domenica, Dicembre 7, 2025
ConflittiCultura

“La storia non ci perdonerà”. 1300 universitari scrivono ai rettori israeliani

 

di Chiara Salonia

 

Il movimento per l’interruzione dei rapporti con le università israeliane e le risposte istituzionali

Fin dai primi mesi dell’operazione militare contro Gaza, lanciata da Israele in risposta agli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023, si è dibattuto molto in Italia e in altri paesi occidentali sulle complicità delle università israeliane nelle violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario imputate a Israele: dall’occupazione del Territorio Palestinese al regime di apartheid, fino ai gravi crimini in corso ai danni della popolazione civile di Gaza, da più parti definiti come genocidio.

Il dibattito è stato alimentato dai movimenti studenteschi per la liberazione della Palestina, che hanno precocemente individuato nelle università un attore chiave nel progetto coloniale portato avanti da Israele, chiedendo agli organi di governo dei rispettivi atenei di interrompere o sospendere i rapporti in essere con gli atenei e i centri di ricerca israeliani.

La mobilitazione ha coinvolto anche numerosi docenti e ricercatori di varie università ed enti di ricerca italiani, che hanno ripetutamente chiesto al governo la sospensione del bando per progetti di cooperazione scientifica e tecnologica tra Italia e Israele. “Sappiamo che il bando è solo la punta dell’iceberg – hanno scritto i promotori dell’iniziativa – del più ampio problema delle commistioni tra università, industria bellica e complicità con il sistema di occupazione e apartheid in Palestina”.

Il dibattito interessa da più di un anno anche l’Università di Pisa che, lo scorso 24 luglio, ha interrotto due accordi quadro con le Università israeliane Reichman ed Hebrew, alla luce dei loro stretti legami con l’esercito israeliano e il sostegno fornito pubblicamente alle azioni del governo.

La delibera del Consiglio di amministrazione è arrivata a seguito di quanto deliberato dal Senato accademico, accogliendo le istanze provenienti dalla comunità universitaria e applicando il nuovo Statuto che riconosce la pace come valore fondamentale e “non sostiene e non partecipa ad alcuna attività finalizzata alla produzione, allo sviluppo e al perfezionamento di armi e sistemi d’arma da guerra”.

Il Rettore dell’Università di Pisa, Riccardo Zucchi, ha dichiarato che “la decisione non intende in alcun modo compromettere i legami scientifici, culturali e personali tra ricercatori e studenti: non esprime una posizione pregiudizialmente contraria alla cooperazione accademica con le università israeliane ma si configura come un atto di responsabilità etica e civile, reso necessario da quella che si presenta oggettivamente come una forma di pulizia etnica in corso”.

A sostegno dell’interruzione dei rapporti col sistema universitario israeliano nel suo complesso, il movimento degli studenti e delle studentesse per la Palestina dell’Università di Pisa aveva presentato già al Senato accademico di giugno 2024 un documentato rapporto.

Il dibattito è in corso anche a livello di Unione Europea. Israele ha una lunga storia di collaborazione nel campo della ricerca scientifica e tecnologica dell’UE, che affonda le radici nell’Accordo di Associazione firmato nel 1995 ed entrato in vigore nel 2000. Nel 2021 Israele ha aderito ufficialmente a Horizon Europe, il principale programma europeo per la ricerca e l’innovazione, diventando un paese associato con pieno accesso ai fondi e ai progetti, al pari degli Stati membri dell’UE. Secondo gli ultimi aggiornamenti, università ed enti di ricerca israeliani hanno finora ricevuto circa 855 milioni di euro in finanziamenti dall’Unione Europea attraverso il programma Horizon.

Tuttavia, nelle scorse settimane la Commissione europea ha proposto una sospensione parziale della partecipazione israeliana al programma quadro della ricerca. La misura proposta, motivata dalla revisione dell’articolo 2 dell’Accordo di Associazione – che impone il rispetto dei diritti umani come condizione essenziale – riguarda esclusivamente le attività finanziate dal Consiglio Europeo per l’Innovazione (EIC), in particolare l’Accelerator che sostiene start-up e piccole imprese attive in settori tecnologici sensibili come droni, intelligenza artificiale e cybersecurity. La questione vede oggi contrapposti governi e università dei diversi paesi dell’Unione.

 

Il ruolo delle università nel progetto coloniale israeliano

L’idea di un “boicottaggio accademico e culturale” delle istituzioni universitarie israeliane non è nuova. L’idea è nata nel 2004, dalla consapevolezza che atenei e centri di ricerca svolgessero un ruolo chiave nella pianificazione, nell’attuazione e nella giustificazione delle politiche di occupazione e di apartheid portate avanti da Israele. L’interruzione dei rapporti e delle collaborazioni non è mai stato un fine in sé, né ha mai costituito un ostacolo alla prosecuzione di rapporti con singoli studiosi e studiose, ma è stata concepita come una mossa strategica volta a responsabilizzare l’accademia israeliana in quanto parte di un regime oppressivo e illegale.

Nel 2005 questa mobilitazione è diventata parte di una campagna internazionale più ampia di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS), finalizzata a ottenere il rispetto del diritto internazionale e delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite da parte di Israele, ossia in concreto la fine dell’occupazione e dello sfruttamento economico del Territorio Palestinese Occupato, la piena parità di diritti tra Israeliani e Palestinesi, il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese e il diritto al ritorno a tutti/e coloro che sono stati espulsi o costretti a lasciare la Palestina nel corso delle varie guerre condotte da Israele a partire dal 1948.

La campagna BDS, accusata dai detrattori di essere animata da antisemitismo e di contribuire ad alimentarlo, può costituire invece un esempio di come la cittadinanza possa organizzarsi dal basso, in forme rigorosamente nonviolente, per responsabilizzare istituzioni, aziende, consumatori e risparmiatori al fine di promuovere la giustizia e il rispetto della legalità internazionale.

Il boicottaggio accademico e culturale si fonda anche su studi accademici. In questo quadro, merita particolare attenzione il lavoro dell’antropologa israeliana Maya Wind, autrice del volume Torri d’avorio e d’acciaio. Come le università israeliane sostengono l’apartheid del popolo palestinese. Sfruttando la sua posizione privilegiata di “cittadina bianca ebrea israeliana”, come lei stessa si definisce, Wind ha avuto accesso a una vasta quantità di materiali redatti unicamente in ebraico, gran parte dei quali inaccessibili al di fuori di Israele. La studiosa ha raccolto nel corso degli anni numerose testimonianze dirette e ha assistito personalmente a numerosi episodi di violenza.

Questa ricerca sfida apertamente la percezione occidentale delle università israeliane come istituzioni liberali, aperte e pluraliste. Secondo l’autrice soprattutto “nei territori sotto il controllo israeliano, i campus universitari non sono spazi sicuri per gli studenti e le studentesse palestinesi. Le università israeliane non sono indipendenti dagli apparati di sicurezza ma, piuttosto, sono un’estensione della violenza da esso esercitata”. 

Le ricerche di Maya Wind mettono in luce il contributo che specifiche discipline accademiche hanno dato all’occupazione e alla colonizzazione della Palestina. L’archeologia, le scienze giuridiche e gli studi mediorientali in particolare hanno messo i propri saperi al servizio dello Stato di Israele e del suo progetto coloniale. Così, ad esempio, gli studi di archeologia “biblica” hanno cercato sistematicamente di minimizzare o cancellare le tracce fisiche che testimoniano la presenza araba e musulmana nella Palestina storica, fabbricando “prove” a supporto di una presenza ebraica risalente e ininterrotta nel tempo.

Gli studi giuridici, invece, hanno elaborato dottrine per indebolire o sospendere l’applicazione del diritto internazionale umanitario, sostenendo che Israele fosse impegnato in un “conflitto armato senza guerra” contro i palestinesi: una situazione sui generis alla quale non si sarebbero potute applicare le norme vigenti in materia di conflitti armati, autorizzando di fatto la commissione di omicidi extragiudiziali, torture e crimini di guerra da parte dell’esercito israeliano.

Il ruolo delle università a servizio del progetto coloniale israeliano si manifesta anche attraverso la loro presenza fisica sul territorio, sorgendo in edifici o su terreni espropriati ai palestinesi. Ma, soprattutto, si concretizza in uno stretto legame con il complesso militare-industriale, attraverso corsi rivolti all’esercito e ricerche finalizzate a migliorare i sistemi d’arma e di sorveglianza, testate nel corso degli anni sulla popolazione palestinese del Territorio Occupato.

 

Cosa possono fare e cosa stanno facendo le università israeliane

La critica di Maya Wind al ruolo strategico del sistema universitario israeliano non è fine a se stessa: la studiosa afferma che “la realtà potrebbe e dovrebbe essere diversa”. Proprio la campagna per il boicottaggio accademico e culturale, se intesa correttamente, offre alle università israeliane la via per cambiare rotta, interrogandosi sulla complicità delle proprie istituzioni con i crimini dell’occupazione, dell’apartheid e ora del genocidio.

“Le università – scrive nell’Epilogo – potrebbero smettere di negare che i loro campus si trovino su terre palestinesi espropriate e cessare di rendersi strumento di giudaizzazione, colonizzazione e spossessamento. Potrebbero porre fine ai programmi di ricerca che mettono le competenze dei loro ricercatori al servizio delle violazioni sistematiche del diritto internazionale da parte del governo militare dei Territori occupati. I dipartimenti potrebbero chiudere i corsi di laurea dedicati all’esercito, alla polizia e allo Shin Bet [il servizio segreto interno israeliano], la cui formazione accademica non serve altro che ad affinare le procedure illegali di detenzione, interrogazione e tortura dei palestinesi. I laboratori potrebbero recidere i propri legami con il comparto militare israeliano e non dedicare più le proprie risorse e ricerche alla progettazione di tecnologie e armi che vengono testate sul campo contro i palestinesi sotto occupazione per poi essere esportate in tutto il mondo”.

In questa prospettiva, “gli atenei potrebbero sottrarsi al ruolo di struttura chiave nella repressione del movimento di liberazione palestinese, trasformandosi invece in porti sicuri per la libera esplorazione accademica e il dibattito tra tutta la comunità studentesca”.

Nel pieno del genocidio questo cambiamento nelle università israeliane, auspicato da Maya Wind, sta iniziando ad avvenire. Tra inizio giugno scorso, oltre 1300 tra accademici e amministrativi israeliani hanno firmato una lettera aperta promossa dal “Black Flag” Action Group per chiedere ai vertici delle università di prendere apertamente posizione contro il governo e contro la guerra a Gaza.

In Israele, l’espressione “bandiera nera” evoca un ordine illegale o palesemente immorale, che i soldati devono rifiutarsi di obbedire. Ha origine all’indomani del massacro di Kfar Qassim del 1956, quando la polizia di frontiera israeliana sparò e uccise 49 cittadini palestinesi di Israele per aver violato un coprifuoco improvviso. In una sentenza storica, la Corte Suprema israeliana ha affermato che alcuni ordini sono così chiaramente illegali che su di essi “sventola la bandiera nera dell’illegalità” e quindi nessun soldato può giustificare l’obbedienza. I promotori dell’appello hanno utilizzato questo nome per affermare “che una bandiera nera sventola su ciò che Israele sta facendo a Gaza”.

In ragione della sua importanza e della sua valenza, innanzitutto simbolica, pubblichiamo la lettera in traduzione italiana per mostrare come dentro le università israeliane si stiano aprendo spazi di autocritica e di cambiamento.

 

Appello urgente ai rettori delle università israeliane: il testo integrale

Noi, membri del personale accademico e amministrativo delle istituzioni di istruzione superiore in Israele, chiediamo ai Rettori universitari di agire immediatamente per mobilitare tutto il peso del mondo accademico israeliano per fermare la guerra israeliana a Gaza.

Le istituzioni di istruzione superiore israeliane svolgono un ruolo centrale nella lotta contro la revisione giudiziaria [riferimento al tentativo di riforma del sistema giudiziario portato avanti dal Primo ministro Netanyahu, ndt]. È proprio in questo contesto che il loro silenzio di fronte all’uccisione, alla fame e alla distruzione a Gaza, e di fronte alla completa eliminazione del sistema educativo, delle sue persone e delle sue strutture, è così sorprendente. 

Da quando Israele ha violato il cessate il fuoco il 18 marzo, quasi 3.000 persone sono state uccise a Gaza. La maggior parte di esse erano civili. Dall’inizio della guerra, almeno 53.000 persone sono state uccise a Gaza, tra cui almeno 15.000 bambini e 41 ostaggi israeliani.

Allo stesso tempo, molti organismi internazionali stanno lanciando l’allarme di una grave carestia – risultato di una politica governativa israeliana intenzionale e apertamente dichiarata – così come della trasformazione di Gaza in un’area inabitabile per gli esseri umani. Israele continua a bombardare ospedali, scuole e altre istituzioni. 

Tra gli obiettivi dichiarati della guerra, come definiti nelle disposizioni dell’attuale operazione militare “I Carri di Gedeone”, vi è la concentrazione e lo sfollamento della popolazione. Questa è una raccapricciante successione di crimini di guerra e persino di crimini contro l’umanità, tutti di nostra creazione. 

La storia non ci perdonerà. Come accademici, riconosciamo il nostro ruolo in questi crimini. Sono le società umane, non solo i governi, a commettere crimini contro l’umanità. Alcuni lo fanno per mezzo della violenza diretta. Altri lo fanno giustificando i crimini prima e dopo i fatti, facendo tacere le voci all’interno delle aule del sapere. È questo vincolo del silenzio che permette a crimini chiaramente evidenti di continuare senza sosta, impedendo di superare le barriere del riconoscimento. 

Non possiamo affermare che non sapevamo. Siamo stati in silenzio per troppo tempo. Per il bene delle vite degli innocenti e della sicurezza di tutti gli abitanti di questa terra, palestinesi ed ebrei; per il bene della restituzione degli ostaggi; se non chiediamo di fermare immediatamente la guerra, la storia non ci perdonerà. Noi non perdoneremo noi stessi. 

È nostro dovere agire per fermare il massacro; è nostro dovere salvare vite umane. È nostro dovere salvare ciò che può ancora essere salvato del futuro di questa terra. Le istituzioni di istruzione superiore in Israele devono alzare la voce, rivolgersi ai loro studenti e al pubblico in generale, guardare direttamente in faccia la realtà e chiamare le cose per quello che sono: azioni indicibili compiute in nostro nome, con le nostre stesse mani, che finiranno per distruggere l’istruzione superiore in Israele e l’intera società dall’interno.

 

La lettera di cinque rettori al governo e la risposta del ministro dell’Istruzione

A distanza di un mese dalla pubblicazione dell’appello, i rettori di cinque università israeliane hanno inviato una lettera al Primo ministro Netanyahu, chiedendo un suo intervento urgente per risolvere la “grave crisi alimentare a Gaza”. La crisi, si legge nella lettera, sta “causando danni immensi ai non combattenti, compresi bambini e neonati”. “Insieme a un numero crescente di cittadini, siamo sconvolti dalle immagini che arrivano da Gaza, in particolare dai bambini che muoiono ogni giorno di fame e malattie”, si legge ancora nella lettera. I rettori dell’Università di Tel Aviv, dell’Università Ebraica, dell’Università Aperta, dell’Istituto Weizmann di Scienze e del Technion hanno dunque esortato l’esercito a “intensificare gli sforzi per risolvere la crisi umanitaria”.

Nonostante i rettori siano ben lontani dall’attribuire direttamente all’esercito israeliano la responsabilità per la carestia a Gaza, come denunciato dalle Nazioni Unite e da numerose organizzazioni umanitarie, la loro iniziativa è stata duramente attaccata dal Ministro dell’Istruzione per aver “aiutato il nemico in tempo di guerra”. Il Ministro ha respinto con fermezza l’affermazione secondo cui Israele starebbe “affamando” la popolazione di Gaza, ribadendo la visione ufficiale del governo: “Lo Stato di Israele sta combattendo una brutale organizzazione terroristica, con la partecipazione di collaboratori civili [probabile riferimento alla Gaza Humanitarian Foundation, nda], garantendo al contempo l’ingresso degli aiuti umanitari, di cui i terroristi spesso si appropriano”.

Il Ministro ha avvertito i rettori che dichiarazioni di questo tipo, in particolare se provenienti da accademici israeliani, rischiano di fornire “una copertura morale al terrorismo e un incoraggiamento al nemico in tempo di guerra”, accusando la loro lettera di essere “completamente in linea con la narrativa distorta e ingannevole ripetuta dai nemici di Israele e del popolo ebraico”. Ribadendo che quello israeliano è l’esercito più morale del mondo”, il membro del governo ha sollecitato i rettori a ritirare la loro lettera e a sostenere “lo Stato di Israele, sta affrontando una grande prova morale”.

 

Chiara Salonia è studentessa del corso di laurea in “Scienze per la Pace” dell’Università di Pisa. Attualmente collabora con il Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace” e con “Scienza&Pace Magazine”, svolgendovi il proprio tirocinio.