giovedì, Aprile 18, 2024
Conflitti

Conflitto in Ucraina: quale resistenza?

di Giorgio Gallo

Mentre scrivo siamo a oltre due settimane della guerra lanciata dal governo russo contro l’Ucraina, una guerra di aggressione, che viola l’articolo 2 della Carta delle Nazioni Unite, e che è pertanto criminale, al là dei diversi e gravissimi crimini di cui le forze russe si stanno macchiando usando come obiettivi i civili. Una guerra che la comunità internazionale dovrebbe fare il possibile per fermare, e per fermare presto! È una guerra a noi molto vicina, una guerra che suscita forti emozioni e sentimenti molto diversi, e per questo appare sempre di più una guerra di cui è difficile parlare.

Sono tante le guerre in corso. Ad esempio, quella nello Yemen1, che anche l’Italia ha contribuito ad alimentare con l’esportazione di armi, esportazione interrotta solo all’inizio dello scorso anno. Quella è però una guerra lontana, come sono lontane quella in Siria, quella nei diversi Kurdsistan, e le tante altre attualmente in corso. Tutte guerre che non sono mai entrate nelle nostre case in modo così duro e coinvolgente come quella in corso in Ucraina. Le forti e drammatiche scene che vediamo quotidianamente ci coinvolgono, per diversi motivi, e suscitano forti emozioni che rendono difficile quel minimo di distacco necessario per analizzare e capire ciò che accade, ma soprattutto che ci porta a drastiche dicotomie: o si è amici degli ucraini o si è amici di Putin!

A questo proposito, mi hanno molto colpito le parole di una bravissima giornalista che in questo momento dalla prima linea, immagino anche rischiando non poco, ci tiene quotidianamente aggiornati su ciò che sta accadendo, Francesca Mannocchi: “Attenti ai più vulnerabili, con lo sguardo pieno di dubbi2. L’attenzione ai più vulnerabili, agli ultimi, dovrebbe essere iscritta nel DNA della nostra cultura, radicata in una tradizione ebraico cristiana che ha al suo centro lo Shalom, la pace intesa come “pienezza di vita per tutti”3, e che porta Emmanuel Lévinas, filosofo ebreo, a dire: “Il Messia è il giusto che soffre, che ha preso su di sé la sofferenza degli altri […]. E, concretamente, questo significa che ognuno deve agire come se fosse il Messia.”4 Da qui, in una drammatica situazione come quella a cui stiamo assistendo, la necessità di una grande empatia, capacità, e soprattutto volontà, di mettersi dalla parte delle vittime, di identificarsi con loro. Ma, sempre “con lo sguardo pieno di dubbi”, cioè senza mai perdere la capacità di analisi e di spirito critico, di attenzione alla complessità della realtà in cui operiamo, e anche di disponibilità a mettersi in discussione. È essenziale in particolare cercare di capire attraverso quali processi si è arrivati all’attuale situazione di guerra, e soprattutto lungo quali percorsi, magari impervi e lunghi, si possa arrivare alla pace, possibilmente a una pace più vera e duratura della precedente.

Uno sforzo di analisi e comprensione, alla luce della teoria delle relazioni internazionali, lo fa, su Foreign Policy, Stephen Walt5, uno dei più autorevoli esponenti americani della scuola realista di politica internazionale. Fra gli altri, Walt richiama il classico concetto realista del cosiddetto “dilemma della sicurezza”, secondo cui le azioni che una parte mette in atto per rendersi più sicura spesso creano insicurezza negli altri. Parliamo qui di insicurezza percepita, non necessariamente reale. E questo rischia alla fine di creare una sorta di escalation che può portare alla guerra6. È lo stesso meccanismo di azione-reazione che viene riportato in dettaglio in un interessante articolo pubblicato da Foreign Affairs7, un’altra prestigiosa rivista americana di politica internazionale. È interessante il fatto che importanti esponenti della scuola realista di politica internazionale colgano bene i meccanismi che hanno portato al conflitto, senza ricorrere, come purtroppo si è fatto, ad analisi a distanza della psicologia e delle psicopatie di Putin, additando “il cattivo” di turno a cui unicamente si deve la crisi attuale. Non possiamo ignorare il fatto che il crollo dell’Unione Sovietica avrebbe dovuto portare, nella speranza di molti, a una scomparsa delle alleanze militari e a una progressiva riduzione delle spese militari. Ricordiamo come si parlasse di “dividendi della pace”. In realtà solo il patto di Varsavia scomparve. La Nato invece, da un lato, cercò nuovi spazi di azione, ad esempio in Afghanistan e in Iraq, e, dall’altro, si espanse verso est accogliendo diversi paesi ex sovietici. Corrispondentemente, le spese militari, dopo una fase di decrescita hanno ripreso a crescere stabilmente, a partire dal 2014, superando oggi i livelli massimi della guerra fredda.

Che Putin sia direttamente responsabile dell’invasione è fuori discussione, e le sue azioni meritano tutta la condanna possibile. [… E certamente] il desiderio di punire e persino umiliare Putin è comprensibile […]. Ma mettere all’angolo il leader autocratico di uno stato dotato di armi nucleari sarebbe estremamente pericoloso, non importa quanto atroci possano essere state le sue azioni precedenti. Solo per questa ragione, coloro che in Occidente chiedono l’assassinio di Putin, o che hanno detto pubblicamente che i russi comuni dovrebbero essere ritenuti responsabili se non si ribellano e non rovesciano Putin, sono pericolosamente irresponsabili”8. È certamente comprensibile che si possa auspicare un cambiamento interno al potere russo, con il rovesciamento di Putin, ma l’apparentemente efficace, e per molti inaspettata, resistenza ucraina sta portando qualcuno a sperare in uno scenario diverso e alquanto preoccupante. “Ricordate, i russi hanno invaso l’Afghanistan nel 1980”, ha detto l’ex Segretaria di Stato americana Hillary Clinton. “Non è finita bene per i russi… Il fatto è che un’insurrezione molto motivata, e poi finanziata e armata, ha praticamente cacciato i russi dall’Afghanistan”. Mandare armi significa anche questo: puntare su una lunga guerra di logoramento che indebolisca progressivamente la Russia, nella speranza anche di un possibile cambio di regime. Ci si dimentica forse che questo nuovo “Afghanistan” si trova proprio al centro dell’Europa? Mentre scrivo, leggo in rete la notizia che un attacco missilistico russo su una base di addestramento militare nel nord-ovest dell’Ucraina, a solo una dozzina di miglia di distanza sul confine polacco, ha ucciso almeno 35 persone. Non possiamo non chiederci cosa sarebbe successo se uno dei missili, per errore, fosse caduto al di là del confine. Apprendiamo anche che fra le vittime ci sono volontari stranieri, anche europei, venuti per unirsi alla resistenza, e che, in quella base, poco prima dell’invasione russa, militari Nato avevano addestrato truppe ucraine.

Che fare allora? È necessario mandare armi, ma soprattutto ha senso farlo? Le armi aiutano a costruire la pace, oppure la allontanano? Su questo si discute molto. Sembra che ci sia una contrapposizione un po’ banalizzante fra i realisti che propugnano il sostegno radicale, anche con l’invio di armi, al popolo ucraino, gli unici apparentemente capaci di proposte concrete ed efficaci, e i pacifisti del “no alla guerra, senza se e senza ma”, anime belle capaci solo di dire “no”, e che vengono spesso anche additati come “amici di Putin”. Premetto che l’espressione “senza se e senza ma” la trovo vuota e priva di senso. In tutto ciò che pensiamo e che facciamo nella nostra vita dobbiamo sforzarci a guardare le cose con atteggiamento critico, sempre pronti a farci mettere in discussione e a rivedere le nostre opinione e scelte. Certamente, c’è l’etica dei principi e l’etica della responsabilità, come ci ha ricordato in un recente articolo Vito Mancuso, spiegandoci che di fronte a una scelta fra “vita” e “libertà”, l’etica della responsabilità può spingerci a sacrificare la prima e scegliere la seconda. Il fatto è che in una situazione come quella dell’aggressione dell’esercito russo all’Ucraina, chi fa questa scelta non sacrifica solamente la “sua” vita, sacrifica anche tante altre vite, di giovani e vecchi, e soprattutto bambini, a cui non si dà la possibilità di scegliere. Li si costringe a subire una violenza crescente, a morire oppure a fuggire. Quello che viene distrutto è anche il tessuto di una intera società. Quanto ci vorrà per ricostruire l’Ucraina e che tipo di Ucraina verrà fuori? Purtroppo, spesso (non sempre, fortunatamente) nelle lotte armate si rafforzano le forze estremiste, violente e non democratiche, ed emergono società ferite e radicalizzate. Pensiamo a quello che è successo in Afghanistan. Gli occupanti, russi prima e statunitensi poi sono scappati, ma che società è rimasta? Quanto la scelta di mandare armi in Ucraina è davvero ispirata all’etica della responsabilità? Certo, la responsabilità di tutto questo è del governo russo. Ne siamo convinti e speriamo che si riuscirà a portare i suoi membri e Putin soprattutto davanti a un tribunale internazionale. Ma basterà?

Qualcuno a questo punto potrebbe chiedere: “E allora? L’unica possibilità è quella della resa?”. Ma qui c’è una responsabilità che abbiamo anche noi pacifisti. Non siamo riusciti a fare capire che per costruire la pace bisogna lottare, e che si tratta di una lotta dura, difficile e nella quale si rischia tutto, anche la vita. Una lotta dura, ma nonviolenta, in cui, secondo le indicazioni gandhiane mezzi e fini devono essere congruenti: non possiamo usare mezzi che siano in contrasto con i fini che ci riproponiamo. Una lotta, quella nonviolenta, che è spesso più efficace di quella violenta. Proprio su questo tema sulla rivista International Security è stato pubblicato nel 2008 un interessante articolo9 in cui viene analizzata l’efficacia strategica delle campagne violente e nonviolente nei conflitti tra attori non statali e statali, utilizzando dati aggregati sulle principali campagne di resistenza dal 1900 al 2006. Da questa analisi emerge che le campagne di resistenza nonviolenta hanno avuto successo circa il doppio delle volte di quelle violente. Questo studio ha dato poi origine a un lavoro di più ampio respiro i cui risultati sono stati pubblicati alcuni anni dopo.10 È importante qui osservare, come ben chiariscono le autrici dello studio, che la resistenza nonviolenta va distinta dal rifiuto della violenza di principio, basata su convinzioni etiche e/o religiose, quella potremmo dire del “senza se e senza ma”. È una forma di lotta attiva e anche dura, che cerca di ottenere “i suoi obiettivi contro la volontà dell’avversario, prendendo il controllo del conflitto attraverso una diffusa non cooperazione e sfida”. L’esperienza mostra come la resistenza nonviolenta abbia diversi vantaggi strategici rispetto a quella violenta. “In primo luogo, la repressione delle campagne nonviolente può spesso ritorcersi contro chi la attua …, rafforzando la solidarietà interna della stessa campagna di resistenza, creando dissenso e contrasti tra i sostenitori dell’avversario, e aumentando il sostegno esterno alla campagna e diminuendo quello nei riguardi dell’avversario. […]. Inoltre, le campagne di resistenza nonviolenta possono più facilmente portare al negoziato e alla contrattazione perché non minacciano la vita o il benessere dei membri del regime avversario”11.

Chiaramente ogni situazione di conflitto e di aggressione è diversa, per il contesto storico e politico in cui nasce, per le sue origini, per le caratteristiche della società che viene aggredita e per quelle della potenza che aggredisce. Quindi le forme assunte dalla eventuale resistenza nonviolenta potranno essere anche molto diverse e varie. Può essere a questo proposito interessante ricordare qui un caso di lotta nonviolenta che lo studio citato non riporta e che è a noi molto vicino. Si tratta della resistenza disarmata del popolo danese all’occupazione nazista fra 1940 e il 1945. Troppo inferiore in armamenti, la Danimarca non resistette con le armi all’occupazione, ma non per questo la accettò. Subito, nel 1940, girò fra la popolazione un volantino in cui si indicava cosa i danesi dovessero fare: rifiuto di lavorare per i tedeschi, sforzo minimo nell’assisterli, distruzione dei macchinari e degli strumenti tedeschi, boicottaggio delle merci tedesche e protezione di chiunque fosse oppresso e minacciato dall’occupante. Si trattò all’inizio di una iniziativa personale, ma divenne ben presto, con la diffusione in tutto il paese, un vero e proprio programma di azione per la resistenza. Una resistenza che prese diverse forme, fra cui manifestazioni, scioperi, sabotaggi, e, particolarmente importante e significativo, la protezione degli ebrei, la maggior parte dei quali fu portata in salvo fuori dal paese. Un piccolissimo contributo alla sconfitta di Hitler a livello mondiale, ma non tanto piccolo per gli ebrei salvati. E la società danese ne uscì più forte, coesa e con un maggiore senso della collettività. Avrebbe potuto la resistenza ucraina all’aggressione russa svilupparsi lungo una linea di azione di questo tipo? Difficile dirlo a questo punto. Certo, all’inizio qualche tentativo è stato fatto. Ne parla in un articolo12 Alexandre Christoyannopoulos, studioso di Politica e Relazioni internazionali, riportando alcuni iniziali tentativi di resistenza nonviolenta all’invasione russa, con il link a un drammatico video che mostra una colonna militare russa fermata da civili ucraini, uomini e donne, in modo pacifico, senza armi.

Chiudo ricordando un bel libro sulla Prima guerra mondiale, “I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande guerra” di Christofer Clark13. Gli attori che portarono l’Europa alla guerra vengono descritti come dei sonnambuli che camminano senza vedere, o almeno vedendo in modo molto miope. Alla fine, senza che nessuno lo avesse realmente voluto, l’Europa si trovò nell’incubo della più sanguinosa e inutile tragedia mai sperimentata, fino ad allora, nella sua storia. Non vorremmo che una cosa del genere si ripetesse.

 

Note

1 Secondo i dati del Global Conflict Tracker, dal 2015 si contano in Yemen oltre 100.000 morti, 4 milioni di rifugiati interni e 20 milioni di persone che hanno necessità di assistenza umanitaria, su una popolazione di circa 30 milioni.

2 Intervista a Propaganda Live, 11 marzo, 2022 (citazione a memoria).

3 È qualcosa che negli studi sulla pace viene chiamato “pace positiva” per distinguerla da una pace come assenza o semplice fine della guerra, una pace questa che può nascondere le più gravi forme di ingiustizia e di violenza.

4 E. Lévinas, “Difficile libertà”, Jaca Book, 2017.

5 Stephen M. Walt, “An International Relations Theory Guide to the War in Ukraine”, Foreign Policy, March 8, 2022.

6 È questo il classico modello di “azione-reazione” sviluppato da Richardson fra le due guerre mondiali, uno dei primi nell’ambito dei Peace Studies.

7 Emma Ashford and Joshua Shifrinson, “How the War in Ukraine Could Get Much Worse. Russia and the West Risk Falling Into a Deadly Spiral”, Foreign Affairs, March 8, 2022.

8 Stephen M. Walt, articolo citato.

9 Maria J. Stephan and Erica Chenoweth, “Why Civil Resistance Works. The Strategic Logic of Nonviolent Conflict”, International Security, Vol. 33, No. 1, 2008.

10 Maria J. Stephan and Erica Chenoweth, articolo citato.

11 Maria J. Stephan and Erica Chenoweth, articolo citato.

12 Alexandre Christoyannopoulos, “Ukraine: nonviolent resistance is a brave and often effective response to aggression”, The Conversation, March 4, 2022.

13 Christofer Clark, I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande guerra, Laterza, 2013.

 

Giorgio Gallo è uno dei fondatori del Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace” dell’Università di Pisa, di cui è stato il primo Direttore. Informatico, esperto di modelli e metodi di decision-making in situazioni di conflitto, si interessa da molti anni alla situazione in Palestina.