sabato, Aprile 27, 2024
Cultura

Giacomo Debenedetti, “16 ottobre 1943”

Nel carro-serpente, lungo
i bianchi cipressi
al di là del fiume
ti trassero.

Ma in te, per
nascita,
gorgogliava l’altra fonte,
sul nero getto
della rimembranza
rampicando ritrovasti
il giorno.

Paul Celan, Atemwende

 

di Andrea Panzavolta

La pagina con cui si chiude 16 ottobre 1943 – il racconto scritto da Giacomo Debenedetti sulla deportazione del ghetto ebraico di Roma – potrebbe essere riportata quale epigrafe a un ideale compendio storico del XX secolo, perché ne coglie la cifra costitutiva, vale a dire la sua indicibilità.

All’alba del giorno successivo al rastrellamento, realizzato dalla Gestapo in collaborazione col regime fascista, gli ebrei furono condotti alla stazione di Roma Tiburtina e qui stipati su carri bestiame. Il treno, dopo essere rimasto fermo per l’intera mattina «su un binario morto» (in questo aggettivo c’è già l’annuncio di ciò che sarebbe toccato in sorte al suo dolente carico), finalmente si mosse alle ore 14 in punto. «Una giovane che veniva da Milano per raggiungere i suoi parenti a Roma, racconta che a Fara Sabina (ma più probabilmente a Orte) incrociò il ‘treno piombato’, da cui uscivano voci di purgatorio. Di là dalla grata di uno dei carri, le parve di riconoscere il viso di una bambina sua parente. Tentò di chiamarla, ma un altro viso si avvicinò alla grata, e le accennò di tacere. Questo invito al silenzio, a non tentare di rimetterli nel consorzio umano, è l’ultima parola, l’ultimo segno di vita che ci sia giunto da loro».

A questo «invito al silenzio» sembra obbedire lo stesso Debenedetti: poche righe ancora e la sua narrazione termina. L’explicit è a tal segno repentino e soprattutto ‘stonato’, per così dire, rispetto al registro drammatico del racconto – registro massimamente cangiante, a dire il vero, giacché 16 ottobre 1943 è un mirabile resoconto giornalistico e insieme potente tragedia greca, struggente salmo penitenziale e insieme indomito grido di battaglia –, da pensare che sia stato scientemente voluto dall’autore. In ossequio a quanto quel viso, premuto alla grata, comandava mediante muti segni, Debenedetti sembra chiudersi la bocca con le mani, gesto dalle indiscutibili suggestioni bibliche qui, però, ribaltate di segno: ora la bocca si chiude non perché le parole siano insufficienti a descrivere le «mirabilia Dei», come avviene nel Libro di Giobbe, ma perché nessun logos ormai più soccorre per dire un dolor che è in-fandus, in-dicibile. Questo il capoverso che suggella il racconto: «Né il Vaticano, né la Croce Rossa, né la Svizzera né altri Stati neutrali sono riusciti ad avere notizie dei deportati. Si calcola che solo quelli del 16 ottobre ammontino a più di mille, ma certamente la cifra è inferiore al vero, perché molte famiglie furono portate via al completo, senza che lasciassero traccia di sé, né parenti o amici che ne potessero segnalare la scomparsa».

«Come una nave che solca l’onda agitata, / del cui passaggio non si può trovare traccia, / né scia della sua carena sui flutti» (Sap 5, 10), così è stato degli ebrei romani rastrellati il 16 ottobre 1943: «senza che lasciassero traccia di sé». Si comprende ora in tutta la sua terribilità il monito a fare silenzio: come è possibile, infatti, porre domande su uomini, donne e bambini di cui nulla è rimasto? Ciascuno di essi è un Niemand, per usare una parola che sta al centro della poetica di Paul Celan: un ‘nessuno’, un ignoto, uno che è stato cancellato dalla faccia della terra e di cui non si conserva memoria alcuna. E se anche si scoprisse una qualche traccia del loro passaggio, con quali parole narrare l’orrore che li ha annientati? Fate silenzio! sembra sussurrare quel viso dalla grata, perché non c’è più niente da dire. Fate silenzio! perché solo noi, che siamo i morti, conosciamo la lingua che potrebbe ridire il ronzio della falce che ci ha mietuti e il tino dell’ira che ci ha spremuti.

L’irrevocabilità di questa chiusa è avvertita come una brutale dissonanza, già lo si accennava, rispetto al resto del racconto dove le parole, invece, sembrano dominare la materia narrata. Quasi fino alla fine si avverte addirittura una inconcussa fiducia nei confronti delle parole, mirabile invenzione dell’ingegno umano attraverso cui è possibile tramandare la memoria e insieme elaborarla con libertà e creatività, così da renderne sempre attuale il messaggio, cantare la dimensione picaresca e corale della vita, denunciare il male e le sue seduzioni, resuscitare l’incanto dei giorni passati. Si legga a riguardo la serena e luminosa pagina che apre il racconto in cui Debenedetti canta, novello Davide, lo splendore del Tempio alla vigilia del sabato, lo sfavillare della menorah sugli ori e sugli stucchi, i metallici bagliori della cortina di broccato appesa dinanzi all’Arca e soprattutto il coro dei fanciulli che leva «un cantico di sacra tenerezza, l’inno dell’antico cabalista, ‘Lehà Dodì Lichrà Calà’: Vieni, amico, vieni incontro al sabato… Era il mistico invito ad accogliere il Sabbato che giunge, che giunge come una sposa».

Per parafrasare un famoso passo del Siracide, si potrebbe affermare che qui la parola «loda se stessa, […] si glorifica davanti alla sua potenza» (Sir 24, 1-2), tanto riesce a evocare felicemente un mondo di affetti ormai scomparso, anzi «il caro, il dolce, il pio passato», come avrebbe detto Micol Finzi-Contini, anch’ella travolta, insieme alla comunità ebraica di Ferrara a cui apparteneva, dalla furia nazifascista. Non solo. Più avanti, quando ormai la tragedia si è consumata, torna di nuovo l’immagine del Tempio sfolgorante nelle luci del sabato: il brillio dei raggi solari sulle selci, fradice di pioggia, del Portico di Ottavia suscita il ricordo della luce che, filtrando dai finestroni colorati della sinagoga, accendeva d’oro fuso le canne del registro superiore dell’organo. Ma poiché l’irreparabile è ormai accaduto, ecco che il ricordo subito si intorbida e si corrompe: il Tempio si trasforma nella fornace ardente dove Nabucodonosor, come narra il Libro di Daniele (Dn 3, 26-90), aveva gettato tre giovinetti ebrei che si erano rifiutati di adorare gli idoli (e la fornace del racconto biblico non può non richiamare, per metonimia, i forni crematori dei campi di sterminio o gli shtetl incendiati). E ancora. L’episodio che immediatamente segue la nostalgica rievocazione del preterito, con cui principia il racconto, ha il timbro della tragedia greca.

Non il sabato giunge la sera di venerdì 15 ottobre, bensì «la Celeste»: una donna nerovestita, scarmigliata, sciatta, latrice di una voce che ella aveva appreso dalla moglie di un carabiniere secondo la quale il comando tedesco di Roma aveva stilato una lista di duecento ebrei da deportare. Ma poiché la Celeste aveva la nomea di essere una originale – in ogni comunità ebraica, del resto, c’è uno Shlemiel, un folle, uno ‘scemo del villaggio’ – nessuno le aveva creduto. L’irruzione sulla scena di questa donna sortisce uno straordinario effetto drammatico (e drammaturgico) ed è intrisa di molteplici suggestioni tragiche che rimandano all’ingresso del messaggero nell’Edipo re di Sofocle o alle appassionate, ma inani, invocazioni di Cassandra affinché si presti fede alle sue parole nell’Agamennone di Eschilo. E per finire. Tutto il racconto è punteggiato da riflessioni fuori-campo, come affidate a un ideale Coro («Questo non capire è il peggiore degli incubi»; «[Solo i tedeschi] sapevano la ragione di quell’inferno. E forse la vera ragione era che non ce ne fosse nessuna: l’inferno gratuito, perché riuscisse più misterioso, e perciò più intimidatorio»; «Il dramma entrava nella vita, vi si mescolava con una spaventosa naturalezza, che lì per lì non lasciava campo nemmeno allo stupore»; «Torto nostro a voler cercare una regola nel più spaventoso degli arbitrii»), riflessioni che conferiscono al racconto di Debenedetti lo statuto di un vero e proprio libro sapienziale.

Insomma: in 16 ottobre 1943 si avverte con chiarezza come il logos – nella sua duplice accezione di ratio e oratio, di ‘parola pensata’, parola che ha il proprio ethos nella riflessione insonne – sia il solo strumento attraverso il quale l’autore tenta di penetrare l’oscurità della materia e di spiegare la più ignominiosa delle barbarie, quella perpetrata a offesa degli innocenti e degli inermi. Eppure, si torna a ripetere, nell’ultima pagina la parola subisce un fatale scacco, si inabissa, si rattrappisce, si ripiega nella sua stessa impossibilità, tanto che a conclusione del racconto non stonerebbe la citazione virgiliana impiegata da Manzoni nella poesia Natale 1833: «cecidere manus», le parole con cui nel Sesto Libro dell’Eneide si narra di Dedalo che tenta più di una volta di ritrarre la caduta del figlio Icaro, ma è costretto a rinunciare. E cadono, le mani dello scrittore, perché non riescono più a trovare le parole, le quali cedono «a tanto oltraggio», si ritraggono stupefatte dinanzi a una visione d’orrore che travalica, che si spinge oltre l’umana comprensione. In un tempo in cui gli uomini sono trasformati in carne da macello e costretti a esprimersi con i versi degli animali, tanto grande è il dolore che li soverchia e li snatura, il discorso letterario ha ancora un senso? Quel cenno di tacere, che si intravede dietro la grata di un vagone diretto alla valle delle ombre, quel «labbro dichiarato interdetto», per citare ancora Celan, è un invito ad ammutolire (Verstummen) o piuttosto a cercare le ‘vere’ parole, ad arrampicarsi per ritrovare la luce del giorno?

Nell’edizione Einaudi il racconto di Debenedetti termina a pagina 49: questa riporta appena tre righe seguite da una data («Novembre 1944»); segue uno spazio vuoto che è a dir poco stordente. Forse, però, è proprio il bianco di questa pagina che si deve esplorare; è in questa cavità che si deve scendere. Per quanto possa sembrare paradossale, il bianco solenne di questa pagina è un invito imperioso alla parola. Certo, dopo Auschwitz ogni parola è irreparabilmente ferita – questo vuole dire, almeno così sembra, la celebre affermazione di Edmond Jabès: «Non si racconta Auschwitz; ogni parola lo racconta» –, ma è soltanto la parola che può vincere l’oblio. La parola, infatti, nomina, e nominando salva: «Ma questo / essere stati una volta, pur solo una volta: / essere stati terreni, appare inappellabile» canta Rilke nella Nona delle sue Elegie duinesi. È vero: la gelida ombra del Niente ha artigliato la parola, ma è ancora la parola a dirlo; la cenere uscita dai forni crematori ha soffocato la parola, ma è ancora e sempre la parola a dirlo.

Nel bianco e nel silenzio della pagina 49 già ci sembra di udire il suono di una nuova Parola, di una Parola-a-venire. Ancora con Celan: «Luce, era. Salvezza». «Licht war. Rettung».

 

Andrea Panzavolta è giornalista pubblicista. Collabora alla rubrica “Film in discussione” di Iride. Filosofia e discussione pubblica, e ad alcune riviste di critica cinematografica. Dal 2014 è il direttore artistico della rassegna concertistica forlivese “Passioni in musica”.