giovedì, Aprile 18, 2024
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Il ritorno dei Talebani in Afghanistan: intervista a Paolo Cotta-Ramusino

Paolo Cotta-Ramusino, fisico matematico e attivista per la pace, è Segretario generale delle Pugwash Conferences on Science and World Affairs, organizzazione non governativa che ha svolto un ruolo importante negli sforzi di pacificazione dell’Afghanistan dal 2015 a oggi, assistendo nel febbraio 2020 ai negoziati di Doha. Federico Oliveri lo ha intervistato per approfondire il significato e le implicazioni del ritorno al governo dei Talebani, le cause del ritiro statunitense e del fallimento occidentale, le prospettive del paese e il possibile ruolo della comunità internazionale a sostegno del popolo afgano nella nuova e complessa fase che si apre.

 

Lei ha seguito direttamente come ascoltatore, per il Pugwash, i negoziati di Doha che hanno svolto un ruolo importante nella storia recente dell’Afghanistan. Ci può dire, prima di tutto, che cosa è il Pugwash? Che tipo di attività ha svolto, in generale e nel processo di pace afgano?

Il Pugwash è un’organizzazione non governativa che, dal 1957, organizza le Pugwah Conferences on Science and World Affairs. Il nome deriva dalla località in Nuova Scozia, Canada, dove si è svolta la prima riunione, ispirata dal Manifesto diffuso da Bertrand Russell e Albert Einstein nel 1955 per far prendere consapevolezza dei rischi della guerra nucleare e risvegliare la coscienza della nostra “comune umanità” al di là delle divisioni. Fin dalla sua fondazione, ad opera di 22 scienziati provenienti da vari paesi, il Pugwash si è dato la missione di mobilitare la scienza per scongiurare le catastrofi cui l’umanità è sempre più esposta, a causa della proliferazione delle armi nucleari e delle armi di distruzioni di massa. Proprio il riconoscimento di questa missione, ovvero di “ridurre il peso delle armi nucleari nella politica internazionale fino a eliminarle, nel lungo periodo” ha portato l’organizzazione a ricevere il Premio Nobel per la Pace nel 1995.

L’obiettivo di costruire la pace col contributo delle scienze è sempre stato perseguito dal Pugwash attraverso un peculiare metodo di lavoro, improntato alla discussione aperta e all’analisi collettiva dei conflitti in un contesto di rispetto reciproco e di imparzialità. Tale metodo è alla base delle periodiche conferenze generali, dei workshop, dei gruppi di studio, degli altri incontri pubblici che promuoviamo, i cui risultati vengono discussi con o indirizzati poi ai decisori politici.

Con questo spirito abbiamo promosso, dal 2015, un ciclo di non-official meetings a Doha dedicati alla pacificazione dell’Afghanistan. I partecipanti sono stati individuati all’interno dei diversi settori della società afgana ma ciascuno rappresentava soltanto se stesso, nessuna istituzione, organizzazione o gruppo, in modo da poter esprimere liberamente il proprio pensiero e allontanare l’idea che si trattasse di un negoziato. Nonostante le differenze di opinioni, il clima degli incontri è sempre stato cooperativo, costruttivo e amichevole, consentendo la condivisione di alcuni punti importanti: il comune interesse per la fine del conflitto e della violenza; la protezione dei civili; il ritiro di tutte le forze militari straniere dal paese; il superamento della criminalizzazione dei Talebani come condizione utile alla risoluzione del conflitto; il contrasto alla corruzione e alla produzione di droga; la costruzione di un sistema politico aperto a tutte le forze esistenti senza che nessuna pretenda il monopolio del potere; la natura islamica dello Stato afgano ma, al tempo stesso, la distanza radicale dal movimento di estremisti e terroristi che si autoproclama “Stato Islamico”.

Al primo e al secondo incontro con una significativa delegazione di Talebani, rispettivamente il 2-3 maggio 2015 e il 23-24 gennaio 2016, hanno partecipato circa 100 persone. Al terzo incontro, l’8 novembre 2017, hanno partecipato oltre ai Talebani alcuni ex ufficiali dell’esercito ed ex membri dell’amministrazione statunitense: è stato questo l’inizio vero e proprio di una comunicazione diretta tra rappresentanti degli Stati Uniti e dei Talebani. Questi incontri hanno avuto un seguito nel 2018 e nel 2019. In tutti questi incontri i Talebani hanno affermato di non mirare al “monopolio del potere” ma di voler condividere il futuro governo del paese con le altre forze in campo. Da parte afgana, figure come l’ex Presidente della Repubblica Hamid Karzai erano aperte a un confronto e a una possibile collaborazione con i Talebani. Altri invece, come il Presidente Ashraf Ghani, si sono sempre mostrati ostili a ogni forma di apertura.

 

L’Accordo di Doha, concluso nel febbraio 2020 tra i Talebani e i rappresentanti del governo statunitense, viene indicato come un punto di svolta nelle vicende che hanno portato alla rinascita dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan. L’ex vice segretario generale della Nato, in una recente intervista, ha dichiarato che “l’inizio della fine sono stati gli accordi di Doha”. Cosa prevedevano esattamente tali accordi? Qual è il suo giudizio sui negoziati e sul testo finale sottoscritto dalle parti? Come ne valuta il significato rispetto a quanto è avvenuto nelle ultime settimane, ad esempio in termini di legittimazione internazionale dei Talebani?

Partiamo dal ricordare il titolo completo dell’accordo firmato a Doha, capitale del Qatar, il 29 febbraio 2020: Agreement for Bringing Peace to Afghanistan between the Islamic Emirate of Afghanistan, which is not recognized by the United States as a state and is known as the Taliban, and the United States of America. Da una parte è evidente che i Talebani, rappresentati nel negoziato dal mullah Abdul Ghani Baradar, capo dell’ufficio politico talebano a Doha, vengono riconosciuti come controparte di un accordo formale da parte del governo statunitense, ai tempi ancora presieduto da Donald Trump, rappresentato da Zalmay Khalilzad e Mike Pompeo. Dall’altra parte, gli Stati Uniti non riconoscono l’Emirato Islamico dell’Afghanistan come Stato.

Traspare fin da qui uno degli elementi fondamentali degli accordi, su cui si misura la maggiore distanza con ciò che è poi successo: la rinuncia dei Talebani al “monopolio del potere”, cui facevo riferimento prima. Tale rinuncia a detenere il potere in via esclusiva significava, in concreto, l’apertura di un dialogo inter-afgano e di una trattativa tra i Talebani e il governo in carica, da cui doveva emergere il nuovo assetto politico del paese dopo il ritiro delle forze straniere. Questa, che era stata una delle condizioni per la conclusione degli accordi, ha perso del tutto senso una volta che il governo in carica si è di fatto sciolto e il Presidente della Repubblica, Ashraf Ghani, ha lasciato precipitosamente il paese per trovare rifugio negli Emirati Arabi Uniti.

L’Accordo di Doha è stato costruito intorno ad alcuni punti fondamentali, strettamente collegati tra loro. La garanzia, da parte dei Talebani, che l’Afghanistan non sarà più utilizzato come base per nessun gruppo o individuo costituente una minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti e dei suoi alleati, con esplicito riferimento ad al-Qa’ida. La garanzia, da parte degli Stati Uniti, di un piano per il ritiro completo dall’Afghanistan delle truppe, del personale civile non diplomatico, dei contractors privati propri e dei propri alleati entro i 14 mesi successivi alla firma dell’accordo, accompagnato da uno scambio di prigionieri fatti dall’una e dall’altra parte. L’avvio, dopo l’annuncio dei due primi punti, di negoziati inter-afgani per assicurare una transizione sicura e pacifica. Il perseguimento prioritario, nei negoziati inter-afgani, di un cessate il fuoco permanente e complessivo. L’impegno degli Stati Uniti sul terreno della cooperazione economica, per accompagnare la ricostruzione del paese secondo le linee politiche delineate dal dialogo inter-afgano, in una logica di non intervento negli affari interni dell’Afghanistan.

Come Pugwash abbiamo accolto favorevolmente l’accordo di Doha, in cui culminava un percorso di preparazione durato 18 mesi a cui l’organizzazione aveva dato il proprio sostegno, forte anche delle esperienze dei non-official meetings dei cinque anni precedenti. Nel nostro comunicato del tempo, però, avvertivamo la necessità che entrambe le parti si attenessero strettamente a quanto concordato, enfatizzando l’importanza di avviare un autentico e costruttivo dialogo inter-afgano, che invece non si è mai realmente concretizzato, soprattutto nei termini di un rapporto diretto tra i Talebani e il governo di Kabul [che non ha partecipato ai lavori di Doha, ndr].

In estrema sintesi, la causa di quanto è avvenuto nelle ultime settimane non è certo l’Accordo di Doha ma, al contrario, la sua applicazione parziale, limitata al ritiro delle forze occidentali e statunitensi, ritiro voluto da Donald Trump e portato a conclusione da Joe Biden. Quanto all’accusa che viene mossa agli accordi, di avere legittimato sul piano internazionale i Talebani senza prestare sufficiente attenzione alla tutela dei diritti delle donne e delle minoranze, occorre tener presente che in un contesto di guerra e violenza endemica nessun diritto può mai essere veramente esercitato: il cessate il fuoco e la pacificazione della società afgana non poteva non passare attraverso l’inclusione, nel dialogo interno e internazionale, dei Talebani.

 

Quali sono le principali ragioni che hanno spinto gli Stati Uniti a ritirare le proprie truppe dall’Afghanistan?

Per provare a rispondere occorre ricordare quando e perché gli Stati Uniti hanno attaccato militarmente l’Afghanistan e il governo talebano allora in carica nel paese dal 1996. L’intervento è stato deciso nell’arco di poche settimane, in risposta all’attacco dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle, invocando il principio della legittima difesa: il governo Bush ha attribuito, infatti, la responsabilità dell’attentato a Osama Bin Laden ed ha accusato il governo talebano di offrirgli ospitalità e protezione, nonché di ospitare sul territorio afgano basi di addestramento di al-Qaida.

Non entro in questa sede nella controversia sulla legittimità giuridica di questa interpretazione del principio di legittima difesa. Mi limito a ricordare alcuni eventi che hanno preceduto e seguito di poco l’attacco, iniziato il 7 ottobre 2001. Il 20 settembre George W. Bush ha rivolto un ultimatum ai Talebani chiedendo loro, tra le altre cose, di consegnare tutti i leader di al-Qaida presenti in Afghanistan, di chiudere i campi d’addestramento terroristici nel paese, di garantire libero accesso ai campi d’addestramento per poter verificare la loro chiusura. In un primo momento, attraverso il Pakistan, i Talebani hanno respinto l’ultimatum sostenendo l’assenza di prove che legassero Bin Laden agli attentati dell’11 settembre. Poco prima dell’inizio dell’invasione, i Talebani si sono dichiarati pubblicamente disposti a processare bin Laden in Afghanistan, in un tribunale islamico (proposta respinta dagli Stati Uniti). Il 14 ottobre i Talebani hanno infine dichiarato di essere disponibili a consegnare Bin Laden a un paese terzo, affinché venisse processato, ma solo se fossero state fornite prove del suo coinvolgimento dell’11 settembre 2001 (prove che non risultano mai essere state fornite).

L’obiettivo dichiarato della guerra era la cattura di Bin Laden e il rovesciamento del governo talebano, reo di aver rifiutato di consegnare Bin Laden. L’azione militare, semplicemente comunicata al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, era sostenuta dall’opinione pubblica statunitense come una misura di sicurezza volta, attraverso una “guerra globale al terrore”, a prevenire ulteriori attacchi contro gli Stati Uniti o contro i suoi alleati. Dopo aver insediato a Kabul un regime con i crismi esteriori della democrazia rappresentativa (pluralismo partitico, elezioni, parlamento, ecc.) e, soprattutto, dopo aver catturato e ucciso Bin Laden in Pakistan, nel maggio 2011, la presenza militare in Afghanistan ha perduto progressivamente il sostegno dell’opinione pubblica. Anche a fronte del costo umano del conflitto, in termini di morti [2.465, ndr] e feriti [20.666, ndr] nelle file dell’esercito statunitense nel corso dei vent’anni di guerra.

A ciò va aggiunto l’enorme costo economico della presenza statunitense in Afghanistan, a oggi stimato in circa 2.300 miliardi di dollari, senza contare le recenti spese per l’evacuazione e il valore di tutto il materiale militare abbandonato nel paese. Se ciò ha fruttato enormi profitti alle imprese del comparto militare, ha anche prodotto scarsi risultati in termini di sicurezza, coesione e stabilizzazione del paese. Sarebbe interessante analizzare in dettaglio i vari capitoli di spesa che hanno assorbito queste ingenti risorse: se impiegate in una prospettiva a medio-lungo termine per ricostruire l’economia nazionale e riequilibrare i forti divari sociali, tali risorse avrebbero fatto dell’Afghanistan una piccola Svizzera. Hanno invece alimentato, oltre che la spesa militare, la corruzione e le diseguaglianze territoriali.

 

Governi e opinione pubblica mondiali sono rimasti sorpresi dalla rapida vittoria dei Talebani che, in poche settimane, sono entrati a Kabul senza incontrare resistenza. Si è trattato di un evento davvero così sorprendente e imprevedibile?

Sì, devo dire che è stata una sorpresa anche per me. È certamente vero che il ritiro degli eserciti della Nato e degli Stati Uniti era previsto da più di un anno. Ma ci aspettavamo più tempo, e l’avvio di una transizione ordinata, non la rapidità degli eventi a cui abbiamo assistito nelle ultime settimane. Invece l’esercito afgano è collassato e, di fatto, non ha opposto nessuna resistenza all’avanzata dei Talebani verso le principali città del paese e verso Kabul. Anche il governo afgano, che avrebbe dovuto essere nelle previsioni l’interlocutore dei Talebani per l’avvio di una fase di dialogo interno e di transizione, si è sciolto come neve al sole. Chi si aspettava che lo stesso Presidente della Repubblica lasciasse così velocemente il paese? È vero, già nei mesi passati con gli accordi di Doha si era avviato un processo che avrebbe portato alla fine della presenza militare straniera e all’ingresso dei Talebani nell’area di governo, ma che i Talebani restassero le sole forze in campo era difficile prevederlo solo qualche settimana fa. Forse neanche i Talebani si aspettavano un esito di questo tipo. Certamente, il rientro precipitoso dei contingenti e delle rappresentanze diplomatiche degli Stati occidentali ha dato al mondo intero la misura di come gli eventi siano stati vissuti come eventi sorprendenti, quanto meno nella loro velocità e nel loro esito: dal 31 agosto 2021, piaccia o meno, è iniziata una nuova fase, quella dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan. Se non vogliamo abbandonare a se stesso il popolo afgano, con il nuovo governo sarà necessario interloquire.

 

Ciò che ha colpito, negli eventi delle ultime settimane, è stata la quasi totale assenza di reazione da parte dell’esercito afgano, destinatario per anni di forniture e addestramento da parte delle forze straniere, tra cui anche quelle italiane. Secondo le fonti di intelligence statunitensi, dopo il ritiro occidentale, ci sarebbero voluti almeno due mesi prima che l’esercito afgano si arrendesse ai Talebani: sono bastati pochi giorni. Come si spiega questa “strana disfatta”, per richiamare il celebre saggio di Marc Bloch sulla capitolazione della Francia sotto i nazisti nel 1940?

La disfatta si spiega innanzitutto col fatto che l’esercito afghano era quasi interamente dipendente da risorse economiche e logistiche messe a disposizione dalle potenze straniere, per altro organizzate in modo diverso nelle diverse aree territoriali affidate a ciascun paese. Spesso funzioni importanti dell’esercito, come la manutenzione dei mezzi, è stata affidata a personale straniero ritenuto più competente. L’avvio del ritiro e la prospettiva, sempre più imminente, dell’abbandono del campo da parte degli Stati Uniti e della Nato ha gradualmente fatto sì che l’intera struttura militare afgana si disfacesse.

Su questo elemento strutturale di debolezza sono intervenuti numerosi altri fattori: la scarsa motivazione delle truppe, la loro scarsa fiducia nei confronti dei propri capi e dello stesso governo, lo scoraggiamento di fronte alle prime truppe afgane che si arrendevano, quasi senza combattere, ai Talebani nelle regioni periferiche da cui è partita a maggio scorso la marcia di avvicinamento verso Kabul. Non dimentichiamo, infine, l’elevato numero di morti tra le fila delle forze militari e di polizia afgane dopo l’occupazione straniera [69.095, ndr]. Tutto ciò ha fatto sì che, al momento di affrontare un avversario ideologicamente e politicamente assai motivato, la voglia di combattere sia venuta meno e abbia determinato un effetto domino di città in città. Da parte sua il governo, in assenza di un esercito fedele e funzionante, si è sentito troppo debole e ha preferito evitare qualsiasi confronto, lasciando campo libero ai Talebani che sono entrati a Kabul e hanno occupato i luoghi del potere senza sparare un colpo.

 

In molti si chiedono come sia stato possibile che uno dei più forti eserciti del mondo, quello degli Stati Uniti, non sia stato in grado nel corso di vent’anni di prevalere sui Talebani. Che spiegazioni si possono dare di questa sconfitta?

Quanto accaduto in Afghanistan mi pare un buon esempio di quelli che possiamo chiamare “limiti delle superpotenze”. Con questa espressione mi riferisco al fatto che non è sufficiente disporre di un apparato militare sofisticato e all’avanguardia, di truppe ben addestrate, di risorse economico-finanziarie notevoli per prevalere in un conflitto, specie se si tratta di un conflitto asimmetrico, in cui dall’altra parte non c’è un esercito regolare ma una costellazione di vari gruppi armati che ricorrono anche a tecniche di guerriglia, all’interno di un territorio molto articolato e complesso come quello afgano.

Gli Stati Uniti non si sono mai realmente posti nell’ottica di costruire un consenso diffuso intorno alla propria presenza e delle nuove istituzioni, né di porsi a fianco del popolo afgano in un’opera di ricostruzione della società su basi realmente nuove e democratiche. È lo stesso strumento armato e la stessa presenza sul territorio nei termini di una occupazione militare, per quanto in accordo col governo, che si pone in contrasto con l’obiettivo di una vera stabilizzazione. I frequenti e numerosi morti tra i civili afgani [46.319, ndr], nonostante il ricorso ad armi presentate come sempre più “intelligenti”, e il duro trattamento riservato ai prigionieri di Guantanamo, hanno contribuito ulteriormente a isolare la presenza statunitense dal paese e a creare il terreno ideale per la persistenza e l’espansione dei Talebani, nonostante le perdite subite anche da parte loro [52.893, ndr].

 

È possibile fare previsioni sull’orientamento e sulla politica che adotterà il nuovo governo talebano?

Le preoccupazioni per la natura oppressiva del governo talebano sono comprensibili, anche alla luce della sua composizione. Tuttavia occorre essere consapevoli del fatto che i Talebani non costituiscono un gruppo omogeneo e monolitico, né hanno una struttura unitaria: i “Talebani di Doha”, di cui ha parte il mullah Baradar, sono diversi dai capi talebani locali. All’interno del movimento esistono posizioni diverse sui vari temi e sulle strategie da seguire. Allo stesso modo, è bene uscire da rappresentazioni riduttive, che vogliono ad esempio i Talebani al servizio del Pakistan e dei suoi interessi: se ciò fosse vero, non potremmo spiegare la lunga prigionia inflitta dal Pakistan al mullah Baradar [Baradar è stato catturato dai servizi segreti pakistani a seguito di suoi incontri riservati con il governo Karzai in vista di un possibile accordo di pace, che avrebbe escluso il Pakistan dal tavolo delle trattative. La sua detenzione è durata dal 2010 al 2018, ndr].

Mi pare evidente che, in questa prima fase, il gruppo dirigente talebano stia cercando di presentarsi al mondo con un’immagine nuova, più aperta e dialogante, rispettosa dei diritti delle donne e delle minoranze. Da una parte, permangono forti limitazioni ideologiche, radicate in una lettura estremamente conservatrice dei precetti islamici sulla posizione femminile: tali limitazioni probabilmente ostacoleranno scelte di reale apertura come, ad esempio, l’inclusione di donne nel governo. Tuttavia non bisogna enfatizzare eccessivamente i progressi nella condizione delle donne nei venti anni di occupazione straniera: un avanzamento sul terreno delle libertà e dei diritti c’è stato, ma è stato fortemente diseguale interessando le città e non le aree rurali, ed è stato comunque accompagnato dalla persistenza di ampie aree di povertà. Dall’altra parte, l’atteggiamento verso le minoranze come gli Hazara sembra essere cambiato: penso, ad esempio, a quando i Talebani hanno condannato gli attacchi terroristici condotti dall’ISIS contro quelle popolazioni di fede sciita.

L’obiettivo attuale dei Talebani sembra essere quello di giocare, con le grandi potenze e con i paesi confinanti, il ruolo dei pacificatori, di coloro che garantiscono la sicurezza interna, ad esempio contro le azioni di gruppi come il cosiddetto ISIS Korasan. L’attentato all’aeroporto di Kabul, rivendicato da questo gruppo afgano affiliato allo Stato Islamico, va compreso in questa logica di destabilizzazione anti-talebana e di contrasto al percorso di pacificazione aperto a Doha.

Ma la sfida forse più importante che il futuro governo dovrà affrontare riguarda l’economia del paese. Dal punto di vista dei Talebani il rischio, a breve, è quello di una fuga di capitali all’estero insieme a coloro che hanno gravitato per anni intorno alle forze occidentali e che hanno dato vita a un’economia “drogata” dagli aiuti stranieri. Su questo terreno, la Cina sembra destinata a svolgere un ruolo di primo piano. Il governo di Pechino si muove in modo pragmatico e spregiudicato: all’interno tiene sotto stretto controllo le proprie minoranze musulmane; protegge il Pakistan, ad esempio nei rapporti sempre tesi con l’India; e qualche mese fa ha incontrato i rappresentanti dei Talebani i quali loro volta, proprio in questi giorni, hanno annunciato che chiederanno alla Cina di investire nella ricostruzione del paese. Gli aiuti umanitari e gli investimenti cinesi, collegati alla nuova Via della Seta, potrebbero in effetti svolgere un ruolo importante nel rilanciare l’economia afgana che, nonostante le risorse naturali e la posizione strategica, resta tra le ultime al mondo per prodotto interno lordo.

 

Il ritorno dei Talebani a Kabul e la precipitosa evacuazione occidentale hanno fatto pronunciare ad alcuni leader europei, come Angela Merkel, parole di autocritica. Al di là delle dichiarazioni estemporanee, quale lezione dovrebbero trarre da quanto accaduto i paesi che hanno contribuito, a vario titolo, a questi venti anni di occupazione militare dell’Afghanistan? Quale ruolo potrebbe svolgere la comunità internazionale per avviare finalmente il paese verso una pacificazione e una ricostruzione reali, che mettano al centro la giustizia sociale e il rispetto dei diritti fondamentali, a partire da quelli delle donne e delle minoranze?

In Afghanistan è fallita un’idea di politica internazionale fondata sull’uso unilaterale della forza armata, sull’occupazione e sulla spesa militare, sull’esportazione di modelli istituzionali, economici e sociali senza reale rapporto con il contesto e con la sua complessità, su un tipo di cooperazione calata troppo spesso dall’alto, che ha soffocato l’autonomia e il protagonismo delle popolazioni locali. In una battuta, la lezione da apprendere e da tradurre in pratica da ora in poi è questa: fare tutto il contrario di quello che si è fatto finora.

Invece di invadere l’Afghanistan e rovesciare il governo talebano, l’attentato alle Torri Gemelle richiedeva di percorrere tutta un’altra strada: affidare alle Nazioni Unite la responsabilità di agire a nome dell’intera comunità internazionale per contrastare i gruppi terroristici con misure politiche, diplomatiche, economiche, intervenendo sulle cause profonde del fenomeno. La guerra globale al terrore ha invece innescato una spirale di violenza che, dal punto di vista delle vittime civili, rende di fatto indistinguibile un attentato “terroristico” dal ricorso ai droni.

Al miraggio della “sicurezza militare” costruita con la sola forza delle armi, che può nella migliore delle ipotesi pervenire ad una assenza di conflitti visibili, occorre sostituire un approccio fondato sulla “sicurezza umana”, sulla giustizia sociale e sulla risoluzione dei conflitti profondi che dividono le società nazionali e quella internazionale. Occorre praticare quello che potremmo chiamare il “dialogo attraverso le linee di divisione”: occorre partire dal riconoscimento delle diversità, di opinione, di valori, di visioni, per poter costruire lo spazio di una convivenza pacifica, in cui tutti e ciascuno possano scegliere più liberamente possibile come vivere.

Come ho accennato prima, le ingenti risorse sprecate nella spesa militare e amministrativa legata all’occupazione straniera potevano e dovevano essere impiegate per promuovere uno sviluppo economico-sociale sostenibile, riconvertendo la produzione di materie prime destinate alle sostanze stupefacenti in altre colture ed avviando uno sfruttamento oculato delle risorse naturali presenti nel sottosuolo afgano, coinvolgendo attivamente le comunità locali nella gestione delle attività e nell’uso dei ricavi.

Infine, la costruzione di una società democratica non può passare per l’instaurazione a freddo di istituzioni rappresentative sul modello occidentale, avulse dal contesto e dalla storia di un paese. Occorreva e occorrerà in futuro investire sulle organizzazioni della società civile afgana, consentendo loro di organizzarsi e svilupparsi in modo autonomo, chiedendo che venga dato spazio alla loro voce nel dibattito pubblico, sostenendo la loro iniziativa e i loro programmi di difesa e promozione dei diritti umani, a partire dal lavoro e dal contrasto alla povertà, dalla salute pubblica e dalla formazione accessibile a tutte e tutti.

 

[Intervista realizzata tra il 4 e il 7 settembre 2021].