sabato, Aprile 27, 2024
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Quale “giornalismo di pace” nel conflitto Hamas-Israele? Intervista a Nancy Porsia

I media hanno un grande potere e, di conseguenza, una grande responsabilità nell’offrire al pubblico informazioni accurate e strumenti adeguati per comprendere i conflitti armati. Diventano, essi stessi, attori del conflitto nella misura in cui, con le loro narrazioni, possono contribuire a esacerbare o ridurre la violenza. Il conflitto armato in corso tra Hamas e Israele non fa eccezione: il modo con cui i media, tradizionali e social, raccontano gli eventi ha un ruolo fondamentale nel plasmare le opinioni pubbliche e l’agenda politica. Guardando ai principi del “giornalismo di pace” elaborati da Johan Galtung, tra i fondatori dei peace studies contemporanei, abbiamo intervistato Nancy Porsia, giornalista freelance esperta di Nord Africa e Medio Oriente. Tante le questioni affrontate. Quanto spazio viene dato nei media italiani agli episodi di violenza e quanto all’analisi e alla ricostruzione delle cause del conflitto? Quali fonti vengono usate? Quali voci trovano ascolto? Come viene usata la storia per spiegare l’attualità? Quali parole usiamo per descrivere la violenza, chi la compie e chi la subisce? E come queste diverse scelte giornalistiche influenzano l’opinione pubblica e la politica? E ancora: come fare un uso critico delle notizie, evitando la propaganda di guerra? E infine: come trovare fonti di informazione affidabili e capaci di restituirci la pluralità dei punti di vista in gioco nel conflitto in corso? Ci auguriamo che le risposte fornire da Nancy Porsia in questa intervista – la prima di una serie che ci ripromettiamo di pubblicare su questo tema – servano ad aprire un dibattito necessario su come veniamo informati e su come ci informiamo, provando a uscire da sterili polarizzazioni ma tenendo ferma la bussola dei diritti umani, del rispetto del diritto internazionale e delle vie nonviolente di risoluzione dei conflitti.

Johan Galtung, tra i fondatori degli studi sulla pace contemporanei, promuove un giornalismo di pace che non alimenti il conflitto armato, ma contribuisca alla sua comprensione critica e, in prospettiva, alla sua trasformazione nonviolenta. Come valuti, alla luce di questi principi, il modo in cui la stampa italiana sta raccontando la guerra in corso tra Hamas e Israele?

Nei primissimi giorni la narrazione adottata dalla maggior parte dei media italiani è stata del tutto decontestualizzata. Sono partiti dalla strage che Hamas ha compiuto il 7 ottobre nel Sud di Israele, omettendo il contesto storico in cui questa azione, terroristica e atroce, ha avuto luogo. Risultato: una narrazione unilaterale, in cui Israele e i civili israeliani sono apparsi come le uniche vittime, come se il conflitto non andasse avanti da settant’anni. Quando i media decontestualizzano la violenza, anche quella ingiustificabile contro i civili, finiscono per parlare alla “pancia” degli ascoltatori e delle ascoltatrici, che non sempre hanno gli strumenti per comprendere la lunga e complessa storia dentro cui si inserisce l’azione di Hamas. Così si aderisce in modo acritico alla visione di uno solo degli attori in conflitto, legittimandone la reazione violenta e sproporzionata e, dunque, alimentando ulteriori morti e distruzioni.

Si tratta di un problema serio per il giornalismo, per la corretta informazione del pubblico e per le prospettive di pace. Un problema che non viene fuori ora: la politica di occupazione e di colonizzazione portata avanti dai governi israeliani è, da anni, accettata e tollerata in Occidente, nel senso che Israele gode di una sostanziale impunità per le violazioni del diritto internazionale, denunciate recentemente anche dalla Relatrice Speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei Territori Occupati. L’ultima volta in cui il governo israeliano ha accettato di retrocedere è stato tra il 2004 e il 2005, quando 21 insediamenti abusivi nella Striscia di Gaza e 4 in Cisgiordania settentrionale sono stati smantellati. Per il resto, negli ultimi anni, abbiamo assistito a una politica di espansione aggressiva nei Territori occupati, mentre Gaza è stata posta sotto assedio militare: anche beni di prima necessità, come acqua ed elettricità, non sono nelle disponibilità della popolazione e del governo di Gaza guidato da Hamas, ma sono una concessione del governo israeliano.

Una questione centrale del giornalismo di pace riguarda la selezione delle fonti: l’obiettivo, secondo Galtung, dovrebbe essere quello di fornire una copertura ampia e plurale dei punti di vista nel conflitto, dando voce più che alle élite politiche e militari alla popolazione civile e ai difensori dei diritti umani. A chi danno voce, prevalentemente, i media italiani riguardo al confino in corso? Quali fonti vengono utilizzate?

Nelle prime ore e nei primi giorni dopo l’attacco di Hamas, la maggior parte dei media italiani ha usato le fonti provenienti dal governo e dall’esercito israeliano. In questo caso i civili hanno avuto voce in quanto civili israeliani: mi riferisco ai sopravvissuti e alle famiglie delle vittime. Dare voce alle vittime è certamente molto importante, ma in questo caso se ne è fatto un uso particolare per rendere ancora più spettacolare e terribile l’azione – ingiustificabile – compiuta da Hamas, e favorire l’identificazione dell’opinione pubblica soltanto con Israele. Questa narrazione ha funzionato anche perché, a differenza dei palestinesi, gli israeliani sono percepiti come più vicini al mondo occidentale. Mostrare ragazzi e ragazze che fuggono a un rave sotto l’attacco di uomini armati, o raccontare di famiglie brutalmente uccise nelle proprie case, ha prodotto una forte empatia con le vittime. Cosa che non è avvenuta le numerose volte che, negli anni e nei decenni passati, bambini, ragazzi e intere famiglie palestinesi sono state uccise dall’esercito israeliano.

Dal gennaio 2008 fino alla metà di settembre 2023 l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari ha accertato 6.407 civili palestinesi uccisi nei Territori Occupati. Il 2023, fino allo scoppio delle ostilità in corso, è stato l’anno con il maggior numero di minori palestinesi uccisi: almeno 38, secondo Save the Children. Ma loro non hanno fatto notizia. Si è creata una sorta di assuefazione rispetto a queste morti, che vengono oscurate o normalizzate.

Esiste un problema di doppio standard nella narrazione di questo conflitto, di cui anche la stampa è responsabile. Per questo dare voce ai civili, con le modalità con cui è stato fatto nei primissimi giorni, non ha aiutato la pace perché si è dato voce solo a quella parte del conflitto che chiedeva “vendetta”. Negli ultimi giorni stiamo assistendo a qualche cambiamento, ancora poco registrato dalla maggior parte dei media italiani. Penso ad alcuni canali Instagram molto interessanti, tra cui “Breaking the Silence Israel”, in cui alcuni israeliani, tra cui anche alcuni ragazzi presenti al tragico rave del 7 ottobre, chiedono al loro governo di fermare l’attacco su Gaza: “Noi – dicono – siamo rimasti feriti e i nostri amici sono morti, non per una falla nel sistema di sorveglianza e difesa dell’esercito israeliano, ma perché c’è un conflitto in corso e l’unico modo per produrre sicurezza è quello di arrivare a una soluzione diplomatica e politica di questo conflitto”.

Altra questione fondamentale per un giornalismo di pace è quella della ricostruzione accurata delle cause della violenza armata. Hai già segnalato, nella narrazione prevalente, un problema di decontestualizzazione e di doppio standard. Come valuti il modo in cui la stampa italiana ha generalmente ricostruito le cause del conflitto in corso e, in particolare, dell’attacco di Hamas?

I principali media italiani tendono a preferire “la firma” o “il volto noto” rispetto alla competenza specifica del singolo giornalista o della singola giornalista su un determinato conflitto. Anche in questa occasione abbiamo ascoltato le solite voci, soprattutto in TV, anche in assenza di una competenza specifica sul conflitto israelo-palestinese, così come sulla storia o sula natura di Hamas. Ci sono in Italia alcune colleghe e alcuni colleghi che hanno, su questi temi, un’esperienza decennale ma si è preferito dare spazio a chi viene ormai riconosciuto, quasi come un brand, come “reporter di guerra”.

Si è persa così un’occasione importante per ricostruire il complesso contesto storico-politico in cui soltanto si può comprendere l’azione di Hamas. Si tratta di un movimento che nasce e si sviluppa attraverso diversi decenni, come movimento di resistenza e rivendicazione politica di ispirazione religiosa finalizzato alla nascita di uno Stato palestinese (che, com’è noto, non è mai sorto), ma anche alla promozione di programmi socio-educativi a favore della popolazione palestinese. Il progressivo fallimento degli Accordi di Oslo e l’inasprimento dell’occupazione israeliana hanno contribuito alla radicalizzazione di Hamas e al suo ritorno alla violenza armata: penso, nei primi anni 2000, alla campagna di attentati terroristici in Israele. Ma non è un processo lineare, né univoco. Nel 2004, ad esempio, uno dei leader di Hamas al-Rantissi ha offerto una tregua di dieci anni in cambio del ritiro da parte di Israele dai Territori occupati durante la Guerra dei sei giorni e dell’istituzione di uno Stato palestinese.

Mi pare che la maggior parte dei media non abbia aiutato il pubblico a comprendere neanche le ragioni del radicamento di Hamas a Gaza, dopo la vittoria elettorale del 2006 e la prevalenza su Fatah nella guerra civile. Nell’assenza di prospettive credibili per la fine dell’occupazione e la nascita di uno Stato palestinese, Hamas è diventato un punto di riferimento per la parte di popolazione più disillusa e traumatizzata, che ha subito lutti in famiglia o la distruzione delle proprie case. Allo stesso modo, non è stata spiegata a fondo la scelta, da parte di Hamas, di questo preciso momento per sferrare l’attacco: non solo per approfittare delle divisioni interne a Israele, a seguito delle contestate riforme della giustizia portate avanti dal governo Netanyahu, ma per impedire la “normalizzazione” dei rapporti tra Israele e mondo arabo che, dal loro punto di vista, equivale all’archiviazione definitiva della “questione palestinese”. E, d’altra parte, da tempo la comunità internazionale ha isolato il popolo palestinese, considerando la questione israelo-palestinese come una questione superata.

La maggior parte dei giornali italiani ha dedicato la prima pagina dell’11 ottobre scorso alla strage nel kibbutz di Kfar Azza, enfatizzando la presenza tra le vittime di molti bambini orribilmente uccisi da Hamas. Si è trattato di una notizia che ha colpito molto l’opinione pubblica ma che, per quanto ci risulta, non è stata verificata né confermata. Che idea ti sei fatta di questa vicenda? E come valuti gli effetti di questo tipo di narrazione?

Innanzitutto occorre ricordare che nel Sud di Israele, interessato dall’attacco di Hamas, non sono stati ammessi giornalisti internazionali ma soltanto israeliani. Questo di per sé costituisce un problema, che avrebbe dovuto mettere la stampa in guardia dal rischio di fornire notizie non verificate o non verificabili in modo indipendente.

La TV israeliana che ha lanciato la notizia dei bambini decapitati nel kibbutz, la i24news, è nota a chi si occupa del conflitto israelo-palestinese per il suo approccio sensazionalistico (altro elemento da tenere in considerazione quando si rilanciano le notizie). In questo caso una giornalista di quel canale ha lanciato la notizia dicendo che aveva visto i corpi mutilati. Incalzata sulle prove del suo racconto, è dovuta tornare sui suoi passi dicendo che in realtà stava riportando non quello che aveva visto di persona ma quello che le era stato detto da un soldato. In base alle informazioni di cui possiamo essere ragionevolmente certi, non ci sono state decapitazioni di bambini, anche se ci sono stati delitti efferati, come famiglie con bambini uccisi in casa e case date alle fiamme [su X, ex Twitter, anche la Relatrice Speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei Territori occupati ha esortato alla prudenza rispetto a questa e altre possibili notizie non verificate, sottolineando il loro potere di alimentare la spirale della violenza, ndr].

Di fronte a una notizia non verificata è importante capire perché tendiamo a crederla vera. Penso sia perché conferma ciò che riteniamo di sapere già o ciò che riteniamo probabile. È come se, in qualche modo, la decapitazione fosse una prova inconfutabile della disumanità di Hamas. Tant’è che, proprio partendo da questa notizia non verificata, è diventato usuale equiparare Hamas al cosiddetto Stato Islamico [l’equiparazione fa leva sulla pratica dell’ISIS di decapitare i propri prigionieri e riprendere in video l’esecuzione, ndr].

Lo stesso Presidente degli Stati Uniti ha fatto più volte riferimento a quella notizia, includendola tra le ragioni del supporto incondizionato a Israele. Solo qualche giorno dopo l’amministrazione statunitense ha cambiato registro: ha messo in guardia il governo israeliano dal cedere alla rabbia cieca e ha invitato alla moderazione, anche se ha fatto poco o nulla per fermare i bombardamenti sui civili a Gaza [il 17 ottobre, al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, gli Stati Uniti hanno posto il veto su una risoluzione proposta dal Brasile che chiedeva una tregua umanitaria per inviare aiuti a Gaza, in quanto la risoluzione non menzionava il diritto di Israele a difendersi, ndr].

La forte e comprensibile ondata di emozione suscitata dalla notizia non verificata dei bambini decapitati mi pare, ancora una volta, frutto di un doppio standard. Gli israeliani fanno parte del “mondo libero”, sono persone che “come noi” hanno a cuore la vita umana e la cui vita conta. Non vale lo stesso per gli arabi, per i musulmani – considerati jihadisti quasi di default – e per tutti i gruppi che non rientrano nei canoni occidentali.

Oltre all’identificazione con l’ISIS, il racconto giornalistico dell’attacco di Hamas è stato particolarmente denso di parallelismi storici. Si è evocato innanzitutto lo sterminio nazista, l’olocausto. Si è paragonato il 7 ottobre all’11 settembre. Si è ricordata anche la guerra dello Yom Kippur del 1973. Che ne pensi di quest’uso della storia nella narrazione mediatica? Come andrebbe usata la storia, se mai va usata, per interpretare l’attualità?

I parallelismi storici sono sempre usati dalla stampa internazionale, ma anche dai politici e dagli opinionisti, in un’ottica di semplificazione: quando ci si riferisce a un evento epocale o a un fatto storico, che si presume ben noto all’opinione pubblica, quel riferimento diventa uno strumento per inquadrare il nuovo accadimento e offrire indicazioni su come affrontarlo. Tuttavia, in questi paralleli storici si rischia sempre di perdere la specificità dei nuovi eventi: la storia non si ripete mai uguale a sé stessa.

Nello specifico, non credo si possa davvero paragonare l’11 settembre al 7 ottobre, se non altro perché in quel caso si aveva a che fare con una azione terroristica di matrice internazionale. Lo stesso vale per lo Yom Kippur, la guerra arabo-israeliana del 1973, perché è stata combattuta da eserciti regolari: da una parte una coalizione araba, composta principalmente da Egitto e Siria, e dall’altra Israele. L’unico tratto comune con il 1973 riguarda il momento (le festività ebraiche dell’inizio di ottobre) e l’effetto sorpresa dell’attacco. Oggi siamo davanti a una guerra asimmetrica, in cui quello israeliano è un esercito strutturato, mentre Hamas è un movimento politico dotato di un braccio armato, inserito da molti governi occidentali nella black list dei gruppi terroristici.

Mi pare che questi usi della storia nella narrazione giornalistica del conflitto in corso, più che aiutare a comprendere quello che sta succedendo, siano serviti a giustificare una risposta militare estremamente dura di fronte a un “pericolo mortale” per Israele: il parallelo con l’Olocausto e l’equiparazione di Hamas ai nazisti mi pare vada proprio in questa direzione.

La BBC ha deciso di non utilizzare la parola “terroristi” ma “militanti” per riferirsi ad Hamas. Questa scelta è stata criticata da alcuni giornalisti italiani. Come spieghi e valuta la scelta della BBC? A tuo avviso, come ci si dovrebbe comportare rispetto all’uso di queste categorie, da sempre controverse, di terrorismo e terroristi?

“Terrorista” è una parola molto connotata in senso negativo. Tecnicamente, dovrebbe descrivere un’organizzazione, un movimento o una persona che compie atti di violenza contro persone o gruppi di persone disarmate, civili, e che, con le proprie azioni, mira a creare il panico nell’avversario. Stando a questa definizione, si potrebbe applicare la stessa parola anche a certe pratiche di guerra del governo israeliano, che sta punendo collettivamente la popolazione di Gaza per annientare il suo nemico, che è Hamas.

La BBC preferisce il termine tecnico di “militanti” per definire i combattenti di Hamas, facendo riferimento al fatto che non sono parte di un esercito regolare, a differenza di quello israeliano. Io credo sia una scelta ponderata, dettata dalla consapevolezza dell’uso politico che si fa del termine per delegittimare e disumanizzare l’avversario e da una certa visione dei compiti del giornalismo: informare e lasciare che il pubblico si faccia da sé un’idea degli avvenimenti. Lo ha spiegato bene John Simpson, capo redattore della sezione esteri della testata.

Questa scelta va nella direzione di una narrazione equilibrata, che dà spazio ai fatti, critica la propaganda di tutte le parti (non solo di una) e denuncia le violazioni del diritto internazionale umanitario (che proibisce l’uccisione di civili) da qualsiasi parte esse provengano.

In questo, come in tutti i recenti conflitti armati, i social media affiancano e persino scavalcano i media tradizionali, precedendoli nel dare determinate notizie e dando voce a soggetti prima non ascoltati. Quali opportunità e quali rischi vedi nell’uso dei social per lo sviluppo di un giornalismo di pace?

I social media stanno giocando un ruolo sempre più importante nei conflitti contemporanei, perché amplificano all’ennesima potenza i canali accessibili per diffondere informazioni: non è più soltanto il grande editore a decidere a quale voce dare spazio ma, grazie all’orizzontalità dei social media, letteralmente chiunque può dire ciò che pensa e raccontare la “sua storia”. Questo permette di superare lo sbarramento economico (ma anche politico) verso certi punti di vista, che caratterizza i media tradizionali.

Come sappiamo bene in rete c’è tanta “spazzatura informativa”, ma si trovano anche documenti interessanti. Occorre saper valutare e distinguere bene le fonti, prestando particolare attenzione al fatto che, nel caso di attori privi di qualifiche giornalistiche che non entrano nella dinamica del contraddittorio, siamo di fronte a una narrazione soggettiva, di parte.

Nel conflitto in corso vediamo canali come “Eye on Palestine” o come “Breaking the Israeli Silence”, di cui parlavo prima, ma soprattutto numerosi giornalisti palestinesi (gli unici presenti all’interno della Striscia di Gaza) che lavorano per la BBC o per Al-Jazeera, ma che, al netto del lavoro che svolgono per i grandi broadcaster, condividono molto materiale sui loro profili personali, mostrando la realtà quotidiana di Gaza minuto per minuto. Questo è fondamentale per chi vuole raccontare seriamente il conflitto: non c’è quasi fatto che non sia stato documentato e questo offre, in teoria, la possibilità di verificare le notizie e di vedere le cose da più punti di vista.

Per usare bene queste fonti bisogna avere un occhio allenato. I giornalisti, con la loro professionalità e deontologia, dovrebbero avere la capacità di selezionarle in modo critico prima di integrarle nel proprio racconto. I social media fungono ormai da vere e proprie fonti primarie, ma occorre sempre comprendere il posizionamento di chi parla e racconta, verificando l’autenticità del profilo, cos’ come la credibilità e l’accuratezza delle notizie riferite. Ci sono citizen journalists, come vengono chiamati, che sono più attenti alla verità dei fatti che alcuni giornalisti professionisti. È importante che siano loro a raccontare in prima persona ma, allo stesso tempo, è importante che siano dei giornalisti di mestiere a mettere “insieme i pezzi”, non limitandosi al semplice rilancio.

I social media diventano una grande risorsa soprattutto in quelle zone di guerra a cui i giornalisti non hanno accesso, dove c’è una forte censura o dove si ha un “corto circuito giornalistico-militare”, in cui le notizie sono filtrate da uno degli eserciti o da una sola delle parti in conflitto. Da questo punto di vista, sono preoccupata del potere delle grandi piattaforme digitali (Instagram in particolare) di decidere quali contenuti rimuovere e soprattutto quali profili far vedere, o addirittura cancellare, come sta avvenendo anche nel conflitto in corso a scapito di chi dà voce alla parte palestinese.

Come possiamo evitare di cadere nella propaganda di guerra? Quali requisiti deve avere una notizia credibile e quali, invece, sono i segnali di una notizia con alta probabilità di essere costruita a fini propagandistici?

Le possibilità di imbattersi in una notizia falsa, in tempo di guerra, è particolarmente elevata e questo non è una novità. Nuova è la dinamica dei social: la tempistica velocissima che ci impone oggi lo sharing online, unita al desiderio di dare per primi una notizia, rischia di far saltare il passaggio fondamentale della verifica, soprattutto delle fonti. Vale per gli utenti comuni, ma anche per i giornalisti, specie se non sono sul campo ma in qualche redazione lontana da dove si sono svolti i fatti.

Oggi siamo letteralmente inondati anche di materiale audiovisivo. Potremmo credere che questo faciliti l’individuazione delle notizie false, in quanto siamo portati a credere che un’immagine o un video sia una prova: la cosiddetta “pistola fumante”. La verità è che le immagini e gli stessi video sono facilmente manipolabili, ormai dovremmo saperlo, e l’uso dell’intelligenza artificiale per “costruire” immagini e video credibili richiede di alzare ulteriormente l’attenzione. Ci sono soggetti che investono grandi energie e risorse nella propaganda attraverso i social media. Ci sono squadre di persone che confezionano audiovisivi in vista della loro diffusione social, con una regia e una produzione abbastanza sofisticate, per trarre in inganno l’opinione pubblica e la stessa stampa.

Per non cadere nella propaganda di guerra, che alimenta la spirale della violenza, bisogna sempre avere ben presente il contesto e i vari attori in gioco, valutare la credibilità della fonte e confrontare fonti diverse. Da questo punto di vista, quello che valeva nella metà dell’Ottocento, quando è nato il genere del “giornalismo di guerra”, vale ancora oggi, con l’unica differenza della sovrabbondanza di prodotti audiovisivi, della loro elevata manipolabilità e della difficoltà di non avere più fonti “di per sé” credibili.

Come possiamo informarci in maniera corretta e critica sul conflitto in corso?

Ci sono sicuramente broadcaster internazionali che stanno facendo un buon lavoro. Penso a BBC e Al-Jazeera che, a differenza dei media italiani, promuovono una narrazione bilanciata che dà conto delle violenze e delle vittime da entrambe le parti. Non abdicano al loro dovere di interrogare il governo israeliano sui crimini di guerra che sta commettendo, o che potrebbe commettere, a Gaza. Promuovono momenti di discussione seria, con contraddittori molto interessanti che ricostruiscono bene il contesto storico-politico delle violenze di cui siamo spettatori, senza indulgere in modo spettacolare solo su queste.

Sui social, ci sono diversi canali che si possono seguire utilmente, per capire che cosa succede a Gaza, qual è il dibattito pubblico in corso nei paesi del Medio Oriente o quali voci critiche esistono nelle comunità israeliane, aspetti generalmente trascurati dai principali media italiani. Oltre ai canali che ho già ricordato, penso a “Middle East Eye” o “+972Magazine“, ovvero a “Jewish Voice for Peace”.

Uno dei principali problemi del dibattito pubblico italiano, e dei media che lo alimentano, è la chiusura verso voci e prospettive non occidentali. Senza un ascolto autentico e attivo del resto del mondo, senza una coscienza critica rispetto al “primato morale”, oltre che economico e politico, vantato storicamente dall’Occidente, sarà difficile affrontare e risolvere questo e altri conflitti che già si profilano all’orizzonte su scala mondiale.

Intervista a cura di Federico Oliveri, realizzata il 16 ottobre 2023 e chiusa in redazione il 22 ottobre 2023.

Nancy Porsia è una giornalista freelance esperta di Medio Oriente e Nord Africa. I suoi lavori da Libia, Iraq, Siria, Libano e Tunisia sono stati pubblicati da emittenti nazionali e internazionali come Rai, SkyTG24, Il Fatto Quotidiano, L’Espresso, ARTE, ARD, The Guardian e Al Jazeera. Ha seguito da vicino la guerra civile in Libia occupandosi, in quel contesto, di migrazioni e di trafficanti. A questi temi è dedicato il suo ultimo libro, Mal di Libia.