venerdì, Aprile 26, 2024
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Pace e diritti umani. Per la presentazione della Rete delle Università per la Pace

di Attilio Pisanò

Qual è il contributo dei diritti al raggiungimento della pace? Che legame intercorre tra diritti e pace? Perché rafforzare i diritti significa tout court rafforzare la pace?

Sono, queste, alcune tra le domande più frequenti quando si vuole delineare il rapporto stretto, strettissimo, tra pace e diritti umani. Un rapporto così stretto che la Rete delle Università per la Pace (RUNIPACE), costituita dalla Conferenza dei Rettori Universitari Italiani (CRUI), viene presentata proprio nella Giornata internazionale dei diritti umani, il 10 dicembre 2020, in occasione del 72° anniversario dell’adozione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (Parigi, 10 dicembre 1948).

Se è vero che la riflessione sulla pace non è novecentesca, ma ha origini moderne che rimandano al Progetto per una pace perpetua di Immanuel Kant (1795), è altrettanto vero che il legame tra pace e diritti umani viene a intrecciarsi inequivocabilmente alla fine del Secondo conflitto mondiale.

In un periodo storico segnato da quelli che Giuseppe Capograssi, ne L’ambiguità del diritto contemporaneo (1953), aveva definito come «cataclismi fisici e metafisici» che avevano travolto le società europee sino a farle regredire a «fasi primordiali della loro storia», la nascita dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (e in Europa la costituzione del Consiglio d’Europa con la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo delle libertà fondamentali, Roma, 1950) rappresentava il tentativo di avviare un nuovo corso. Un corso finalizzato, come si legge nel Preambolo introduttivo della Carta di San Francisco istitutiva delle Nazioni Unite (1945), a «salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel secolo di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità», riaffermando «la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle Nazioni grandi e piccole».

La lettura già dell’incipit del preambolo introduttivo della Carta di San Francisco ci restituisce, con nitidezza, una immagine di come, negli anni Quaranta del Novecento, la necessità di evitare la guerra, e quindi di affermare la pace, fosse evidentemente avvertita come pressante.

Una necessità (non nuova) che però veniva accompagnata, per la prima volta, da uno statuto universale di diritti: la Dichiarazione universale. Un decalogo per l’umanità, come lo definisce Antonio Cassese (I diritti umani oggi, 1995), radicato, come si legge nel Preambolo, «sul riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili» come «fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo».

La grande ‘invenzione’ del Secondo dopoguerra, quella dei diritti umani (ovvero dei diritti riconosciuti, promossi e protetti dal diritto internazionale), dunque, rappresentava una novità assoluta, anche nella storia plurisecolare dei diritti. Il tratto che distingue, difatti, i diritti umani dai diritti pubblici soggettivi, epigoni del giuspositivismo otto-novecentesco, ma anche dai diritti dell’uomo emersi con le rivoluzioni borghesi, sei e settecentesche, è proprio quello di avere come fonte un diritto sovrastale, nel tentativo tutto novecentesco, di definire uno statuto giuridico di cittadinanza universale, sradicato dal diritto statale.

Nel solco del globalismo giuridico, i diritti divenivano dunque a-statali, slegati dalla cittadinanza statale e ancorati, kantianamente, a una cittadinanza cosmopolitica il cui statuto veniva scolpito nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che, per la prima volta nella storia dell’umanità, ricordava Antonio Cassese sempre ne I diritti umani oggi, metteva a disposizione di «tutti i Paesi del mondo, anche quelli che non sono passati attraverso il lungo percorso storico di formazione dello Stato liberal-democratico moderno […], un codice internazionale per decidere come comportarsi e come giudicare gli altri».

Anche a livello politico, ovviamente, la ricerca delle condizioni che potrebbero favorire la pace tra i popoli e gli Stati non era un tema nuovo quando vennero costituite le Nazioni Unite. Carattere distintivo, però, del secondo dopoguerra è stato quello di fondere insieme pace e diritti, nel tentativo non solo di affermare la necessità di evitare i conflitti tra gli Stati, ma di definire un percorso di costruzione della pace che potesse passare dal riconoscimento dei diritti: Peace through Rights, Legal Rights, potremmo dire, parafrasando il Kelsen di Peace through Law (1944).

Un legame così stretto, quello tra pace e diritti, da divenire la pace stessa un «sacro diritto» dei popoli, solennemente proclamato dalla Dichiarazione sul Diritto dei Popoli alla Pace adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel novembre del 1984.

Il quid novi della comunità internazionale organizzata intorno al “modello delle Nazioni Unite”, dunque, era proprio quel legame stretto, strettissimo, tra pace e diritti, scolpito nella Carta di San Francisco e nella Dichiarazione universale. Questa, in particolare, per certi versi, è definibile come il “manifesto assiologico” delle Nazione Unite, ciò che distingue specificatamente il modello di organizzazione della comunità internazionale delle Nazione Unite da quello disegnato dalle potenze vincitrici del Primo conflitto mondiale, a Versailles, nel 1919, quando venne istituita la Società delle Nazioni.

È sufficiente contrapporre il “detto” della Carta di San Francisco con il “non detto” del Patto istitutivo della Società delle Nazioni per accorgersi della centralità dei diritti nel preambolo introduttivo della Carta di San Francisco (e poi nell’articolato) e della loro assenza (non marginalità) nel preambolo del Trattato di Versailles.

La Società delle Nazioni, difatti, nasceva con «lo scopo di promuovere la cooperazione internazionale, realizzare la pace e la sicurezza degli Stati» da raggiungersi attraverso «l’impegno di non ricorrere in dati casi alle armi», «lo stabilimento di rapporti palesi, giusti e onorevoli fra le Nazioni»; «il fermo riconoscimento delle regole del diritto internazionale come norme effettive di condotta fra i Governi»; «l’osservanza della giustizia e il rispetto scrupoloso di ogni trattato nelle relazioni reciproche dei popoli civili».

La Società delle Nazioni, dunque, intendeva porre le basi per la coesistenza pacifica tra gli Stati della comunità internazionale, individuando spazi strutturali di dialogo tra gli Stati nell’ottica di superare il sostanziale isolamento nel quale si trovavano gli Stati-monadi nel modello di organizzazione della comunità internazionale definito “vestfaliano”, stato-centrico appunto, emerso dai Trattati di Pace di Westfalia del 1648, a conclusione della guerra dei trent’anni.

Le Nazioni Unite, invece, nascono riallacciandosi all’esperienza (poi fallimentare) della Società delle Nazioni, aggiungendovi, però, un orizzonte normativo più complesso. Tale orizzonte non si limitava «alle regole del diritto internazionale» (come recitava il preambolo della Patto istitutivo della Società delle Nazioni), ma si spingeva oltre, accarezzando l’idea di una comunità ordinata dal diritto internazionale ma legata dalla fede (faith) verso i diritti fondamentali dell’uomo.

Una fede che non era scontata. Non solo in considerazione del «disconoscimento e il disprezzo dei diritti» che avevano generato «atti di barbarie» offensivi della «coscienza dell’umanità» (si può leggere in questi passaggi del preambolo introduttivo della Dichiarazione universale un richiamo alla Shoah), ma anche in considerazione del fatto che il linguaggio normativo dei diritti era, ancora negli anni Quaranta del Novecento e poi anche sempre meno nei decenni successivi (almeno sino alla Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sui diritti umani di Vienna del 1993), un linguaggio culturalmente ben definito, marchiato proprio della tradizione filosofico-giuridica europea e occidentale.

Un linguaggio normativo la cui trasformazione in lingua franca delle relazioni e del diritto internazionali non era scontata, essendo, invece, i diritti, ricordava sempre la Dichiarazione universale, «un ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le nazioni».

Viene così a delinearsi, nella Dichiarazione universale, un legame tra pace e diritti che non solo consegnava alle Nazioni Unite il compito di farsi “vedetta” di pace, ma affidava «ad ogni individuo ed ogni organo della società avendo costantemente presente questa Dichiarazione [Universale, n.d.r.]» il compito di «promuovere con l’insegnamento e l’educazione (teaching and education) il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne l’universale ed effettivo riconoscimento».

Si tratta di uno dei passaggi forse meno citati del preambolo introduttivo della Dichiarazione Universale, ma tra quelli più significativi perché emblematicamente a ogni singolo individuo viene affidato il compito di farsi “vedetta” di pace, tramite il rafforzamento della cultura dei diritti.

Un passaggio che svela la necessità che la pace, sempre per il tramite del rispetto dei diritti, venga promossa dal basso, quotidianamente, dalla società civile, nella società civile, tramite l’educazione, la formazione, l’istruzione nelle scuole e nelle università.

In quest’ottica, la pace non è ‘imposta’ ma ‘composta’. Non è data ma costruita. Non è qualcosa di lontano dalla quotidianità di ogni singolo individuo, ma qualcosa di molto vicino. La pace, dunque, si può più facilmente raggiungere se si rafforza la cultura dei diritti. Tale percorso, per giunta, non va a esclusivo appannaggio degli Stati (come invece tradizionalmente accadeva sino alla fine della Seconda Guerra Mondiale), ma coinvolge tutte e tutti all’interno della società civile, partendo dai singoli cittadini ognuno dei quali è chiamato a farsi costruttore di pace promuovendo i diritti: non solo i suoi diritti, ma anche (e soprattutto) i diritti degli altri.

La pace, così intesa, dunque, non è astratta ma è concreta e si lega, oltreché ai diritti, anche alla democrazia. Norberto Bobbio, tra i filosofi novecenteschi che più hanno riflettuto su democrazia e pace, dedicava l’introduzione del suo celebre libello L’età dei diritti (1990) proprio al legame tra diritti, democrazia e pace: «Diritti dell’uomo, democrazia e pace sono tre momenti necessari dello stesso movimento storico: senza diritti dell’uomo riconosciuti e protetti non c’è democrazia; senza democrazia non ci sono le condizioni minime per la soluzione pacifica dei conflitti».

La pace va costruita, dunque, rafforzando i diritti, i diritti umani, universali, perché, concludeva Bobbio, «ci sarà pace stabile, una pace che non ha la guerra come alternativa, solo quando vi saranno cittadini non più soltanto di questo o quello Stato, ma del mondo».

 

Attilio Pisanò è Professore associato di Filosofia del Diritto e di Teoria e Pratica dei Diritti umani presso il Diprtimento di Scienze Giuridiche dell’Università del Salento. È referente di UniSalento per la Rete delle Università per la pace (RUNIPACE). Email: attilio.pisano@unisalento.it.