«Fratelli tutti» di papa Francesco. Alcune chiavi per una lettura informata
di Pierluigi Consorti
Le encicliche rappresentano un antichissimo modo di diffusione del pensiero dell’autorità ecclesiale. Possono essere assimilate a una sorta di lettera circolare aperta. In linea di principio il loro contenuto non impegna direttamente il piano giuridico, ma non c’è dubbio che rivestono anche un valore normativo, dato che provengono dalla massima autorità della Chiesa cattolica. Attraverso le encicliche in effetti i papi sottolineano le linee centrali del loro magistero, ossia del loro insegnamento. La forma dialogata e argomentata non deve trarre in inganno, dato che il loro contenuto va percepito come un vero e proprio atto di indirizzo che il papa imprime per adattare le forme del messaggio evangelico all’evoluzione dei tempi.
Va osservato che, siccome la Chiesa cattolica presta molta attenzione a presentare un’interrotta continuità del suo magistero, anche quando i papi sanno di esprimere qualche novità – le circostanze di una storia millenaria esigono necessariamente continue attualizzazioni – evitano sempre di contraddire esplicitamente i loro predecessori. Perciò, per cogliere appieno la sostanza, bisogna saper leggere anche fra le righe, collegando le singole affermazioni in un più ampio contesto dottrinale. Solo in questo modo si riescono a soppesare adeguatamente le effettive linee di rottura e quelle di continuità.
Bisogna anche ammettere che, se è vero che le encicliche rivestono tutte la stessa importanza formale, alcune sono in realtà più rilevanti di altre. Certe encicliche finiscono velocemente nei cassetti e sono presto dimenticate, mentre altre resistono come veri e propri monumenti storici e costituiscono punti di riferimento per l’intera umanità. Questo è accaduto specialmente per le encicliche che trattano temi sociali, che hanno sempre riscosso un’attenzione larghissima. A partire dalla Rerum novarum [le encicliche prendono il nome dalle parole del loro incipit], nel 1891, i papi hanno usato questo strumento per aggiornare progressivamente quella parte del magistero nota come dottrina sociale della Chiesa. Dal 1891 periodiche ulteriori encicliche1 hanno segnato un percorso evolutivo di sempre maggiore attenzione all’analisi evangelica dei fenomeni sociali. Questa serie di encicliche si è interrotta con la Caritas in veritate (2009) di papa Benedetto.
Papa Francesco, diventato Vescovo di Roma nel 2013, ha scritto tre encicliche, due delle quali di carattere prevalentemente sociale: Laudato si (2015) e Fratelli tutti (2020). Ho scritto “prevalentemente sociale” in quanto il tono di questi suoi interventi deve essere interpretato alla luce della sua precedente Esortazione apostolica Evangelii gaudium, emanata pochi mesi dopo l’elezione, e in larga parte elaborata prima di diventare papa. Com’è noto, questa Esortazione esprime un valore programmatico2. La sua lettura permette di comprendere l’originalità della riflessione teologica di papa Francesco, in cui lo spirito evangelico appare fortemente intrecciato nel tessuto della vita quotidiana, così da indebolire la tradizionale distinzione fra spirito e materia, religione e secolo. L’Evangelii gaudium si caratterizza per la sua estroversione, simboleggiata dall’immagine della «Chiesa in uscita», simile a «un ospedale da campo», i cui pastori hanno l’«odore delle pecore». Questa Chiesa fortemente implicata col mondo si scontra con le domande di giustizia sociale ed esprime risposte concrete, esemplificate da alcune scelte di vita del nuovo papa: non abita l’appartamento pontificio, ma una stanza della foresteria vaticana; gira su una comune utilitaria e non va in vacanza nella villa di Castel Gandolfo; rifiuta i riti principeschi che ancora ruotavano intorno alla figura del vescovo di Roma, saluta tutti e tutte e chiede di pregare per lui.
La lettura dei suoi interventi è facilitata dalla consapevolezza che questo stile di vita latino-americano è costitutivo dell’identità dell’attuale vescovo di Roma, che privilegia la teologia applicata rispetto alle speculazioni teoriche e preferisce dare risposte concrete, valide per la vita di tutti i giorni, invece di proporre schemi di ragionamento astratti e generali. Quindi le sue encicliche non sono trattati teologici o filosofici, ma una sorta di compendio delle posizioni già espresse in altri contesti finalmente ordinate secondo un fil rouge d’occasione.
Assumendo questa prospettiva non può certo sfuggire che due encicliche di papa Francesco si aprono entrambe citando Francesco d’Assisi, al quale il papa non fa mistero di ispirare la sua azione. Bergoglio è stato il primo pontefice che ha avuto il coraggio – fortemente simbolico – di darsi il nome del testimone del più grande rinnovamento spirituale della Chiesa cattolica, tanto che Francesco d’Assisi è stato identificato come alter Christus. Se non si parte da qui il magistero di papa Francesco può restare incomprensibile.
L’enciclica «Fratelli tutti» si apre con l’espressione usata da Francesco d’Assisi per rivolgersi a tutti – fratelli e sorelle – proponendo di adottare «una forma di vita dal sapore di Vangelo». Questo stesso invito è stato adesso riproposto dal papa per chiedere di esercitare «un amore che va al di là delle barriere della geografia e dello spazio». Qualcuno ha criticato l’apertura dell’enciclica, sostenendo che rivolgersi ai soli «fratelli» escluderebbe il genere femminile. Questa critica non coglie nel segno, dato che come già accennato si tratta di una citazione testuale del XIII secolo: un’epoca in cui le divisioni sociali erano così marcate che l’espressione «Fratelli tutti» suonava già non solo inclusiva, ma persino rivoluzionaria. Del resto, il sottotitolo dell’enciclica appare sufficientemente esplicativo della sua sostanza, che riguarda «la fraternità e l’amicizia sociale»: concetti che superano le dimensioni di genere e si estendono verso una larghezza globale.
L’enciclica è molto corposa: si sviluppa per 285 paragrafi divisi in otto capitoli. Nel primo appaiono le «ombre di un mondo chiuso»: una specie di fotografia dello stato di sofferenza del mondo, colpito da ingiustizie, guerre, epidemie che mandano in frantumi i sogni di integrazione sociale e vita comune. Il secondo capitolo propone una domanda spirituale costruita sulla parabola del buon samaritano. Il papa la racconta, la contestualizza e chiede di fermarsi, in modo che ciascuno e ciascuna possano immedesimarsi in uno dei protagonisti della storia descritta da Gesù. La lettura deve perciò fare una sosta per consentire un approfondimento interiore. Inutile andare avanti senza aver svolto questo esercizio spirituale. Senza identificarsi, senza trovare il proprio posto nella storia, non si può proseguire con successo. Solo chi abbia svolto questo esercizio può trovare nel terzo capitolo alcuni spunti per «pensare e generare un mondo aperto». Esattamente così: pensare e generare; ragionare, per intervenire e allargare il proprio io al noi.
Nel quarto capitolo sono esposte le sfide che si presentano ai fratelli e alle sorelle che hanno scelto di aprire il proprio cuore al mondo intero. Troviamo qui tante domande che esigono risposte di amicizia. Il quinto capitolo presenta finalmente una proposta «capace di realizzare la fraternità a partire da popoli e nazioni che vivano l’amicizia sociale»: si tratta di una «migliore politica, posta al servizio del vero bene comune», non populista né polarizzata. In questo capitolo troviamo alcune proposte per «cercare punti di contatto» e costruire relazioni basate sul dialogo (oggetto del sesto capitolo). Nel settimo capitolo il dialogo si presenta quindi come lo strumento principale col quale gli «artigiani di pace» possono approcciare i conflitti per costruire la pace, percorrendo «nuovi itinerari».
Infine, l’ottavo capitolo presenta una proposta di collaborazione fra le diverse religioni. Queste «a partire dal riconoscimento del valore di ogni persona umana come creatura chiamata ad essere figlio o figlia di Dio», sono invitate a mettersi al servizio della fraternità nel mondo.
«Fratelli tutti» colpisce subito per l’assenza di un destinatario esplicito e per l’esplicito richiamo all’influenza subita dalle relazioni che l’autore ha intessuto con il patriarca Bartolomeo («mio fratello») e con lo sceicco di al Azhar: amicizie concrete che diventano icone dell’amicizia sociale proposta a tutti e a tutte, senza esclusioni. Non può peraltro sfuggire che nella conclusione dell’Enciclica sono ricordati anche « altri fratelli che non sono cattolici: Martin Luther King, Desmond Tutu, il Mahatma Gandhi e molti altri». Questi richiami di persone concrete disegnano un perimetro di relazioni largo e al tempo stesso ben delineato in termini spirituali. Siamo di fronte ad un’enciclica bensì sociale, che non può però essere letta senza un sufficiente impegno spirituale.
In secondo luogo, emerge evidente che questa enciclica non ambisce tanto a innovare, quanto a consolidare posizioni già espresse in precedenza. Sotto questo profilo, il testo presenta un vero e proprio collage di citazioni che fanno emergere un tratto proprio della spiritualità gesuitica, caratterizzata dalla tendenza a fermarsi su alcuni riferimenti per dare loro il tempo di scendere in profondità e agire secondo il disegno di Dio. Anche per questa ragione sarebbe sbagliato affrontare la lettura di «Fratelli tutti» come un documento sociale privo di carica spirituale. Senza quest’ultima il disegno complessivo finisce inevitabilmente per perdersi. Perciò non è opportuno sostituire la lettura integrale del testo ricorrendo a compendi o riassunti.
Per parte mia, desidero soffermarmi su un solo aspetto che immagino possa interessare maggiormente i lettori e le lettrici, vale a dire la proposta per un impegno nell’artigianato di pace, maturato nella consapevolezza che «ogni violenza commessa contro un essere umano è una ferita nella carne dell’umanità» (n. 227). Tale artigianato si esprime prendendo coscienza della forza proattiva che emerge dalla formazione di «una nuova società basata sul servizio agli altri, più che sul desiderio di dominare», raggiungibile «solo quando lottiamo per la giustizia attraverso il dialogo, perseguendo la riconciliazione e lo sviluppo reciproco» (n. 229).
L’artigianato della pace si sostanzia in processi di solidarietà collettiva, volti a promuovere la dignità delle persone umane, senza distinzioni, anche ingaggiando vere e proprie battaglie sociali per conquistare diritti spesso negati, come fanno i movimenti popolari, che il papa definisce in modo quasi lirico: «seminatori di cambiamento, promotori di un processo in cui convergono milioni di piccole e grandi azioni concatenate in modo creativo, come in una poesia» (n. 169). Tale artigianato si sviluppa nei termini della pace positiva: già da tempo il magistero cattolico sulla pace ha superato la sua banale comprensione come semplice assenza di guerra, ma «Fratelli tutti» compie un ulteriore passo in avanti, in quanto condanna anche la guerra di difesa, che figurava ancora come una possibile causa di giustificazione per l’uso della forza armata.
Questa conclusione si fonda su due basi parzialmente diverse. Da un lato emerge la riflessione sulla pace positiva intesa come prospettiva per la costruzione di un mondo pacifico e libero dalle ingiustizie; da un altro lato, quella sulla giustificazione della guerra come strumento politico. Due questioni che si sono sviluppate in modo parallelo nella seconda metà del Novecento, nell’alveo di una controversa accettazione della tradizionale dottrina teologico-giuridica della guerra giusta, incrinata dalla Pacem in terris di Giovanni XXIII (1963). Quest’ultima enciclica ebbe il merito di spostare l’attenzione dalla centralità della guerra, e delle sue possibili limitazioni, alla centralità della pace e alle condizioni per costruirla .
Dopo la Seconda guerra mondiale e i disastri ad essa connessi – fra i quali spicca per enormità l’uso dell’arma atomica – per Giovanni XXIII l’idea stessa della guerra si collocava fuori della razionalità («alienum est a ratione»), e la pace si mostrava come frutto della reciproca fiducia e di azioni comuni volte a perseguire il «bene comune universale». Sul versante magisteriale, la condanna della guerra si è concretizzata in una dinamica costruttiva della pace positiva, dapprima collegandola con lo sviluppo dei popoli (Populorum progressio, 1967) e poi con l’esercizio della solidarietà (Sollecitudo rei socialis, 1987), consolidando così il nesso di consequenzialità che collega la pace con la giustizia (e quindi, la guerra con l’ingiustizia). Sul versante politico la condanna della guerra risale al 10 febbraio 1947, quando la Carta dell’Onu – ancora in itinere e a guerra aperta – vietava il ricorso sia all’uso della forza sia alla sua minaccia come legittima forma di intervento politico.
«Fratelli tutti» raccoglie queste istanze e colloca l’”artigianato della pace positiva” in un percorso di incontro soprattutto con gli ultimi. La pace è «impegno instancabile – soprattutto di quanti occupiamo un ufficio di maggiore responsabilità – di riconoscere, garantire e ricostruire concretamente la dignità, spesso dimenticata o ignorata, dei nostri fratelli, perché possano sentirsi protagonisti del destino della propria nazione» (n. 223). La pace è ancora una volta iscritta in una cornice di lotta alle ingiustizie sociali, in quanto «senza uguaglianza di opportunità, le diverse forme di aggressione e di guerra troveranno un terreno fertile che prima o poi provocherà l’esplosione» (n. 224). In questo contesto arriva la condanna per qualsiasi ricorso alla guerra – sovente coperta da «ogni tipo di scuse apparentemente umanitarie, difensive o preventive» – e persino l’esplicita critica allo stesso Catechismo della Chiesa cattolica, che ancora «parla della possibilità di una legittima difesa mediante la forza militare, con il presupposto di dimostrare che vi siano alcune “rigorose condizioni di legittimità morale”» (n. 239). Per papa Francesco «non possiamo più pensare alla guerra come soluzione, dato che i rischi probabilmente saranno sempre superiori all’ipotetica utilità che le si attribuisce. Davanti a tale realtà, essendo molto difficile oggi sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”», si unisce al grido dei suoi predecessori: «Mai più la guerra!» (n. 242).
Pierluigi Consorti è Professore ordinario presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa. Ha diretto il Centro Interdisciplinare Scienze per la Pace. Nel Corso di laurea in Scienze per la pace insegna “Approccio interculturale alla trasformazione dei conflitti”, nei Corsi di giurisprudenza “Diritto e religione” e “Diritto interculturale”. E-mail: pierluigi.consorti@unipi.it
Note
1 Quadragesimo anno (1931); Mater et magistra (1961); Pacem in terris (1963); Populorum progressio (1967); Octogesima adveniens (1971); Laborem exercens (1981); Sollecitudo rei socialis (1987); Centesimus annus (1991).
2 Yañez, H.M. (2014), Tracce di lettura dell’Evangelii gaudium, in Id. (a cura di), Evangelii Gaudium: il testo ci interroga. Chiavi di lettura, testimonianze e prospettive, Roma, Pontificio istituto biblico, p. 9.