Dieci anni della Convenzione di Istanbul: una riflessione nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne
a cura di Chiara Magneschi
Spesso il dibattito sui diritti umani è stato accusato di essere fine a sé stesso: pura teoria priva di risvolti pratici. Se ne è addirittura auspicata la fine: la speculazione in materia può dirsi esaurita, occorre passare ai fatti. Con posizioni meno radicali, Norberto Bobbio riteneva la Dichiarazione del 1948 un approdo sufficientemente tranquillizzante per la definizione dei diritti umani: occorreva, da ora in poi, concentrarsi sulla loro tutela effettiva.
Ebbene, il Convegno organizzato dall’Università Ca’ Foscari di Venezia e patrocinato dalla Rete delle Università per la Pace, che si è svolto lo scorso 25 novembre nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, in un mondo in cui la violenza di genere è ancora un’emergenza (una donna su tre in Europa ha subito violenza fisica o sessuale almeno una volta nella vita, una su due ha subito molestie, come ha ricordato Eleonora Esposito dell’European Institute for Gender Equality), da un lato è la prova di quanto il dibattito sui diritti debba essere rinnovato quotidianamente (pena il rischio di regressioni allarmanti anche sulle conquiste che appaiono più consolidate) e, dall’altro lato, mostra quanto si possa fare quando teoria e prassi dei diritti umani riescono a sintonizzarsi.
Emblema di questa capacità è proprio la Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa: un presidio per i diritti delle donne, giunto a oltre cinquant’anni da quella Dichiarazione che avrebbe dovuto farci ritenere ormai soddisfatti del traguardo raggiunto dai diritti umani.
Premesse condivise
Il convegno è stato particolarmente significativo, tra i molti aspetti, in quanto ha restituito una comunanza di visione – quasi a costituire una coralità spontanea – da parte delle relatrici e dei relatori, rappresentanti dei centri più nevralgici del settore operativo dei diritti umani. Una visione incentrata su alcune premesse tutt’altro che scontate, che costituiscono anzi il frutto della lunga evoluzione di un pensiero risalente a Olympe de Gouges e a Mary Wollstonecraft, ovvero alle prime acute critiche del potenziale discriminatorio dei diritti umani, proclamati come universali ma, in realtà, espressione del particolarismo maschile.
Una di queste premesse fondamentali è che la questione dei diritti umani è, prima di tutto, una questione culturale e valoriale: non afferisce semplicemente a uno specifico ambito disciplinare del diritto, ma attraversa l’intero sistema vitale nel quale siamo immersi, che orienta le nostre visioni e le nostre scelte in maniera spesso implicita e inconsapevole. Il tema è stato affrontato anche dal punto di vista teorico, in particolare con l’intervento di Ivana Maria Padoan, Direttrice del Master in Gender Studies and Social Change all’Università Ca’ Foscari di Venezia e membro di RUniPace, mettendo in luce come la prima grande responsabilità delle diseguaglianze di genere, e della perpetuazione di un sistema patriarcale che rende sostanzialmente impunito il potere maschile, l’abbia proprio la cultura, che per lungo tempo non ha ragionato seriamente sul punto. È estremamente importante recuperare quei riferimenti culturali, filosofici e sociologici che evidenziano un rapporto stretto tra diritto e violenza: il diritto è nato in un “sistema di genere” ed è strutturato per mantenere la disparità tra i generi insita in esso, ragion per cui resiste al cambiamento e lo osteggia, dimostrando, anche in questo, la sua violenza. Altrettanto importante è, allora, svelare i riferimenti culturali impliciti, il sistema simbolico e il linguaggio che hanno veicolato le discriminazioni di genere.
In questo panorama, il dibattito sui diritti umani ha contribuito ad aprire una prospettiva critica. Le università, facendo propria questa prospettiva e ponendo i diritti umani al centro dei propri obiettivi, si uniscono a una dinamica di cambiamento: il sistema universitario ha una grande responsabilità educativa nel far sì che la trasformazione si sedimenti nei comportamenti e nell’immaginario (nel “simbolico”, appunto), perché spesso noi (e soprattutto gli uomini, ha notato Gian Luigi Paltrinieri, Presidente del Comitato Unico di Garanzia dell’Università di Verona) non abbiamo pregiudizi, ma siamo i nostri pregiudizi.
Gli interventi hanno concordato anche su un altro aspetto importante, centrale nell’intervento di Maria Ida Biggi, Direttrice del Centro Studi sui Diritti Umani dell’Università Ca’ Foscari: il percorso culturale, politico, istituzionale di trasformazione attraverso la tutela dei diritti deve essere assunto a livello mondiale. Deve essere diffuso (nel senso di quotidiano e non limitato ai “giorni di rito”) e trasversale quanto alle aree di interesse (è piuttosto chiaro che il godimento dei diritti umani non si dà se non in una prospettiva “olistica”). Deve essere l’oggetto di una stretta cooperazione tra gli Stati. Si tratta di un discorso estremamente concreto che si traduce, come vedremo, nell’impegno ad adottare standard comuni che rendano i dati di rilevazione delle diseguaglianze nella titolarità e nell’accesso ai diritti sempre più comparabili.
È, inoltre, altrettanto fondamentale una sinergia tra gli atenei: per incarnare un ruolo civico, perseguire una funzione di advocacy e promuovere azioni concrete, come ha affermato Alessandra Cordiano dell’Università di Verona e membro di RUniPACE. A questo scopo è vitale che le università facciano rete (sul punto è intervenuta anche Michela Nosé, Presidente del Comitato Unico di Garanzia dell’Università di Verona): una rete in grado di generare una cultura che abbia impatto sul territorio e sulle politiche istituzionali, con una visione internazionale che contribuisca ad allargare il respiro degli approcci localistici. Una rete che ha preso effettivamente forma nelle Università in rete contro la violenza di genere (UnIRe) fondata da Michele Nicoletti, Presidente dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, e che lavora, tra l’altro, proprio sulla Convenzione di Istanbul.
Un’ulteriore premessa comune è che i diritti delle donne sono diritti umani, ovvero che la violenza contro le donne è a tutti gli effetti una violazione dei diritti umani.
Questa affermazione apparentemente scontata costituisce il punto d’arrivo di un lungo cammino, partito dalla presa di coscienza della diversità dei diritti delle donne rispetto ai diritti degli uomini, e della portata discriminatoria di quelle dichiarazioni dei diritti (prima fra tutte la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789) che, pretendendo di riferirsi a un essere umano completamente neutrale, ne assumevano invece uno ben preciso: maschio, bianco, eterosessuale, borghese, possidente, occidentale, capace di intendere e di volere, votante, ecc.). Da quel momento, il cammino dei diritti umani ha proceduto per progressive inclusioni di categorie di soggetti rivendicanti l’accesso al loro godimento, anche in virtù della propria condizione personale, della propria singolare e specifica umanità. Affermare oggi che i diritti delle donne sono diritti umani significa affermare, dunque, che anche le donne sono soggetti le cui specificità meritano riconoscimento in egual misura in ogni parte del mondo, e insieme rivendicare l’inclusione negli strumenti di tutela universali. Non va del resto taciuto che la considerazione dei diritti delle donne quali diritti umani è, allo stesso tempo, un punto di partenza: la considerazione astratta del soggetto “donna” come titolare di diritti rischia di rappresentare un potere discriminatorio analogo a quello lamentato. Viceversa, una tutela sostanziale deve procedere anche attraverso la “donna situata”, in un’ottica di intersezionalità alla quale deve essere improntata, innanzitutto, la rilevazione dei dati statistici: un fattore cruciale, sul quale ha richiamato l’attenzione Linda Laura Sabadini, Direttrice della Direzione centrale per gli studi e la valorizzazione tematica nell’area delle statistiche sociali e demografiche presso l’ISTAT.
Il cammino dei “diritti umani delle donne” è stato costellato da tappe importanti cui la Convenzione di Istanbul è debitrice, come la Convenzione Interamericana sulla prevenzione, punizione e sradicamento della violenza contro le donne, la cosiddetta “Convenzione di Belèm do Parà” dal luogo dove è stata adottata il 9 giugno 1994, e il Protocollo alla Carta Africana sui diritti dell’uomo e dei popoli, dedicato ai diritti delle donne, il cosiddetto “Protocollo di Maputo”, ancora una volta dal luogo dove è stato adottato l’11 luglio 2003.
La Convenzione di Istanbul in estrema sintesi
Rispetto alle tappe ricordate, ha osservato Francesca Montagna, del Segretariato dei meccanismi di monitoraggio della Convenzione di Istanbul presso il Consiglio d’Europa, la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, siglata a Istanbul l’11 maggio 2011, costituisce un approdo ulteriore, e si pone attualmente come gold standard, poiché fornisce a oggi il quadro più completo giuridicamente vincolante per gli Stati membri in materia di protezione dei diritti delle donne.
Lo scopo principale della Convenzione è quello di porre fine alla violenza contro le donne e alla violenza domestica, e di raggiungere, de iure e de facto, la parità di genere. La sua architettura ruota attorno alle “quattro P”: Prevenzione, Protezione, Politiche integrate, Procedimento contro i colpevoli. Sono previsti due meccanismi di monitoraggio. Il primo è il GREVIO, organismo costituito da 15 esperti indipendenti che valutano l’attuazione della Convenzione negli Stati che la hanno ratificata. Il secondo è il Comitato degli Stati parte, organo politico costituito dai rappresentanti degli Stati membri; dà seguito alle conclusioni del Grevio.
Recentemente sono state mosse alcune accuse (infondate) alla Convenzione, ricorda Montagna, che hanno portato alcuni Stati a esitare nella ratifica e uno Stato (la Turchia) a ritirarsi: perseguirebbe, secondo i detrattori, gli obiettivi nascosti di voler smantellare la famiglia tradizionale e di promuovere l’omosessualità.
Come la Convenzione ha cambiato la vita delle donne
Uno dei profili più interessanti del convegno è stato l’esposizione puntuale, dettagliata, documentale, dei principali modi attraverso i quali si è dato vita nello scorso decennio alla Convenzione, rendendo operativi e attivi a lungo termine gli strumenti da essa congegnati, e realizzando un produttivo connubio tra teoria e prassi affatto scontato.
I risultati, come cercherò di riassumere tra poco, sono molto incoraggianti. Le relatrici coinvolte hanno mostrato concretamente come la Convenzione di Istanbul abbia cambiato la vita delle persone, e soprattutto delle donne che vivono nel contesto europeo.
“Ciò che viene misurato diventa visibile”
Un primo dato importante è che gli obiettivi e gli obblighi previsti nella Convenzione hanno incoraggiato la quantificazione della violenza di genere. In particolare l’European Institute for Gender Equality (EIGE)1, rappresentato al Convegno dalla Direttrice Carlien Scheele e da Eleonora Esposito, si è fatto carico di misurare la disuguaglianza di genere attraverso la raccolta di molteplici dati amministrativi e la loro comparazione diacronica a livello internazionale, con il metodo della “disaggregazione dei dati”. Le rilevazioni hanno peraltro messo in luce come ci siano ancora molti passi da compiere per elevare il grado di comparabilità dei dati stessi: gli ostacoli principali sono creati dalla diversità di definizioni e standard relativi ai vari aspetti che concorrono a misurare le questioni di genere (es. definizione di relazione, di partner intimo, dei vari reati connessi al genere). A essere quantificati sono anche i costi economici della violenza di genere, fatti di voci come la perdita di rendimento economico, la monetarizzazione della violenza e i costi di giustizia. Conoscere questo costo sprona i paesi europei a concentrarsi sulla prevenzione.
I dati dell’emergenza in Italia
Per l’ambito Italiano, Linda Laura Sabadini ha fornito le “misure”, sconcertanti, della violenza di genere, e in particolare dei femminicidi. Credo sia doveroso, oltre che estremamente utile, cogliere l’occasione di questo report per citarne alcuni.
Il 57% dei femminicidi sono interni al nucleo familiare; il 12,7% sono commessi da un ex partner; solo nel 40% dei casi le vittime stavano cercando di separarsi dal proprio assassino. Nel 34% dei casi al femminicidio è seguito il suicidio degli autori, molti dei quali possedevano il porto d’armi. Tra il 2017 e il 2018 vi sono stati 169 orfani di femminicidio (in un terzo dei casi orfani anche del padre, che si è tolto la vita); molti di essi avevano assistito alla violenza (con la problematica, correlata, della trasmissione intergenerazionale della violenza di genere).
Di tutte le vittime, solo il 15% avevano sporto denuncia, mentre il 63% non ne aveva parlato con nessuno (amica, madre, ecc.). Il dato, osserva Sabadini, è il segno di come le istituzioni non riescano a intercettare il bisogno delle donne di liberazione dalla violenza. Molte di esse non ne parlano perché non si fidano dei potenziali interlocutori del racconto delle violenze. A sua volta, questo è emblematico di come la violenza sia radicata nel tessuto culturale e istituzionale. Ai centri antiviolenza stessi non si rivolge più del 2,5% delle donne, o perché tali centri non sono conosciuti, ovvero perché mancano nel territorio: se, per la Convenzione di Istanbul, il fabbisogno è di 1 centro antiviolenza ogni 10.000 abitanti, in Italia a oggi il tasso è dello 0,05%.
Nel 37% i procedimenti penali finiscono con l’archiviazione, dato dovuto al fatto che l’uomo si toglie la vita. Nell’82% dei casi gli omicidi si avvalevano in passato del rito abbreviato, godendo in questo modo di forti sconti di pena. Il Codice Rosso ha eliminato questa possibilità. Nonostante ciò, si contano più condanne al di sotto dei venti anni che al di sopra dei 30 (ergastolo). In molti casi le difese in giudizio sono impostate sull’incapacità di intendere e di volere dell’omicida, ma solo in pochi casi viene accettata tale “versione”.
Le “buone pratiche”
Francesca Montagna ha mostrato altri esempi di come la Convenzione abbia riflessi positivi sulla vita delle donne, avvalendosi dei risultati misurati dal Mid-Term Horizontal Review, il Rapporto del GREVIO pubblicato nel maggio scorso, in occasione del decennale della Convenzione, che fornisce una panoramica della sua attuazione da parte dei 17 Stati parte, valutati fino al dicembre 2020. In particolare, il Rapporto ha messo in luce le conquiste, ovvero le “buone pratiche”, raggiunte in vari campi.
Buone pratiche nel diritto sostanziale: la firma e/o la ratifica della Convenzione ha costituito una forza trainante, che ha indotto molti Stati a riforme legislative, con la criminalizzazione di un maggior numero di forme di violenza contro le donne, l’introduzione di standard di parità più elevati e di politiche più lungimiranti. Esempi concreti: la maggior parte degli Stati valutati dal GREVIO hanno introdotto un reato specifico di stalking (Albania, Finlandia, Montenegro, Portogallo, Serbia); la fattispecie di reato della violenza sessuale è stata costruita sulla mancanza di consenso piuttosto che sull’uso, subìto, della forza (Malta, Svezia, Danimarca, Germania, Slovenia); il reato di matrimonio forzato è stato riferito sia all’indurre una persone al matrimonio, sia all’attirare una persona all’estero a tal fine (Albania, Andorra, Spagna).
Buone pratiche nelle denunce delle violenze: a loro volta, le riforme di diritto sostanziale hanno impattato positivamente sul numero delle denunce e dei procedimenti penali (in Svezia, a seguito della suddetta ridefinizione della fattispecie di violenza sessuale, i reati sono aumentati del 75%); in molti paesi sono state create unità di polizia specializzate in violenza domestica e/o sessuale (Albania, Danimarca, Francia, Italia, Paesi Bassi, Spagna, Svezia); si sono velocizzate le indagini e si sono ammessi mezzi di prova ulteriori rispetto a quelli tradizionalmente previsti.
Buone pratiche nel campo della protezione e del sostegno: a seguito della firme e/o ratifica gli Stati hanno istituito linee telefoniche di sostegno (Monaco, Albania, Montenegro, Finlandia, Serbia) e Centri di primo sostegno per le vittime di violenza (Portogallo, Finlandia, Turchia, Belgio, Albania).
Buone pratiche in materia di finanziamenti: a seguito delle ratifiche sono aumentati i fondi stanziati per i servizi di supporto alle vittime di violenza (Albania, Finlandia), e i Ministeri hanno creato linee di finanziamento dedicate alla lotta alla violenza e incluso nei bilanci obiettivi misurabili di parità di genere (Portogallo, Albania).
Sara De Vido, del Dipartimento di Economia dell’Università Ca’ Foscari, ha presentato i risultati del Rapporto “Criminalisation of gender-based violence against women in European States, including ICT-facilitated violence”, pubblicato il giorno stesso del Convengo. Commissionato dalla Commissione Europea all’Università Ca’ Foscari, il rapporto mira a comparare le legislazioni di 31 Stati membri sulla violenza di genere. Il rapporto, basato anche sulle ricerche del GREVIO, ha confermato un livello di comparabilità dei dati ancora insoddisfacente, soprattutto a causa delle diverse definizioni dei reati di genere inserite nei Codici Penali, o dell’assenza, nelle definizioni dei reati, dello specifico riferimento al genere (come nel caso della violenza on-line, con l’eccezione di Francia, Romania e Islanda). Risulta che gli Stati abbiano assunto due diversi ordini di comportamenti. In alcuni casi, hanno criminalizzato comportamenti specifici, come il revenge porn o, meglio detto, “diffusione non consensuale di materiale intimo”, e il linguaggio d’odio: anche se pochi Stati hanno configurato l’hate speech come reato, 23 hanno riconosciuto l’identità, le espressioni di genere e l’orientamento sessuale come motivi dei discorsi d’odio. Peraltro la giurisprudenza interna comincia a mostrare sviluppi interessanti: Spagna e Paesi Baschi registrano un caso di condanna per incitamento all’odio verso le donne (nella fattispecie il condannato aveva invocato la pratica delle mutilazioni genitali femminili). In altri casi, gli Stati hanno previsto come aggravanti di reati preesistenti alcune forme di violenza di genere, come nel caso dei Paesi Bassi: l’aggravante è applicata se dal revenge porn derivano danni alla vittima o la perdita della vita, ovvero il suicidio.
Conclusioni
Tirando le somme di questa immersione nel dibattito e nei numeri della violenza di genere, si può ribadire che il problema della violenza di genere è culturale e che il diritto tende a conservare la concezione della donna come oggetto di possesso, assai dura da sradicare.
Tuttavia, la strada percorsa in un decennio è stata molta: la Convenzione, sebbene tra molte difficoltà, ha funzionato da stimolo per le azioni concrete di molti Stati parte. Senza dimenticare che l’implementazione, ulteriore, dei risultati sarà consentita da un elemento gravemente mancante: la ratifica della stessa da parte della Unione Europea. Un’azione in grado di promuovere in questa materia una coesione tra Stati membri, di cui si sente la molto mancanza.
Occorre, dunque, insistere sulla diffusione di una cultura della parità, e fornire risorse che veicolino e rendano permanente questo cambiamento. Occorrono ingenti finanziamenti che, ad esempio, siano in grado di sostenere la creazione di una rete capillare di centri anti-violenza.
La media di verificazione dei femminicidi è di 2 anni e 4 mesi dalla prima denuncia. In sede di denuncia, nell’80% dei casi le donne avevano comunicato di avere paura per la propria vita: la donna aveva ragione, ma forse non era stata creduta. Chiudiamo dunque, aggiungendo una voce all’invito, tanto semplice, quanto fondamentale, di Sabadini: “Occorre credere alle donne!”
Nota
1 Unica agenzia europea a occuparsi esclusivamente di uguaglianza di genere: fondata nel 2010, si occupa di raccogliere e comparare i dati sull’uguaglianza di genere per supportare le politiche istituzionali.
Chiara Magneschi è avvocata, ricercatrice aggregata al Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace” e docente a contratto in Teorie giuridiche e politiche e diritti umani presso il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa. E-mail: chiaramagneschi@gmail.com