Resistenza e pace, oggi
di Giorgio Gallo
Come parlare di resistenza e di pace in una fase di guerra in Europa, probabilmente la peggiore dalla fine della Seconda guerra mondiale? Una guerra, quella in Ucraina, che ha creato una polarizzazione fortissima sui media italiani e nell’opinione pubblica, e che ha visto l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia bersaglio di pesanti critiche, con lo stucchevole ma aspro dibattito sulla “resistenza”: quella ucraina e quella vissuta dall’Italia per liberarsi dal fascismo e dall’occupazione nazista.
Parlare di pace non è così semplice come potrebbe sembrare. Cosa intendiamo, infatti, con “pace”? Spesso ci riferiamo a uno stato di assenza di guerra, all’esito stesso di una guerra: finito il conflitto armato, si fa la pace. Ma la sola assenza di guerra rischia sempre di assomigliare a quella che Tacito mette in bocca a Calgaco, capo Caledone: “dove fanno il deserto, la chiamano pace”.
Ma la pace è anche molto altro. Pensiamo alla parola ebraica shalom, dove pace è pienezza di vita: qualcosa di più e di diverso che semplice assenza di violenza. O pensiamo alla nozione, sviluppata da autori come Amartya Sen e Martha Nussbaum, di capabilities come insieme delle condizioni che consentono la fioritura esistenziale di tutti e di ciascuno: le libertà “di” (politiche e civili, sociali ed economiche, culturali e religiose) unite alle libertà “da” (bisogno, povertà e fame, sofferenza, malattia, morte prematura, insicurezza); o, ancora, la libertà di “vivere il tipo di vita al quale si dà valore, e si ha motivo di dare valore”. Ma pensiamo anche a un concetto anarchico, in senso filosofico-politico, di pace come assenza di dominio e di comando (ma non di organizzazione e di governo).
Se assumiamo un concetto più ricco e articolato di pace, l’affrontare un conflitto si presenta come un processo, certamente non facile, finalizzato non a “vincere” la guerra prevalendo sul “nemico”, quanto piuttosto ad andare al di là della violenza. Costruire la pace/shalom significa allora centrare l’attenzione e l’impegno non sul nemico da sconfiggere, ma sul tipo di società che vorremmo: la pace/shalom non è uno “stato”, dunque, ma un “processo”.
Si tratta un processo pieno di incertezze, e anche di contraddizioni, il cui vero punto nodale, al di là della dicotomia “lotta armata / lotta non armata e nonviolenta”, è la congruenza e l’interrelazione gandhiana fra mezzi e fini. Un processo che può comportare scelte difficili. Riprendendo e parafrasando il titolo di un libro sulla guerra partigiana italiana, si tratta di scelte che nascono spesso dalla Necessità, a volte dal Caso, ma sempre dall’Utopia1. Come dice Santo Peli a proposito della nostra resistenza, ci troviamo di fronte a tutte “le complessità, le contraddizioni, le ombre e le luci di un quadro che fu in realtà continuamente cangiante”, che rischiano di “restare schiacciate […] a tutto vantaggio dell’immediatezza comunicativa e del fascino di una comunicazione […] limpida, di facile fruizione”2.
Necessità e Caso hanno portato, a volte, alla scelta della lotta armata. Era l’unica possibilità? Certamente no, anche se è comprensibile che, non ultimo per ragioni culturali, per molto tempo la lotta armata sia stata vista come l’unica, o, comunque la fondamentale forma di resistenza. Emblematica la chiara gerarchia che il Decreto-legge luogotenenziale n. 518 del 21 agosto 1945 definisce tra partigiano combattente (con almeno tre azioni armate), patriota (non coinvolto in azioni armate, o che ha preso parte all’insurrezione finale) e benemerito (non attivo nella lotta armata).
Oggi vediamo o dovremmo vedere le cose in una prospettiva diversa, e forse si farebbero scelte diverse, considerata la maggiore consapevolezza della possibilità di forme di lotta non armata e nonviolenta, e gli studi che mostrano la loro efficacia, usualmente maggiore rispetto alla lotta armata3.
Anche nella resistenza la lotta armata, l’idea di uccidere un altro essere umano, anche se nemico, anche se vista come necessità, ha comunque creato problemi, e tensioni spesso forti. Tina Anselmi così ricorda la propria esperienza: “Era una responsabilità enorme: uccidere. Scatenare con le nostre azioni le rappresaglie. […] Ancora oggi mi reputo fortunata per non aver dovuto uccidere”4. E Carla Capponi, ripensando agli appostamenti per preparare l’uccisione di un ufficiale nazista, ricorda: “Non potevo fare a meno di pensare che eravamo lì per preparare il piano di morte di un uomo, e sentivo nascere dentro di me un’infelicità, un’incertezza improvvise, come se la mia personalità si sdoppiasse e mi sentissi prigioniera di situazioni irrimediabili alle quali non potevo sfuggire, pur avendole scelte e determinate io stessa”5. Ecco emergere la “necessità” che, naturalmente, ha sempre una forte dimensione soggettiva.
C’è stata, comunque, anche in Italia una resistenza non armata e nonviolenta, che va riconosciuta e rivalutata e che, forse, vista in prospettiva, è stata anche più importante di quella armata. È necessario “allargare il canone resistenziale, per una prima lunga fase incentrato sulla figura del partigiano maschio in armi. E dunque le donne, gli Internati Militari Italiani (IMI), la Resistenza senz’armi, i carabinieri, l’esercito del sud…”6. Le diverse forme di resistenza non violenta al nazifascismo sono ormai ben studiate7. Si è trattato di forme di resistenza diffuse su tutto il territorio nazionale, e non solo nazionale, e di una resistenza veramente popolare.
L’Utopia è comunque sempre stata presente, dando senso alla lotta, proiettandola al di là della logica delle armi. “È il passaggio dall’io al noi – dalle scelte isolate e individuali alla banda – a permettere la diffusione di una cultura che sogna e progetta una rottura dell’ordine esistente delle cose, a determinare l’ampliamento del campo del possibile, a dare un senso fino ad allora sconosciuto alla politica”8.
La libertà per cui ci si batte va molto al di là della libertà dall’occupante nazista. “Una zona veramente libera – scriveva Giancarlo Pajetta – esiste dove, in stretta collaborazione con i partigiani, le popolazioni si governano in modo che ognuno abbia la sua parte di responsabilità, che ognuno possa intervenire ed esprimere la propria opinione e realizzare il proprio controllo sulle misure da prendersi. Bisogna che dove sono passati i partigiani resti una traccia di insegnamento politico indistruttibile; i villaggi partigiani, le zone libere, devono essere i modelli dello Stato italiano democratico, i loro uomini, le loro donne, i loro giovani devono sapere testimoniare a ognuno che è possibile vivere liberi”9. Emerge qui un’idea di Stato in cui il potere è distribuito: uno Stato non centralizzato né centralizzatore. E viene messa in discussione anche un’idea di democrazia troppo centrata sul voto: un voto che dà il potere e che rischia sempre di dar luogo a una sorta di “dittatura della maggioranza”. In questo senso la Repubblica dell’Ossola è un vero e proprio laboratorio politico, a cui partecipano, fra tanti altri, Concetto Marchesi, Giancarlo Pajetta, Umberto Terracini ed Ezio Vigorelli.
Riflettere criticamente sulla nostra resistenza ci aiuta a capire meglio il senso di ogni resistenza e del suo nesso con la pace come processo di emancipazione individuale e collettivo. Significa anche farla rivivere, facendone l’occasione per un cambiamento qui e oggi, per leggere in modo critico la realtà intorno a noi e per trasformarla!
Una resistenza, anche al più violento degli aggressori, non può ridursi a un fatto tecnico-militare. Non deve farsi dettare dallo stesso aggressore il modo con cui resistere. E non può neppure avere come obiettivo unicamente la sconfitta dell’aggressore. Non è una sorta di gioco in cui chi ha più soldati, cannoni e missili più potenti vince. È un processo in cui fini e mezzi interagiscono in modo complesso. I fini in qualche modo determinano i mezzi, e, dall’altro lato, i mezzi modificano i fini e cambiano gli stessi attori, le società coinvolte, di entrambe le parti. Chiediamoci che società vogliamo e sapremo quali mezzi usare per fare terminare una guerra. Non porci questa domanda o rinviarla a un “dopo” è la ricetta per il militarismo e l’autoritarismo. Mai pensare che prima venga la sconfitta e la morte del nemico e solo dopo la costruzione della società, del mondo, che vogliamo. Lotta e costruzione della società vanno insieme.
La lotta nonviolenta non è solamente una tecnica diversa per raggiungere gli stessi obiettivi. È anche un mettere in discussione gli stessi obiettivi. È mettere sempre al centro la costruzione della pace/shalom, e quindi scegliere mezzi che siano congruenti con questo obiettivo.
Per comprendere questa prospettiva occorre mettere in discussione la cultura di guerra, oggi come ieri così diffusa. La lotta di resistenza, intesa come costruzione della pace/shalom, non può essere una lotta per per l’eliminazione del nemico, né per il raggiungimento dei propri obiettivi geopolitici. Né può essere una lotta per la difesa o l’affermazione della propria “identità”. Amartya Sen10 ha ben messo in evidenza i rischi insiti in un concetto rigido di identità, vista come qualcosa di unico, unitario e ben definito, denunciando la violenza a cui questo concetto può portare, soprattutto in un mondo in cui ciascuno di noi è portatore di identità molteplici, fluide, sfumate. È un invito a operare una piccola ma significativa rivoluzione: sviluppare la capacità di riconoscere “il veleno che la parola identità («una parola pericolosa: non ha alcun uso contemporaneo che sia rispettabile», ha scritto Tony Judt) ormai porta con sé”11.
La lotta di resistenza orientata alla pace non può neanche essere la lotta per la “difesa dei sacri confini della patria”. Donatella Di Cesare12 ha messo in discussione in modo radicale l’idea stessa di “possesso della terra” e, di conseguenza, l’idea di confini su cui si fonda la moderna società internazionale, proponendo in alternativa la figura dello “straniero residente”: su questa terra nessuno può accampare in senso stretto dei diritti di proprietà, implicanti il potere di escluderne “gli altri” e di decidere con chi convivere, ma tutte e tutti siamo di passaggio sul pianeta che ci ospita. È pensabile, allora, un Donbass che si gestisca autonomamente, i cui abitanti, dal punto di vista dell’appartenenza statale-nazionale possano essere indifferentemente o ucraini o russi: “stranieri residenti”, in una regione condivisa, che non appartiene a nessuno dei due paesi?
Nel contesto attuale, la ricostruzione di una pace duratura richiede il superamento della rigidità dei confini: occorre riconoscere che si tratta di “costruzioni sociali”, non di “dati” in qualche modo “naturali”. Anche per questo non possono e non devono essere modificati con la violenza e con le armi. Ma vanno ripensate anche le idee, a lungo centrali nella teoria e nella pratica costituzionali, di “popolo” come base omogenea della comunità politica democratica e di “volontà popolare” come di qualcosa di esistente, che il voto possa compiutamente esprimere13.
Pensare il nesso tra resistenza e pace, oggi, richiede di pensare fuori dagli schemi. In realtà, come ha riconosciuto Hannah Arendt, nel senso più autentico del termine “pensare” è sempre un pensare “fuori dall’ordine”14.
Note
1 Santo Peli, La Necessità, il Caso, l’Utopia. Saggi sulla guerra partigiana e dintorni, BFS Edizioni, in collaborazione con CSMP, 2022.
2 Santo Peli, p. 114.
3 Maria J. Stephan, Erica Chenoweth, “Why Civil Resistance Works. The Strategic Logic of Nonviolent Conflict”, International Security, vol. 33, n. 1, 2008.
4 Ercole Ongaro, p. 290.
5 Ercole Ongaro, p. 291n.
6 Santo Peli, p. 118.
7 Giorgio Giannini, La resistenza non armata all’occupazione nazista in Italia e in Europa, Centro Studi Difesa Civile, 2010. Ercole Ongaro, Resistenza nonviolenta 1943-45, Emil, 2013. Jacques Sémelin, Senz’armi di fronte a Hitler. La Resistenza civile in Europa 1939 – 1943, Sonda, 1993.
8 Santo Peli, p. 123.
9 Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Laterza, 1966, p. 396.
10 Amartya Sen, Identità e violenza, Laterza, 2006.
11 Franco Marcoaldi, Tomaso Montanari, Il nostro volto. Cento ritratti italiani in immagini e versi, Einaudi, 2001.
12 Donatella Di Cesare, Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione, Bollati Boringhieri, 2017.
13 Per le problematiche legate al voto rimando a Giorgio Gallo, Problemi, modelli e decisioni. Decifrare una realtà complessa e conflittuale, Pisa University Press, 2009, Cap. 4.
14 Hannah Arendt, La vita della mente, Il Mulino, 2009.
Giorgio Gallo è uno dei fondatori del Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace” dell’Università di Pisa, di cui è stato il primo Direttore. Informatico, esperto di modelli e metodi di decision-making in situazioni di conflitto, si interessa da molti anni alla situazione in Palestina.