giovedì, Novembre 21, 2024
AmbienteEconomia

Un’altra goccia non ci ucciderà? Crisi climatica, crisi sociale e l’esperienza del Covid-19

di Matteo Villa

 

Riconoscere i legami

In questa iniziativa del Global Strike for Our Future, gli organizzatori (Fridays For Future ed Earth Strike di Lucca) propongono una riflessione sul legame tra crisi del Coronavirus e crisi ecologica. Il punto è essenziale: come infatti discusso all’inizio della pandemia su questo Magazine, la diffusione del virus e le sue molteplici conseguenze sono essenzialmente parte di una crisi profonda del rapporto fra noi e la natura di cui siamo parte. Molti contributi e studi sono da allora stati pubblicati e possiamo prendere spunto da questi, altri lavori, e gli eventi più recenti per riflettere su quel tipo di legami che spesso siamo tentati di non provare a comprendere e riconoscere.

 

Non sulla stessa barca

In un recentissimo articolo su Foreign Affairs, Marianna Mazzuccato ricordava una massima politica molto popolare che recita “Never let a good crisis go to waste”, “Mai lasciare che una buona crisi vada sprecata”. Questo, sappiamo, è quanto esattemente accaduto con la crisi economica del 2007/08 da cui abbiamo appreso ben poco e i cui meccanismi socio-economici, finanziari e istituzionali, nonché le diseguaglianze e la costellazione degli interessi e norme che ne furono all’origine sono ancora sostanzialmente al loro posto. Inoltre le crisi non sono veramente “buone” e men che meno necessariamente “giuste”: come quella economica, quella del Covid non lo è stata con troppe persone, famiglie e gruppi di popolazione che hanno pagato un prezzo molto elevato e continueranno a farlo. La crisi del Coronavirus ha ulteriormente messo in luce e, allo stesso tempo, approfondito, i molteplici volti delle diseguaglianze economiche, di salute e di accesso alle risorse naturali, sociali, digitali, oltre che alle cure e ai servizi essenziali. D’altro canto, le grandi società tecnologiche multinazionali, approfittando e anche abusando di posizioni dominanti, delle condizioni di emergenza, di una scarsa conoscenza e consapevolezza sul loro ruolo e sui funzionamenti da parte di decisori e utilizzatori, oltre che di una certa leggerezza negli stessi processi decisionali, si sono arricchite ulteriormente e hanno incrementato la propria già enorme capacità di infiltrazione nella vita quotidiana, nel funzionamento delle istituzioni (per esempio quelle dell’istruzione) e nei processi politici.

In tale contesto, qualche nota figura politica e dello star system nei giorni del lockdown ha provato a dire che “we are all in this together”, “siamo tutti sulla stessa barca”. Tuttavia non lo siamo: siamo nello stesso mare, non sulla stessa barca. Di fronte alla crisi alcuni possono proteggersi, viaggiano su comodi yacht e cercano le acque più adatte per mantenere o incrementare le rendite di posizione e tutelarsi da eventi futuri. Altri hanno meno possibilità ma comunque mezzi e strumenti sufficienti per garantire a se stessi e ai propri cari una discreta, buona o anche ottima attraversta nelle acque agitate. Una larga maggioranza della popolazione mondiale sperimenta invece navigazioni ben più incerte e rischiose e moltissimi sono aggrappati a barchini di fortuna e gommoni bucati.

Tali diseguaglianze, come discusso in un recente rapporto Oxfam, si riflettono nella produzione delle emissioni alla base del cambiamento climatico, dove il 10% più ricco, noi compresi, ha contribuito per oltre la metà (52%) delle emissioni aggiunte all’atmosfera tra il 1990 e il 2015, e l’1% più ricco è stato responsabile del 15% delle emissioni durante lo stesso periodo, più di tutti i cittadini dell’UE e più del doppio della metà più povera dell’umanità (7%). I più grandi inquinatori, che maggiormente contribuiscono alla crisi climatica, sono anche quelli che meglio e più a lungo possono proteggersi dai suoi distruttivi effetti. mettendo in luce il fallimento di un sistema che produce, come dicono i movimenti, distruzioni generalizzate per il vantaggio di pochi. Un sistema di cui siamo parte, che continuiamo ad alimentare e da cui almeno alcuni di noi traggono diversi vantaggi.

Se dunque politiche, strumenti e azioni messe in campo nei mesi a venire saranno finalizzati all’obiettivo di “tornare alla normalità”, come da molti temuto e da altri atteso, un’altra crisi sarà andata sprecata, un’altra volta non riusciremo ad apprendere dai nostri errori e ancora una volta le nostre risposte rischieranno di approfondire le ragioni che l’hanno causata. Tutti vorremmo toglierci le mascherine e chi più ha subito gli effetti della pandemia vorrebbe recuperare quanto perduto. Tuttavia il punto non può essere solo e semplicemente questo.

 

Semplificazioni e cultura dell’emergenza

Punto fondamentale è invece uscire dall’idea dell’emergenza e dell’eccezionalità. La crisi del Covid era prevista da studiosi che hanno messo in luce le connessioni fra la crescente diffusione di virus di origine animale e la distruzione di ecosistemi e della biodiversità in favore di ambienti monospecie come le aree urbanizzate e industriali o dedicate allo sfruttamento intensivo da allevamento e coltivazione; nonché attraverso l’inquinamento e l’impoverimento delle risorse naturali e gli effetti sul clima della produzione di emissioni. Così come ampiamente prevedibili sono le sue conseguenze socio-economiche in contesti di profonde diseguaglianze. Purtroppo, siamo abituati a trattare tutto questo come un accettabile e spesso taciuto prezzo da pagare a fronte dei vantaggi dello sviluppo e della c.d. modernizzazione, piuttosto che come un effetto eccezionale di qualche causa “esterna” (a cosa?) a cui porre rimedio con interventi d’emergenza. Ne sono un curioso esempio le cosiddette “emergenze caldo e freddo” delle amministrazioni locali, volte a proteggere con interventi minimali le persone senza-dimora nelle stagioni meno clementi. Curioso, perché le variazioni di temperatura sono, come noto a chiunque, parte di naturali cicli stagionali evenutalmente soggetti a eventi estremi per ragioni di natura climatica sempre più spesso dovuti all’impatto dall’attività umana, il cui manifestarsi è una probabilità crescente per quanto non sempre precisamente prevedibile.

Questo modo di trattare gli eventi si basa, come direbbe Gregory Bateson, su una preferenza per letture semplificate dei fenomeni sociali, economici o ambientali a discapito della loro complessità. Le letture semplificate producono una comprensione molto limitata dei sistemi, visioni distorte delle crisi e degli eventi, e l’abitudine a farvi fronte attraverso trucchi, “magari eccellenti”. I medesimi risultano a volte efficaci nel breve termine e in situazioni specifiche, ma si rivelano spesso dannosi o distruttivi nel medio e lungo periodo, soprattutto per alcuni soggetti, gruppi, popolazioni e ecosistemi, come nel caso di batteri e parassiti resi immuni dagli stessi antibiotici che dovevano servire per combatterli.

Tali distorsioni si appuntano anche alla crisi attuale. Come scrive il collettivo per l’economia fondamentale, crisi da prima pagina come quella del Covid riescono a oscurare quelle meno visibili, per quanto anch’esse incombenti. Per esempio, l’emergenza ambientale e climatica, che pur scientificamente incontrovertibile è poco percepibile su una scala temporale e spaziale ridotta ed è legata a un ampio complesso di cause di non semplice compresione; “sicché diventa tollerabile fissare improbabili scadenze al 2050”. Di qui, la crisi sanitaria, passando come un’emergenza assoluta, eccezionale e a sé stante, rischia di mettere in secondo piano o condannare al silenzio quella ecologica, le connessioni tra le due, e i movimenti, scienziati e attori che denunciano la connessione tra i due fenomeni. Di qui, ancora una volta, il pubblico è spinto ad attendere con trepidazione la rapida soluzione del problema, sia essa basata su un trucco, un gioco di prestigio o una pillola magica.

 

Ripartire dalla saggezza sistemica

Fin dai primi anni di scuola apprendiamo attraverso una formula tanto semplice quanto efficace che “in natura nulla si crea, nulla si distrugge e tutto si trasforma”. La saggezza di queste parole, che richiama la prima legge della termodinamica, è presto però rimossa e sostituita da messaggi che spostano l’attenzione verso i vantaggi a breve termine e la passione per i trucchi e le semplificazioni che permettono di ottenerli. La rappresentazione della complessità sistemica è tenacemente sostituita da narrazioni di rapporti lineari causa-effetto che, osservava Bateson (1987), esistono solo nelle menti di chi ne accampa utilità e necessità, nel loro impaziente entusiasmo per l’azione, piuttosto che nel loro panico e confusione epistemologici. Egli infatti sosteneva che gli “scienziati” – non tutti, occorre dire, e non solo loro – “rifiutano di accettare l’interrelazione ecologica e l’olismo, nonostante il fatto che la biosfera sia evidentemente un sistema interconnesso e auto-organizzato”. Similmente, Kenneth Boulding, che fu economista, educatore, pacifista e filosofo interdisciplinare, criticava le premesse semplificanti degli studiosi attraverso una metafora della vita e della condizione umana sul pianeta: una specie che vive, grazie alla crescita della popolazione, lo sviluppo industriale e urbano, i sistemi di comunicazione e trasporto, su una sorta di astronave (space ship): la terra, “divenuta una sfera minuscola, chiusa, limitata, affollata, che sfreccia nello spazio verso destinazioni sconosciute” (1965). L’ipotesi che la terra sia una infinita fonte di input e un pozzo nero per gli output doveva essere superata mentre l’essere umano, in quanto sistema biologico che vive in un sistema ecologico, doveva poter riconoscere che il suo potere di sopravvivenza è sempre più dipendente dal saper “sviluppare relazioni simbiotiche […] con tutti gli altri elementi e popolazioni dei sistemi ecologici”. Ma, osservava, la scarsa comprensione di questa dinamica rende il comportamento, le istituzioni umane e la stessa scienza largamente inappropriate.

Molti decenni dopo il lavoro di questi autori la consapevolezza di questa dipendenza ancora latita, e l’economia, la società, l’ambiente e la salute continuano a essere trattati come oggetti separati, e comprensibili agli occhi di discipline molto specializzate e tra loro scarsamente comunicanti. Mentre visioni diverse comunque crescono, sostenute da movimenti, studiosi, esperienze pratiche di attività produttive e stili di vita, il tenace prevalere di premesse semplificanti è l’indicatore di una persistente carenza di saggezza sistemica (Bateson 1972) e della nostra limitata capacità di apprendere dagli errori.

A tal proposito sarà particolarmente istruttivo osservare da quali premesse muoveranno le strategie messe in campo nei prossimi mesi per uscire dalla crisi, a partire da piani nazionali e internazionali che dovrebbero affrontare il cosiddetto post-Covid. Questi in parte includono la necessità di una ripresa “green” o mirata a rendere più sostenibili i nostri sistemi energetici, produttivi, di mobilità, ecc., e molte idee in proposito stanno circolando. Ma a livello politico le compatibilità economiche sembrano ancora il driver fondamentale di quanto per ora delineato, che vede nella cosiddetta e per molti discutibile idea di “crescita verde” o “green growth” una eventuale opportunità per rilanciare gli investimenti e avviare la ripresa. Soprattutto, non sembra sia in corso una revisione dei meccanismi che hanno portato all’attuale crisi, quanto una loro riproposizione più o meno aggiornata e ripulita da tentativi non necessariamente coordinati di innovazione tecnologica, maggiore utilizzo di energie rinnovabili e incentivi a stili di vita più salubri e forme di mobilità e produzione più efficaci, efficienti e sostenibili.

Un altro problema è che non siamo affatto in una fase o condizione post-Covid, come l’andamento della pandemia tra settembre e ottobre (2020) dimostra. Parlare di “post”, inoltre, rafforza l’illusione dell’evento eccezionale da cui è possibile voltare pagina, e impedisce di vedere il virus come parte del più ampio processo di co-evoluzione, tale per cui, semplificando, le nostre reazioni al virus ne provocheranno altre, a cui dovremo in seguito far fronte sollecitandone di ulteriori, e così via; il tutto senza soluzione di continuità e per via di processi complessi, non lineari, probabili ma difficilmente prevedibili. In natura, appunto, nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma.

Se dunque gli sforzi anche benintenzionati attiveranno soprattutto risposte parziali e affrettate, queste porteranno probabilmente alcuni vantaggi, altrettanti danni e rischi di ulteriori circoli viziosi verso quelli che Bateson definiva “vicoli ciechi evolutivi”. In uno dei suoi ultimi scritti avvertiva che “dietro tutti i progressi scientifici vi è sempre una matrice, un filone principale di incognite al quale sono state strappate le nuove risposte parziali. Ma […] il mondo affamato, sovrappopolato, malato, ambizioso e competitivo non vuole aspettare che se ne sappia di più: deve precipitarsi là dove gli angeli esitano a mettere piede”. Persistere in questa direzione con ricette (ultra)semplificate conferma la pericolosa ignoranza di cui parlava Boulding e la supponenza con cui siamo sempre tentati di trattare la nostra stessa ecologia. Come diceva ancora Bateson, “i sistemi puniscono ogni specie che sia tanto stolta da non andare d’accordo con la propria ecologia”.

Di qui, recuperare un po’ di saggezza sistemica potrebbe essere il compito che dà il via alla costruzione dei piani per superare la crisi. Riconoscere inoltre che alcuni sono più esposti ai rischi, subiscono conseguenze più gravi e rischiano “punizioni” immediate, e perciò meritano risposte tempestive ed efficaci, è l’altra parte del compito. Tentare infine di rendere le medesime risposte non troppo parziali e quindi abbastanza stravolgenti rispetto alla passata “normalità”, potrebbe essere la terza.

 

Pianificare la transizione tra complessità e pragmatismo

I piani ad oggi proposti a vari livelli presentano in effetti obiettivi molto ambiziosi. Tuttavia occorre per lo meno valutare se tali ambizioni riflettono una visione finalmente complessa e trasversale e sono accompagnate da idee sufficientemente chiare su metodi e strumenti, processi e contesti di applicazione.

In primo luogo ci sono i problemi che riguardano come e da dove cominciare: quali, per esempio, potrebbero essere i primi tre passi da fare nella direzione indicata? Cosa e come di diverso dovremmo fare rispetto ad abitudini e comportamenti comuni? Qali modalità e strumenti iniziare a sperimentare?

È probabilmente più difficile rispondere a tali quesiti che fissare le sopra citate improbabili quanto necessarie scadenze (zero emissioni nel 2040 o 2050). E di fatto piani e disegni normativi spesso non si occupano di problemi così apparentemente banali e purtuttavia decisivi. I piani naturalmente servono, ma dobbiamo considerare i limiti della pianificazione o per lo meno chiarirne il significato. Un noto detto indiano recita “Vuoi far ridere Baghawan (Dio)? Bene: raccontagli i tuoi piani”. Il detto può essere interpretato in molti modi; uno particolarmente interessante prende spunto dalla scienza della complessità che sottolinea come i processi e i cambiamenti non sono, come detto, lineari e prevedibili e un buon piano è soprattutto un metodo per interagire e comunicare intorno alle ipotesi, alle sperimentazioni in corso, ai risultati via via emergenti, siano essi convergenti o divergenti in relazione alle aspettative iniziali. Di qui un piano potrebbe delineare non tanto una serie di azioni rigidamente programmate basate su ipotesi e ricette semplificative, quanto su modelli di pensiero e azione flessibili, sperimentali, trasformative e progettate in relazione alla loro capacità di adattamento nel tempo. Come dice Karl Weick, grande studioso di organizzazioni, i piani sono soprattutto “un pretesto per interagire”, una possibilità di migliorare la nostra conoscenza e capacità di azione attraverso la sperimentazione, l’interazione e la collaborazione tra soggetti diversi e con l’ambiente. Raramente ciò che viene scritto nei piani viene realizzato, ma i risultati che possono produrre dipendono da ciò che i piani stessi hanno messo in moto e permesso di apprendere.

Di qui dovremmo valutare i piani che verranno implementati, non tanto per i grandi obiettivi o le misure eccezionali che non modificano di fatto l’ordinario, ma soprattutto per le idee pragmatiche, i metodi, gli strumenti e le risorse, anche eccezionali, che possono favorire l’attivazione degli attori, governi, imprese, associazioni e cittadini non organizzati, nella trasformazione dei funzionamenti consueti e quotidiani. Proposte molto ambiziose che prefigurano (facili) risultati positivi in tutti i settori, grazie a “transizioni green” in grado di favorire contestualmente più sostenibilità, crescita, lavoro e giustizia sociale, vanno osservati con un certo senso critico. La nostra società è come un malato affetto da una grave patologia, una dipendenza da produzione, consumo e dissipazione di combustibili fossili e prodotti, beni e servizi di ogni genere che si autoalimenta in comportamenti compulsivi: apparentemente alimentandone i meccanismi di sopravvivenza, di fatto distruggendone le condizioni necessarie. Una dipendenza da cui non è semplice uscire senza qualche cambiamento nel profondo, rischioso, che spaventa, suscita opposizione e rimozione e può portare sofferenza.

In effetti un piano molto ambizioso potrebbe essere quello che mira soprattutto, come detto, a cambiare l’ordinario e a favorire la dismissione di comportamenti, abitudini, modelli di funzionamento, meccanismi, procedure, organizzazioni, istituzioni e politiche anti-ecologiche che caratterizzano la nostra normalità. Difficilmente però a tale scopo possiamo confidare su scorciatoie e risultati positivi per tutti e in tutti i campi, senza gravi conflitti e rischiose conseguenze. I piani, per essere tali, come suggerito nei principi della Responsible Research and Innovation, dovrebbero contenere una capacità di anticipazione dei medesimi, prefigurando scenari differenti e strumenti per affrontarli nel tempo, ancora secondo una logica di apprendimento, adattamento e co-evoluzione.

In secondo luogo, dovremmo dubitare del valore di accordi meramente formali e risorse distribuite senza una specifica attenzione a tali aspetti. L’Italia è per esempio un paese che spesso spende male le proprie non poche risorse, anche quando muovono da idee di grande interesse: sono molti gli esempi di politiche – per esempio sociali e del lavoro – che seguono principi avanzati e innovativi ma che, disegnate in modo inadeguato, risultano poco equilibrate, eccessivamente rigide e categoriali e implementate senza una visione sistemica e senza promuovere/sostenere le necessarie capacità di apprendimento e adattamento nel tempo. Tali modalità favoriscono, insieme alle prevalenti culture e meccanismi legalistico-burocratici delle nostre istituzioni, spreco di risorse e limiti nella efficacia e continuità delle azioni programmate.

In terzo luogo, se è vero che in paesi come il nostro l’azione politica appare troppe volte inefficace nel perseguire cambiamenti importanti, si possono altresì osservare molteplici esperienze promosse dal basso, in modo spontaneo o organizzato, a livello per lo più locale e da attori diversi, informali, associativi, istituzionali e imprenditoriali, che uniscono creatività e sapere pratico in innovazioni di grande interesse nei processi produttivi, nelle misure di welfare e nella tutela dell’ambiente. Sarebbe fondamentale che i piani prestino particolare attenzione ad esse e alla possibilità di apprendere idee, riflessioni, teorie, prassi, difficoltà e risultati che ne hanno accompagnato gli sviluppi. Allo stesso tempo, potrebbe rivelarsi particolarmente importante per i movimenti, i gruppi, i cittadini e altri attori seguire da vicino, discutere e prendere parte e nei propri territori gli sviluppi concreti delle azioni implementate dall’alto da parte dalle istituzioni, dai processi di tutela dell’ambiente, decarbonizzazione, transizione produttiva e energetica, ai progetti di rigenerazione urbana e agli interventi di adattamento, mitigazione e innovazione tecnologica: le problematiche eco-sociali sono, come detto, differenti ma integrate, richiedono di essere affrontate in modo sistematico ma anche contestualizzato, riconoscendo e valorizzando le peculiarità dei contesti e le conoscenze e competenze locali come parte di un’azione globale. La sfida del cambiamento climatico non è di fatto solo globale o solo locale, macro o micro, non risiede solo nelle pratiche, solo nelle teorie o solo nei disegni politici e istituzionali ma in tutte queste cose insieme. Risposte di grande o piccola portata ma parziali aiuteranno poco in tal senso; azioni che guardano alle interdipendenze sistemiche, siano esse grandi o piccole, più facilmente favoriranno trasformazioni importanti. Nessuno è alla fin fine troppo piccolo o troppo grande per contribuirvi.

 

Dal Green Deal al Recovery Fund tra compatibilità e cambiamenti strutturali

Le idee di nuovo patto sociale espresse per esempio con il manifesto per un Green New Deal negli USA, piuttosto che nella strategia Europea del Green Deal, hanno il merito di delineare prospettive almeno in parte trasversali, offrire riferimenti concettuali, stimolare un dibattito e indicare priorità (oltre che risorse, nel caso Europeo) che la mobilitazione per il clima degli ultimi anni ha certo contribuito a creare. Alle potenzialità si affiancano anche importanti limiti. Nel caso del Green Deal Europeo questi riguardano la mancanza di attenzione al ruolo delle politiche sociali e dei sistemi di welfare, la persistente idea che la transizione deve essere comunque funzionale alla crescita economica e il rischio di non riuscire a prefigurare e favorire adeguatamente la scala del cambiamento necessario .

Nel contesto della sopra menzionata diseguaglianza sociale collegata ad altrettanto rilevanti diseguaglianze ambientali, gli obiettivi della c.d. neutralità climatica non possono essere raggiunti con un’azione che si vorrebbe in qualche modo neutra da un punto di vista sociale ed economico. In primo luogo, perché azioni generalizzate e omogenee in tale contesto facilmente hanno effetti distorsivi e possono favorire un ulteriore incremento delle stesse diseguaglianze che si vorrebbe combattere: come nei casi di applicazione generica delle tasse sui carburanti; come il caso dei Gilet Jaunes in Francia ha mostrato; come la crisi del Coronavirus e delle politiche di protezione quali il lockdown ha messo ulteriormente in luce; e come oltre mezzo secolo di letteratura su welfare, povertà e questione sociale ha ampiamente dimostrato. In secondo luogo perché nel nostro mondo ci sono grandi e piccoli inquinatori, le cui azioni e interessi sono spesso veicolati e legittimati e ostacolati nei tentativi di cambiamento da meccanismi anch’essi strutturali (regolativi, organizzativi, fiscali, economici e competitivi). Se dunque, come dichiarato dalla Presidente della Commissione UE Von der Leyen, il 37% dei 750 miliardi di euro del fondo dovrebbe venire speso per obiettivi ambientali, e il 30% dello stesso fondo raccolto attraverso obbligazioni “verdi”, i cui proventi potrebbero avere un impatto positivo sull’ambiente, occorrerà valutare la capacità del fondo, non tanto di sostenere e incentivare interventi genericamente “ambientali”, ma di: (1) modificare a fondo il rapporto con l’ambiente come strutturalmente sviluppato nei decenni passati; (2) perseguire passo-passo negli ambiti delineati (energie rinnovabili, efficienza energetica, controllo dell’inquinamento, mobilità sostenibile, protezione della biodiversità, transizione verso sistemi alimentari sostenibili e l’economia circolare) i radicali obiettivi di riduzione delle emissioni dichiarati, monitorandone la dinamica a brevi intervalli temporali; (3) implementare una strategia di impiego delle risorse, per esempio: seguendo un approccio sistemico e metodi di lavoro effettivamenteente trasformativi; disperdendole in interventi ad hoc e settoriali e riproducenti i consueti meccanismi antiecologici senza turbarli eccessivamente; seguendo qualche punto di mediazione tra questi due opposti. Purtroppo la discussione al Parlamento Europeo sulla riforma della Politica Agricola Comune mette in luce che su nessuno di questi tre punti le scelte dell’UE appaiono coerenti e lo stesso Green Deal rischia di trasformarsi in un’operazione di mero greenwashing, accompagnata da alcune azioni interessanti e tuttavia incapaci di incidere sugli equilibri distruttivi nei modi e tempi necessari.

 

Un’altra goccia dalla bottiglia

Tra i concetti essenziali di ogni comprensione ecologica vi sono quelli di interdipendenza, circolarità, ricorsività. Essi sono fondamentali per studiare forme, caratteristiche e processi di auto-organizzazione degli ecosistemi e di connessione tra essi, tra le specie e il loro ambiente, la civiltà umana e le altre forme del vivente, ecc. ecc. “La comprensione ecologica deve essere ecologica”, diceva Bateson, e gli stessi modi di osservare e comprendere dovrebbero essere organizzati coerentemente.

Questa idea è spesso ignorata nel mondo scientifico e percepita nel mondo nella politica e dell’economia come un vincolo fastidioso che ostacola il raggiungimento di rapidi risultati, la competizione, la libertà di scelta, di azione, di impresa, ecc.. L’idea che si tratti di vincoli fastidiosi ha solide basi in molte scuole di pensiero e idee politiche che da Adam Smith in poi hanno tentato di affermare con notevole successo una visione diametralmente differente, in cui l’individualismo solipsistico è la condizione naturale dell’uomo. Tali basi sono state confutate da altrettanto solide scuole di pensiero, approcci scientifici e idee politiche, da autori come Karl Polanyi e molti altri, oltre che dall’esperienza quotidiana che, insieme, rivelano come la libertà in una società complessa, e lo stesso individuo, non emergono dall’assenza di legami, ma dal loro essere parte integrante della stessa coscienza dell’essere umano, della sua identità e dei modi di organizzare la sopravvivenza nel rapporto tra i propri simili e con il proprio ambiente.

Oggi è la natura stessa che mostra attraverso continui e sempre più duri feedback la fallacia della visione individualista e antropocentrica e l’incontrovertibilità del nostro essere soggetti appartenenti o, meglio, soggetti in quanto appartenenti, alla società, alla storia e ai processi coevolutivi del rapporto tra noi e l’ambiente. Tale condizione di interdipendenza la possiamo poi affrontare in molti modi: attraverso la cooperazione e la soluzione collaborativa dei problemi e dei conflitti. Attraverso una lotta che mira a tutelare vantaggi per sé e per alcuni. Attraverso l’indifferenza che volge lo sguardo altrove quando si rende conto che ogni cosa che gettiamo nel mare torna sempre e inevitabilmente a riva. Quest’ultima opzione è in fondo la più semplice, viene spesso agita in assenza di specifiche intenzioni, per abitudine, comodità, condiscendenza verso tradizioni e modelli antiecologici e per via di comportamenti autointeressati più o meno riflettuti. Ma in un mondo interdipendente le azioni producono sempre retroazioni e conseguenze. Dovremmo quindi smettere di perseguire “l’errata convinzione che un’altra goccia dalla bottiglia non ti ucciderà” (Bateson) e che quindi si può sempre aggirare e rinviare il problema, che ci può sempre essere una soluzione ex-post, che ci sono sempre limiti di tolleranza e accettabilità, e che alla fine qualcosa o qualcuno interverrà per porre rimedio. Purtroppo l’oceano contiene milioni di tonnellate di plastica accumulata da piccole o grandi gocce dalla bottiglia che grandi industrie come singoli cittadini e piccoli e medi attori di tutti i tipi hanno via via rilasciato nella convinzione che “nessuna di esse è abbastanza grande per ucciderci”. Salvo contribuire nell’arco di pochi decenni a rendere quasi inapplicabile qualsiasi rimedio. Un’altra goccia dalla bottiglia forse non ucciderà nessuno, non subito, non qui e non in modo chiaramente percepibile. Forse accadrà alla prossima generazione, in un altro luogo del pianeta, a qualcuno che non ha una buona barca, a un ecosistema lontano da casa.

Tuttavia è solo questione di tempo, poiché tutto ciò che facciamo riguarda comunque noi, gli altri e l’ambiente. Per questo soluzioni parziali e affrettate, prevalentemente preoccupate di non turbare i macro-equilibri e le coscienze individuali appaiono soprattutto un esito di questa visione distorta e obsoleta, data dalla convinzione, speranza o illusione che queste piccole gocce siano alla fin fine, almeno per noi, innocue.


Matteo Villa
è Professore associato di Sociologia economica presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Pisa. Le sue principali ricerche riguardano la sostenibilità ecologica dei sistemi di welfare, le politiche economico-sociali di accompagnamento della transizione ecologica, le forme e i metodi della partecipazione civica. E-mail: matteo.villa@unipi.it

 

Questo articolo rielabora l’intervento al Global Strike for Our Future promosso da Fridays For Future ed Earth Strike, Lucca, il 9 ottobre 2020.