Servizio Civile: come sono cambiate le ragioni di una scelta
di Francesco Spagnolo
All’inizio del suo bel testo su “L’obiezione di coscienza nell’Italia repubblicana” (Pacini Editore, 2020), Marco Labbate cita il film “Totò Le Mokò”, uscito nelle sale il 20 dicembre 1949, nel quale il celebre comico napoletano “divenuto, per equivoco, estemporaneo capo di una bandi di banditi” ad Algeri in uno sketch amoroso con l’avventuriera Viviane si dichiarava “obiettore di coscienza”. “Soltanto un anno prima sarebbe stato impensabile che questa battuta finisse in una pellicola di cassetta. ‘Obiezione di coscienza’ era un’espressione ‘esotica’, come l’aveva definita Guido Ceronetti, scrivendo a Capitini”, commenta Labbate, che poi spiega il motivo di tanta notorietà: la scelta di obiettare al servizio militare fatta un anno prima, a novembre del 1948, dal giovane Pietro Pinna.
Come sappiamo, sarà dalla dichiarazione di Pinna che si svilupperà quel lungo processo che porterà il 15 dicembre 1972 all’entrata in vigore della legge n. 772, la prima in Italia a concedere la possibilità dell’obiezione al servizio militare e a far nascere un servizio civile “sostitutivo” di quello militare.
Anni dopo sarà lo stesso Pinna a raccontare in “La mia obiezione di coscienza” (Movimento Nonviolento, 1994) i motivi e i passi che portarono a quel gesto e a ricostruire tutta la sua vicenda umana e processuale, spiegando nell’introduzione che lo faceva per l’utilità degli obiettori di coscienza attuali “di confrontare l’animo e gli intenti che li induce oggi a questa scelta, con la ragion d’essere, i fondamenti e i propositi dell’obiezione alle sue origini, per considerare se non vi sia eventualmente qualcosa di essenziale in quel suo primo empito e destinazione, che ora offuscato, debba essere ripreso, valorizzato e incrementato”.
A quasi 50 anni da quella legge, dei quali 20 di servizio civile nazionale, e 5 di servizio civile “universale”, potremmo riprendere le stesse considerazioni di Pinna e chiederci se e cosa si sia eventualmente offuscato, e debba essere ripreso, valorizzato e incrementato della scelta di svolgere il servizio civile. “Questo istituto ha saputo mantenere la sua identità fondata sulla difesa non armata e nonviolenta della Patria, non solo negli intenti di legge, ma soprattutto nella percezione di chi lo svolge e in quella sociale più ampia, oppure essa è irrimediabilmente cambiata o perduta?”.
Il servizio civile nella percezione degli obiettori di coscienza
Per provare a rispondere a queste domande, occorre partire dal confronto – per quanto possibile – tra l’esperienza precedente del servizio civile obbligatorio, con quello che a partire dal 2001 è diventato “volontario”. Per tornare al nostro specifico: in cosa erano differenti le motivazioni di un giovane che era maggiorenne o più negli anni ’80 e ’90 da quelle di un millennial o delle “generazioni X”, ossia da coloro che sono diventati maggiorenni dopo il 2000 e non si sono più trovati con l’obbligo di un servizio militare o civile? Quali erano i significati che venivano dati all’esperienza e come sono cambiati?
Uno dei possibili punti di partenza per questo confronto ci viene dalla ricerca condotta da Caritas Italiana nel 1990 sugli obiettori attivi negli anni precedenti e contenuta nel libro “Dopo l’obiezione. Le scelte di vita degli obiettori in servizio presso la Caritas” (La Meridiana, 1992), che a questo tema, “perché obiettore”, dedica un intero capitolo, il settimo.
Nelle risposte dei giovani obiettori Caritas dell’epoca “fanno capo due dimensioni da sempre presenti nella sensibilità dei cattolici”, annotano gli autori. “Da una parte, infatti, viene posto in rilievo il rifiuto della violenza: il 56,6% degli intervistati sceglie (sommando le risposte date come prima, seconda o terza) l’item ‘Perché come cristiano rifiuto ogni forma di violenza e i mezzi/strumenti che la armano’. Da notare che quasi sempre (40% del totale generale) questa risposta viene indicata per prima e dunque risulta quella nettamente prevalente”. “L’altro versante toccato dal campione – prosegue il testo a pagina 63 – è quello della disponibilità al servizio e del concreto essere attivi per gli altri. Il 58,6% indica (sempre sommando le prime, seconde e terze scelte) l’item ‘perché voglio impiegare il mio tempo in un servizio socialmente utile’. Da notare che in questo caso le seconde e terze scelte sono più numerose delle prime, quasi a indicare che questo aspetto viene posto in secondo piano rispetto a quello che presenta contenuti di valore”. Per la cronaca un 34,1% dichiarava “un diretto riferimento al messaggio della nonviolenza (‘Perché ritengo che la nonviolenza sia l’unico metodo per difendere la dignità umana”). Gli altri aspetti avevano, invece, percentuali molto inferiori.
“Le motivazioni addotte dagli ex obiettori coinvolti nell’indagine – concludono i curatori della ricerca Caritas a pag. 73 – mostrano un felice completamento tra le due dimensioni fondanti dell’obiezione di coscienza: quella ‘protestataria’, del rifiuto di sottostare alla legge ingiusta e quella ‘positiva’, di disponibilità a servizio degli altri”. “L’atto primario da cui prende spunto l’obiezione – proseguono – è sempre un atto di ripulsa (il termine viene proprio dal latino obicere, ‘gettare contro’) verso l’ingiustizia. Nel caso specifico esso si accompagna però al pieno riconoscimento del cittadino di offrire il proprio contributo di impegno personale, di fatica, di dedizione a quella ‘difesa’ della Patria cui la Costituzione italiana chiama tutti. Nasce qui l’impegno per il servizio civile a favore dei più poveri.
Un secondo elemento che emerge dall’analisi delle risposte degli obiettori circa la motivazione dell’obiezione di coscienza è l’importanza dell’ambiente in cui vive il giovane: la famiglia, anche se non pienamente compartecipe, è comunque uno ‘sfondo’ che non ostacola l’obiettore, mentre la figura di un amico che consiglia o, addirittura, di un sacerdote che incoraggia sembrano determinanti nella decisione da prendere”. “Tutto questo – conclude il testo – non fa che confermare il fatto che l’obiezione di coscienza viene veramente vissuta come ‘decisione forte’, da prendere in modo meditato e ponderato, in piena coscienza e in profonda convinzione. È un gesto che non si improvvisa né viene guidato da mere opportunità utilitaristiche. Così l’obiezione di coscienza acquista il suo significato”.
Appena 10 anni dopo però, un’altra indagine simile (non pubblicata integralmente) condotta sempre da Caritas Italiana nella primavera del 2001, quindi ancora a ridosso del periodo del servizio civile “obbligatorio”, farà emergere come “gli elementi che i giovani sembrano combinare e attorno ai quali essi costruiscono un senso al servizio civile sono tre, ossia: la disponibilità generica al servizio ed essere utile a chi è in difficoltà, la richiesta di compatibilità con i propri progetti, in particolare lo studio, la ricerca di un ente autorevole che ispiri fiducia. Sembrano costituire tre elementi quasi autonomi e autosufficienti, vuoi dalla credenza religiosa vuoi dal credo politico”. E poi in conclusione, segnando già un primo cambiamento rispetto ai risultati del decennio precedente: “Il servizio civile è stato, per gli intervistati, un’esperienza di formazione umana (42%), un modo per sostenere chi è nel bisogno (21%) e una testimonianza di una scelta nonviolenta (13%); solo il 7% lo ritiene una testimonianza della propria fede, una conseguenza del proprio essere credenti. Le modalità ‘di opposizione’ (‘opposizione al servizio militare’, ‘una scelta diversa dal solito militare’) mettono insieme l’8% degli intervistati”.
Uno sguardo sulle motivazioni dei giovani in quegli anni e sui significati che riconoscevano al servizio civile obbligatorio ci vengono anche dalla ricerca condotta dal professor Maurizio Ambrosini con il Centro Sociale Ambrosiano, presentata nel febbraio 2000 durante il Convegno “Servizio civile. Una risorsa nascosta” e citata in “Giovani e servizio civile. Uno strumento di cittadinanza sociale” (FrancoAngeli, 2004). Dalla ricerca emergono chiaramente i cambi di prospettiva dei giovani già indicati da Caritas: “la possibilità di acquisire e sperimentare forme di attività successivamente spendibili nel mercato del lavoro: il servizio civile può rappresentare un’occasione preziosa di tirocinio sul campo, destinata a influire positivamente sull’inserimento occupazionale o comunque a entrare dignitosamente nel curriculum del giovane”, ma anche “la coltivazione di una coscienza civica di senso di appartenenza ad una comunità più ampia, di una solidarietà sociale non soltanto emotiva, di una cittadinanza attiva capace di proiettarsi nella vita adulta; se il termine non è troppo impegnativo, di una identità nazionale intesa in un senso dinamico, aperto, solidale”.
Potremmo citare altre ricerche, ma possiamo segnare un primo punto nella nostra riflessione: al di là di quanto possiamo ricordare, anche in senso nostalgico, le motivazioni e i significati che erano sottesi alla scelta dell’obiezione di coscienza e alla pratica del servizio civile obbligatorio non sono mai state univoche e sono cambiate nel corso degli anni. Non sono quindi pensabili come un blocco unico valoriale e di significato, ma come un insieme cangiante e a volte anche contraddittorio, legato all’evoluzione stessa della condizione dei giovani in quegli anni.
Il servizio civile nella scelta dei volontari e delle volontarie
Se quindi già nell’evoluzione stessa del servizio civile obbligatorio si notano dei cambiamenti, un secondo salto più grande avviene nel 2001 con il passaggio a quello “nazionale”, che vede tra l’altro anche l’ingresso fondamentale in questa esperienza delle donne. Le ricerche più significative in questo senso saranno quelle successive al passaggio definitivo alla volontarietà, con la sospensione della leva obbligatoria a partire dal 1 luglio 2005.
Lo spiegano bene Alessandro Castegnaro e Walter Nanni in “Il nuovo servizio civile. Esperienze e valutazioni dalla voce dei protagonisti” (Fondazione Zancan, 2004): “Le principali motivazioni addotte [dalle ragazze intervistate] sono due: la possibilità di crescita umana e quella di vivere un’esperienza nuova. Le spinte di carattere più esplicitamente ideale contano, ma non tanto quanto le precedenti. Le motivazioni di carattere professionale (arricchimento professionale; verifica della correttezza del proprio percorso professionale/di studio, possibilità di trovare più facilmente un lavoro al termine), come quella di avere un reddito pur modesto contano secondariamente. La possibilità di testimoniare la propria fede religiosa è all’ultimo posto (9°) tra le motivazioni indicate per i volontari conosciuti. Rimane al 7° per coloro che fanno parte di gruppi di ispirazione religiosa”. “Come le ricerche sui giovani hanno ampiamente dimostrato – commentano i due ricercatori – nelle motivazioni all’agire contano cioè gli aspetti legati al soggetto nella sua dimensione personale e umana, più che in quella più direttamente normativa ed ideale”. Da notare ancora una volta l’assenza di ogni riferimento alla “difesa della Patria” e alla “nonviolenza”, presente invece nelle ricerche di appena 15 anni prima.
In “Impegno e passione. Il modello del Servizio Civile in Liguria” (Bonanno Editore, 2009) Anna Cossetta, citando un precedente lavoro di Massimo Ambrosini e Roberta Biolcati del 2008 svolto proprio per l’Ufficio nazionale del Servizio Civile, definirà quelli che sono ancora oggi i cinque principali significati “riconosciuti” al servizio civile:
1. formativo, poiché accresce e completa le competenze e le conoscenze del volontario e della volontaria, sia in termini personali sia sotto l’aspetto del capitale sociale, professionale e civico dell’individuo;
2. occupazionale, avvertito in maniera particolare nelle aree più povere d’Italia dal punto di vista dell’offerta lavorativa;
3. solidaristico e di diffusione di solidarietà, quando si pone l’enfasi sui comportamenti pro-sociali, piuttosto che sulla formazione dell’individuo;
4. di servizio e di sviluppo di reti e legami, nonché di fiducia e reciprocità, aspetto particolarmente sentito là dove si vive la mancanza di un welfare adeguato;
5. di cittadinanza attiva, “che – scrive Cossetta – potremmo definire come l’aspetto più conforme allo spirito ‘originale’ del servizio civile, perché risponde alla specifica richiesta di servire e difendere la patria sulla base dei valori costituzionali della pace, della solidarietà e della cooperazione”.
Le ricerche più recenti hanno evidenziato l’ulteriore prevalere, negli ultimi anni, tra i giovani di due di questi significati. Ad esempio Liliana Leone in “Giovani verso l’occupazione. Valutazione d’impatto del Servizio Civile nella cooperazione sociale” (FrancoAngeli, 2017), evidenzia come le motivazioni maggiormente espresse dai/dalle giovani che svolgono il servizio civile siano “quella di aumentare le probabilità di ingresso nel mercato del lavoro e quella di svolgere attività improntate da valori solidaristici”. Inoltre “gli ex volontari coinvolti nello studio hanno messo sistematicamente in evidenza il fatto come il servizio civile abbia rappresentato un’esperienza speciale che ha contribuito in modo rilevante alla propria crescita come persona, al contempo rafforzando il senso di cittadinanza e la volontà di proseguire il proprio impegno in attività pro-sociali a favore della collettività. Il servizio civile ha favorito la maturazione sul piano delle competenze emotivo-relazionali e ha aiutato a individuare le proprie priorità nelle scelte di vita, permettendo di sperimentare i propri limiti e potenzialità”.
Il servizio civile di oggi tra identità smarrita e “realismo” da praticare
Come appare dunque evidente da questa pur veloce ricostruzione, non ci deve stupire che oggi tra i significati meno riconosciuti al servizio civile non ci sia quello della “difesa non armata e nonviolenta della Patria”, come pure sarebbe in base all’art. 2 del D.Lgs. 40/2017. Un po’ come avvenne per la scelta di Pinna e la rilevanza pubblica che ebbe l’obiezione di coscienza, in maniera simmetrica ma contraria oggi le prassi del servizio civile hanno portato verso uno slittamento, lento ma inesorabile, verso altri significati praticati. Ce lo confermano quello che dicono gli stessi giovani al momento della loro candidatura al Bando e l’interpretazione che ne dà oggi il Dipartimento per le Politiche giovanili e il Servizio Civile Universale, che per la 2° Giornata nazionale del SCU ha individuato 7 aree di discussione su giovani e transizione ecologica, transizione digitale, sport, lotta alla pandemia, Europa, terzo settore e mercato del lavoro, nessuna riferita esplicitamente alla “difesa della Patria”.
Dobbiamo partire da qui e prendere atto con realismo di questa situazione: se è esistita un’età d’oro del servizio civile come forma praticata e percepita come tale di “difesa della Patria”, quel periodo è passato. Ma a questo realismo dobbiamo saperne aggiungere un altro più forte e contrario. Credo occorra rimettere in pratica l’intuizione di Aldo Capitini che, come ci ricorda Pasquale Pugliese in “Introduzione alla filosofia della Nonviolenza di Aldo Capitini” (goWare, 2018), non teorizza la nonviolenza e poi la pratica: questa “è prima vissuta come modalità di azione e di cambiamento di singoli e popoli; poi studiata e approfondita teoricamente e di nuovo sperimentata nell’azione, dove torna rinforzata da quelle aggiunte di pensiero. L’insieme di questa elaborazione collettiva ne costituisce il metodo”.
Occorre dunque immaginare prassi per ricentrare il servizio civile nella sua natura di “difesa della Patria”, che non siano solo e soltanto comunicative, per quanto questo sia importante, ma soprattutto agite nell’esperienza di tutti i giorni dei volontari e delle volontarie in SCU e degli enti. Si potrebbe, ad esempio, attuare come forma di attenzione “non armata” la promozione di Banca Etica per l’apertura del conto bancario di accredito del compenso mensile, al posto dell’attuale convenzione con BNL, che risulta ancora oggi nell’elenco delle cosiddette “banche armate”. Dopo la sua abolizione per “spending review” nel 2013, si potrebbe ricostituire il “Comitato per la difesa non armata e nonviolenta”, come luogo di riflessione ed elaborazione di buone pratiche nonviolente nel SCU, oppure valorizzare in tal senso quelle già esistenti, a partire dalla sperimentazione dei Corpi Civili di Pace o le esperienze di formazione generale degli enti svolta in questi anni. Lo stesso “status nonviolento” del giovane operatore volontario potrebbe essere ripensato in questa direzione, riconoscendone e valorizzandone – come è stato fatto durante le fasi più acute della pandemia, soprattutto nel Service civique francese – il ruolo al di là dell’orario di servizio, anche in termini di “benefits”, ma chiedendo allo stesso tempo un impegno di “solidarietà civica” continuativo nella vita quotidiana.
Quello che è certo è che non è più possibile aspettare che un cambiamento avvenga se non sono gli stessi attori del sistema (giovani, enti, istituzioni) che condividono un’idea chiara dell’identità del Servizio Civile Universale, ad assumersi la responsabilità di esso, pena una sempre maggiore snaturamento del servizio civile in generiche azioni di “politica giovanile” o di “politiche attive del lavoro”. Come ci dice Rutger Bregman in “Una nuova storia (non cinica) dell’umanità” (Feltrinelli, 2020) è tempo di essere “realisti”: “Uscite allo scoperto. Abbandonatevi alla vostra natura e donatevi fiducia”.
Francesco Spagnolo è giornalista pubblicista, collabora con “Redattore Sociale” per il quale segue i temi dei giovani e del servizio civile. Obiettore di coscienza nel 1998, da oltre 20 anni si occupa di servizio civile come formatore e progettista. Dal 2005 cura Esseciblog.it, il blog informativo del Tavolo Ecclesiale sul servizio civile.