazia liberale israeliana» e tre altri esponenti del governo, il Primo ministro Benjamin Netanyahu, il ministro delle finanze Bezalel Smotrich e quello per la sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir di essere «una minaccia per la pace del mondo».

Per comprendere se e fino a che punto tali timori siano spropositati o i manifestanti abbiano ragione di essere preoccupati, credo sia necessario fare un passo indietro e spendere alcune parole sul nuovo governo, in carica da poco più di un mese. Come molti commentatori hanno messo in luce, si tratta del governo più a destra della storia di Israele. Non è questa una novità: ciascuno dei governi guidati da Benjamin Netanyahu fino ad oggi era stato più a destra del precedente. Il governo del 2009 era più a destra di quello del 1996; quello del 2013 più a destra di quello del 2009; quello del 2015 più a destra di quello del 2013. Ha fatto eccezione solo il governo di unità nazionale del 2020, imposto a Netanyahu dal Presidente israeliano Reuven Rivlin a causa dell’impasse seguita a tre turni di elezioni (aprile 2019; settembre 2019; aprile 2020).

La novità dell’attuale esecutivo risiede, tuttavia, nei partiti che lo sostengono. Oltre al Likud, il partito di destra guidato da Netanyahu, a Yahadut ha-Torah [Giudaismo della Torà] e a Shas, cioè i due partiti che promuovono gli interessi degli ultraortodossi rispettivamente ashkenaziti e sefarditi, vi è un quarto soggetto, un cartello elettorale formato da tre partiti: Ha-zionut ha-datit [il sionismo religioso], ‘Otzma yehudit [orgoglio ebraico] e Noam [gentilezza]. Si tratta di tre partiti che molti definiscono «fascisti», «razzisti», «omofobi» e che, sebbene abbiano agende diverse, ciascuno con le proprie caratteristiche e le proprie specificità, mettono apertamente in discussione il carattere «ebraico e democratico» di Israele, privilegiando quello «ebraico» a discapito di quello «democratico». Il governo israeliano ha visto il Likud fare la parte del leone, dal momento che tutti i ministeri chiave sono guidati da un/a rappresentante del Likud: Eli Cohen agli esteri; Yoav Galant alla difesa; Nir Barkat all’economia; Yariv Levin alla giustizia, per menzionare i principali dicasteri.

Tuttavia, lo spazio che le tre forze politiche appena citate hanno ottenuto è molto ampio. Nello specifico, Bezalel Smotrich, leader di Ha-zionut ha-datit ha avuto il ministero delle finanze, ma anche un ruolo nel ministero della difesa, in particolare la possibilità di nominare i comandanti della «Amministrazione civile» e del «Coordinamento delle attività del governo nei Territori». Questo significa che Smotrich, strenuo sostenitore della presenza israeliana in Giudea e Samaria (come vengono definiti i Territori occupati palestinesi dalla destra sionista) e lui stesso un colono, avrà la possibilità di influenzare queste due istituzioni che si occupano dei rapporti con la popolazione palestinese e del coordinamento con la Autorità palestinese a tutto vantaggio dei coloni israeliani e a discapito dei residenti palestinesi.

Un altro importante dicastero aggiudicatosi dal partito è cosiddetto ministero delle missioni nazionali, dove siede Orit Strook, residente nell’insediamento di Hebron e protagonista in passato di varie iniziative lesive dei diritti dei palestinesi in Cisgiordania. Tale ministero, pur essendo senza portafoglio, ha in realtà un ruolo chiave, perché si occupa degli insediamenti, supervisiona lo sherut leumì, vale a dire il servizio nazionale civile, scelto in alterativa a quello militare dagli obiettori di coscienza, e sostiene le attività dei garinim toranim (lett. nuclei della Torah), cioè famiglie sioniste religiose che decidono di insediarsi in comunità periferiche di Israele per sostenerle e rivitalizzare la vita ebraica. In concreto, questo significa sostenere l’insediamento ebraico in contesti ritenuti difficili, per esempio quelli delle città miste arabo-ebraiche, finendo per avallare, quando non per promuovere, comportamenti espansionistici della popolazione ebraica a discapito di quella araba, rischiando di rendere più complicata la convivenza tra ebrei e arabi all’interno di Israele, già provata dagli scontri violenti che ebbero luogo in varie città israeliane, tra cui Lod, nel maggio del 2021.

L’altro partito del cartello elettorale, ‘Otzma Yehudit, si richiama espressamente al partito Kakh [Così] fondato dal rabbino statunitense Meir Kahane nel 1971 e capace di mandare nel 1984 proprio Kahane alla Knesset, poi bandito dalla vita politica israeliana per incitamento al razzismo. Significativi i due dicasteri che gli sono stati assegnati. Il primo è quello di Itamar Ben-Gvir, il ministero per la sicurezza nazionale, cui sono stati dati ampi poteri, a partire dalla supervisione sulla polizia israeliana e, soprattutto, la polizia di frontiera, attiva in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. È proprio la polizia di frontiera a occuparsi delle attività di sicurezza e, dunque, ad avere maggiormente a che fare con i palestinesi dei Territori occupati. Già nel 2001 la ong israeliana per i diritti umani B’Tselem aveva denunciato in un suo rapporto la violenza esercitata dalla polizia di frontiera nei confronti dei palestinesi. Il fatto che proprio Ben Gvir, noto per le sue affermazioni razziste fondate sul suprematismo ebraico, controlli la polizia di frontiera è fonte di inquietudine per ciò che potrà accadere nei Territori occupati. Il secondo dicastero è ricoperto da Yitzhak Wasserlauf, ministro per lo sviluppo del Negev e della Galilea. La popolazione palestinese cittadina di Israele ha già espresso preoccupazione perché tale ministero nelle mani di un esponente di ‘Otzma Yehudit porterà avanti politiche di giudaizzazione in due aree, il Negev a sud e la Galilea a nord, dove maggiormente è concentrata la popolazione araba. Così come per il ministero delle missioni nazionali, è alto il rischio che i rapporti tra arabi ed ebrei diventino più tesi a seguito dell’adozione di politiche discriminatorie, ad esempio nell’ambito dell’edilizia, in particolare per ciò che riguarda la possibilità che residenti in villaggi arabi ottengano permessi per edificare abitazioni o allargare quelle esistenti. Vista l’impostazione ideologia del partito, è da credere che tali permessi diminuiranno sensibilmente a vantaggio dell’espansione degli insediamenti ebraici.

Infine, anche il terzo partito della coalizione, Noam, ha ottenuto un dicastero, nello specifico quello di Avi Maoz, viceministro per l’identità ebraica. Basterebbe solo il nome del ministero per comprendere la delicatezza di tale ruolo. Ed è abbastanza prevedibile che Maoz, che si è espresso più volte contro il mondo laico e quello dell’ebraismo non ortodosso, farà della battaglia per rafforzare l’ebraicità di Israele la propria priorità, a discapito della democrazia.

Tuttavia, sebbene la presenza al governo di queste tre forze politiche sia molto problematica per quanto concerne il futuro dei rapporti tra arabi ed ebrei in Israele e la situazione nei Territori occupati palestinesi, non sono questi i temi maggiormente al centro delle rivendicazioni di queste quattro settimane di protesta. Quello che più preoccupa la popolazione ebraica israeliana – fatta eccezione per una minoranza, costituita dall’associazionismo più coinvolto nel dialogo arabo-ebraico o nel sostengo ai diritti dei palestinesi nei Territori occupati – è la tenuta della democrazia liberale israeliana per quanto concerne due elementi chiave: il rapporto tra magistratura e politica e la libertà di stampa.

Per quanto riguarda il primo elemento, Netanyahu viene accusato di voler sottoporre i giudici a un controllo da parte della politica. La riforma che il già ricordato ministro della giustizia Yair Levin intende realizzare vedrebbe la Corte suprema perdere la sua rilevanza, perché non avrebbe più l’ultima parola sulle leggi che contraddicono le cosiddette «Leggi fondamentali», cioè le leggi più importanti su cui si fonda lo Stato di Israele in assenza di una Costituzione. Se attualmente la decisione ultima sulla ‘costituzionalità’ di una legge approvata dal Parlamento spetta alla Corte, la riforma proposta dal governo permetterebbe al Parlamento di opporsi a quanto stabilito dalla Corte, ribaltandone la decisione con una maggioranza semplice di 61 parlamentari, così da approvare e far entrare in vigore una legge che la Corte ha definito ‘incostituzionale’. In questo modo, dunque, il potere legislativo ed esecutivo diventerebbero più rilevanti di quello giudiziario, e ciò accadrebbe in un paese che ha fatto dell’indipendenza della magistratura il proprio fiore all’occhiello. Non a caso molti dei cartelli che si sono visti nelle manifestazioni accusavano il governo di derive autoritarie nella sua strategia di porre limiti al potere giudiziario.

L’altro grande tema fonte di preoccupazione è il controllo sui media. Nel corso degli ultimi anni, gli attacchi di Netanyahu alla stampa sono stati numerosi, soprattutto utilizzando il quotidiano distribuito gratuitamente Israel hayom [Israele oggi], finanziato dal magnate statunitense Sheldon Adelson, amico di Netanyahu e legato ai circuiti neocon americani. Gli attacchi contro quotidiani indipendenti, tra tutti il giornale liberal Haaretz sono stati numerosissimi negli anni in cui Netanyahu è stato Primo ministro e il timore diffuso è che con il nuovo governo la situazione possa peggiorare. Non a caso, lo scorso 23 gennaio, uno dei titoli di Haaretz recitava proprio «Chiudere, cancellare, bloccare: il governo attacca i media» e nelle manifestazioni tale tema è venuto alla ribalta più volte. Non è chiaramente necessario sottolineare come l’indipendenza della magistratura e la libertà di stampa siano elementi cardine delle democrazie liberali occidentali.

Come detto, molto meno presenti nelle manifestazioni sono gli slogan che riguardano il futuro dei Territori occupati. E ciò colpisce ancora di più vista la situazione degli ultimissimi giorni: il 26 gennaio, l’operazione delle forze armate israeliane a Jenin, con l’uccisione di 9 palestinesi e il giorno dopo, l’attentato terroristico contro una sinagoga dell’insediamento di Neve Yaqoov a Gerusalemme Est, con l’uccisione di 7 israeliani. Le dichiarazioni del ministro Ben Gvir, che spinge per un’operazione militare su larga scala, sono decisamente preoccupanti. Eppure, tutto ciò ha trovato poco spazio nelle manifestazioni del 28 gennaio. Fortemente legato a questa assenza di interesse da parte dei manifestanti c’è un aspetto su cui credo valga la pena riflettere: come mai in Israele si sia giunti fino a questo punto, con la nascita di un governo del genere. Sarebbe troppo lungo – e forse impossibile – rispondere a questa domanda in un solo articolo. Mi limiterò a dire che, analizzando la politica israeliana degli ultimi venti anni, sono molto visibili i segnali di erosione dello stato di diritto in riferimento allo status dei palestinesi tanto residenti nei Territori occupati quanto cittadini di Israele. Basti pensare alla legge approvata nel 2003 – temporanea, ma da allora sempre rinnovata – in seguito alla quale non viene dato il permesso di risiedere in Israele ai coniugi di cittadini israeliani provenienti dalla Cisgiordania o da Gaza. O alla cosiddetta Legge Nakba, adottata nel 2011, che consentiva al ministero delle Finanze di tagliare i fondi a quelle associazioni o istituzioni che ricordassero il 15 maggio la Nakba palestinese. O, infine, alla «Legge fondamentale: Israele come Stato nazione del popolo ebraico», approvata nel 2018, la quale affermava all’articolo 1.3 che la realizzazione del diritto all’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele spettasse esclusivamente al popolo ebraico e non anche a quello palestinese. Leggi fortemente discriminatorie adottate da governi che non erano stati oggetto di proteste così diffuse. La ragione per la mancata critica è che questi provvedimenti colpivano quasi esclusivamente i palestinesi e, dunque, non avevano indignato a sufficienza la società ebraica israeliana.

Che cosa ci dicono allora queste proteste? Oltre a mettere in luce il pericolo – reale – che il governo Netanyahu può rappresentare per la democrazia israeliana, confermano ancora una volta che i diritti dei palestinesi e più in generale le conseguenze che l’occupazione israeliana ha sulla vita di milioni di palestinesi da ben 56 anni non interessano la maggioranza della popolazione ebraica israeliana, anche quella che non si riconosce nel governo Netanyahu. Quest’ultima è scesa in piazza adesso, mentre in occasione delle leggi citate lo aveva fatto in maniera decisamente più limitata, perché adesso il governo intacca diritti che la riguardano direttamente. L’occupazione militare dei Territori palestinesi è dunque ormai vissuta come normale dalla stragrande maggioranza degli ebrei israeliani. Ma finché sarà così, questo governo avrà in fondo vita facile perché potrà sempre giustificare il proprio operato – anche quando lesivo dei diritti dei cittadini ebrei – utilizzando la carta del pericolo che i palestinesi rappresentano per Israele, finendo per compattare l’opinione pubblica ebraica israeliana contro il “nemico esterno”, inclusi coloro che pure sono fortemente contrari al governo.

 

Arturo Marzano è professore associato di Storia e istituzioni dell’Asia presso il Dipartimento di civiltà e forme del sapere. Insegna il corso “Storia delle relazioni internazionali” alla laurea triennale in Storia e il corso “Storia, conflitti, movimenti” alla laurea specialistica in Scienze per la pace.