domenica, Novembre 24, 2024
Cultura

“La lingua è più del sangue”. Attualità delle riflessioni di Klemperer e Kraus (prima parte)

di Andrea Panzavolta

«Les mots ne sont pas la parole» [Le singole parole non sono la parola], annotava Ionesco sul suo Diario. Che accade quando perdiamo «la parole»? Quando questa – che è sforzo implacabile di riproporre, per meglio comprenderla, la cangiante varietà della vita – è sommersa da «les mots», da un profluvio di parole irrancidite, vilipese, deformate ora in clichés tarlati come la carcassa del cane Bendicò nel Gattopardo, ora in oscurità tanto compiaciute quanto presuntuose? Se è vero che l’uomo è «il vivente dotato di parola» («zoón lógon échon», secondo la nota definizione di Aristotele), allora è lecito affermare che ogni oltraggio inferto alla parola attraverso l’uso di determinate parole sia un oltraggio all’Umano.

Il ‘900 è stato il secolo della morte della parola. Ciò che con sconvolgente lucidità Dostoevskij intuì ne I demoni – l’esistenza di passaggi segreti tra la cultura cosiddetta superiore e il disumano – si manifestò compiutamente nella Germania nazista dove le maggiori conquiste dello spirito – gli atenei, le biblioteche, i musei, le accademie musicali, i laboratori artistici – non solo non riuscirono a porre un argine alla ferocia politica alimentata da parole impazzite, ma se ne fecero addirittura promotori. Fondamentale per la salute di ogni democrazia sarebbe investigare le cause di un simile fenomeno involutivo, cause probabilmente ancora dormienti dentro i nostri cassetti come i bacilli della peste camusiana.

Victor Klemperer [nella foto] e Karl Kraus ci hanno lasciato due testi, rispettivamente
 
La lingua del terzo Reich
e
 
La terza notte di Valpurga
, che ciascuno di noi dovrebbe leggere come una preghiera del mattino per vaccinarsi contro la quotidiana occupazione della parola da parte di una classe politica e dirigente ormai pericolosamente irresponsabili.

 

La lingua del Terzo Reich di Victor Klemperer

Come si legge nella Postfazione, a spingere il filologo Victor Klemperer, privato nel 1935 della cattedra al Politecnico di Dresda perché ebreo, a pubblicare il diario su cui aveva annotato la progressiva distruzione della lingua tedesca da parte del nazionalsocialismo fu un colloquio che, alla fine della guerra, ebbe in un campo profughi con un’operaia berlinese che era stata in carcere. Interrogata sul motivo per il quale era stata condannata alla pena detentiva, la donna rispose: “Beh, per delle parole…”. Aveva offeso il Führer, i simboli e le istituzioni del Terzo Reich.

«La lingua è più del sangue» recita una massima di Franz Rosenzweig scelta da Klemperer quale epigrafe del suo taccuino di filologo. La lingua, infatti, è lo strumento principe per investigare la realtà e per assumere nei confronti di questa un atteggiamento responsabile; la lingua, soprattutto, è nutrimento dello spirito e radice di ogni comportamento morale. È stato possibile uccidere milioni di corpi perché prima si è provveduto a uccidere la parola e, con essa, l’anima. E l’assassinio della parola nella Germania di Hitler è avvenuto attraverso la ripetizione compulsiva di frasi, locuzioni, sintagmi e avverbi inculcati nella massa e da questa ripetuti acriticamente. Ma la lingua, scrive Klemplerer, «non si limita a creare e pensare per me, dirige anche il mio sentire, indirizza tutto il mio essere spirituale quanto più naturalmente, più inconsciamente mi abbandono a lei. […] Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico».

Ciò che avvenne in Germania negli anni dell’incubo nazista tiene testa alle terrificanti fantasie distopiche di George Orwell: se il «Fratello Maggiore», per vincere ogni forma di dissenso e per rendere davvero assoluto il proprio potere, forgia la «neolingua», un idioma terroristico pensato per soppiantare l’«archeolingua» e diventare così l’esclusivo mezzo di comunicazione, il Terzo Reich, per contro, coniò pochissimi neologismi, ma mutò «il valore delle parole», le requisì ad appannaggio esclusivo del partito e le impregnò del suo veleno per asservirle al suo spaventoso sistema. Nel regime totalitario prefigurato da Orwell forse qualcuno avrebbe potuto ancora imbattersi in una parola della «archeolingua», sufficiente a destare in lui la curiosità per il passato (e così accade infatti nel romanzo), ma quale speranza di vedersi restituito il vero significato delle parole avrebbe mai potuto avere chiunque fosse nato in Germania dopo il 1933?

Il primo e più infido inganno linguistico, osserva Klemplerer, è dato proprio dal sintagma «Terzo Reich» che coglie il nocciolo della perversa operazione linguistica promossa dal nazismo, quella cioè di innalzare la sfera politica a quella religiosa, di conferire alle parole un’aura misticheggiante, di virarle sempre più nel sentimentale fino a imprimere su di esse il sigillo del trascendente. Reich, infatti, evoca un senso di solennità e di timore reverenziale che manca ai termini che, almeno in parte, sono suoi sinonimi come res publica o ‘Stato’, i quali rimandano a una terrena civitas hominum governata da leggi uguali per tutti. Quando poi si parla di ‘terzo’ Reich, ecco che il processo di spiritualizzazione sfocia addirittura nella mistica: l’espressione, infatti, richiama in modo scoperto quel ‘Terzo Regno’ che per i riformatori medievali avrebbe segnato l’avvento definitivo di un’epoca di perfezione dopo il paganesimo e il cristianesimo.

Con l’acribia del filologo di vaglia, Klemplerer smaschera le tecniche di manipolazione dei significati e mostra fino a che punto la lingua tedesca era stata piegata in senso ideologico a esclusivo vantaggio della mentalità dominante. Ma più ancora della manomissione delle parole a impressionare Klemplerer è lo sfoltimento delle stesse, il deliberato proposito di usare termini semplici per esprimere, e quindi imporre, stati di coscienza massimamente rudimentali e, per questo, dalla irresistibile presa emotiva. È l’affermarsi incontrastato del ‘popolaresco’: «[…] quanto più fatto di cose è un discorso, quanto meno si rivolge all’intelletto, tanto più è ‘popolaresco’. Appena il discorso, anziché limitarsi a non gravare l’intelletto, passa scientemente a escluderlo o a offuscarlo, sconfina dal popolaresco per passare alla demagogia e alla seduzione del popolo».

Sulle orme di Musil, Kafka e Wittgenstein, insieme a Dostoevskij gli altri profeti delle apocalissi novecentesche, La lingua del Terzo Impero individua un collegamento profondo tra la logica e l’etica. Quando il Logos è prima svilito in prosa sgrammaticata e poi degradato a chiacchiericcio, ecco che «vexilla regis prodeunt inferni» [avanzano i vessilli del re dell’Inferno]. Il grido d’allarme lanciato da Klemplerer a distanza di tanti decenni non ha perduto la sua inquietante forza drammatica: «Dopo il 1933 so […] che nell’animo di ogni persona colta esiste uno strato che è popolo, so che da un dato momento non mi servirà più tutto quello che so sulla possibilità di venir ingannato né la mia attenzione critica: prima o poi la bugia stampata finirà per sopraffarmi, se mi incalza da tutte le parti, se intorno a me le verranno contrapposti solo pochi dubbi, sempre più pochi, infine nessuno».

 

[La seconda parte dell’articolo verrà pubblicata la prossima settimana]

 

Andrea Panzavolta è giornalista pubblicista. Collabora alla rubrica “Film in discussione” di Iride. Filosofia e discussione pubblica, e ad alcune riviste di critica cinematografica. Dal 2014 è il direttore artistico della rassegna concertistica forlivese “Passioni in musica”.