Musica e pace: in apertura del concerto di Felipe Avellar de Aquino
Giovedì 26 maggio 2022, nel cortile del Palazzo della Sapienza a Pisa, si è tenuto il concerto “Un Violoncello per la Pace” con protagonista il violoncellista brasiliano Felipe Avellar de Aquino, accolto dai saluti della professoressa Enza Pellecchia, direttrice del Centro Interdisciplinare Scienze per la Pace, e del professor Francesco Marcelloni, prorettore alla cooperazione e relazioni internazionali. Erano inoltre presenti il rettore Paolo Maria Mancarella, il direttore del Centro per l’Innovazione e la Diffusione della Cultura (CIDIC), Saulle Panizza, e alcune visiting professor ucraine con parenti rifugiati. Il concerto è stato preceduto da un intervento del professor Marcílio Toscano Franca Filho, docente presso l’Università Federale di Paraíba (Brasile) e adesso visiting professor del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa. Sono state eseguite opere di Gaspar Cassadó (Spagna), Clóvis Pereira (Brasile) e Zoltán Kodály (Ungheria), la cui scrittura coniuga virtuosismo strumentale con elementi della tradizione popolare e delle espressioni popolari di ogni paese. Come riportato sul libretto del concerto, “nonostante tre distinti background culturali, possiamo ancora sentire una convergenza espressiva di gesti musicali che sottolinea il senso di fratellanza tra le persone e le Nazioni. Ricordandoci che il processo di pace può partire da un semplice gesto come un violoncellista che si esibisce da solo. Questo può certamente toccare il cuore degli altri, portando più persone a questo continuo sforzo verso il processo di pace”. Qui di seguito riportiamo il discorso pronunciato dal professor Marcílio Toscano Franca Filho subito prima del concerto, in cui affronta il rapporto tra musica e pace.
di Marcílio Toscano Franca Filho
La guerra ha un suono. E non è solo il suono delle bombe, le urla, le sirene antiaeree, le esplosioni, il pianto o gli spari. Ci sono anche inni marziali, trombe, tamburi, le note delle marce e i canti di battaglia che incoraggiano le truppe e spaventano i nemici. Questa è stata la tragica e fragorosa melodia della guerra per molti secoli.
Nel 2010, la pop star Simon Bikindi, famoso cantautore ruandese, una specie di Michael Jackson locale e il volto più visibile del Ministero della Gioventù e dello Sport nel Paese africano dilaniato dalla guerra civile, è stato condannato a 15 anni di carcere per un crimine contro l’umanità, da una Corte Internazionale delle Nazioni Unite. Il suo delitto? Incitare in modo serio, ripetitivo, diretto e pubblico, con composizioni musicali distribuite su cassette e trasmesse in altoparlante, live e su Radio Rwanda, i loro connazionali hutu al feroce genocidio dell’etnia tutsi durante i massacri del 1994. Per i giudici del Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda, a L’Aia, Simon Bikindi, durante la creazione della colonna sonora del flagello ruandese, si è reso colpevole di istigazione al genocidio con i suoi lavori che mescolavano testi rap con melodie tradizionali africane.
Mai prima un tribunale internazionale aveva condannato un musicista per il contenuto della sua musica, anche se questa non era affatto la prima volta che la musica veniva usata per offendere i diritti umani, come arma di guerra, per fomentare l’odio razziale o come strumento di tortura.
Antichi e recenti esempi non sono pochi: dalle sonore Trombe di Gerico, nella Bibbia, all’umiliante “Tauza”, il ballo in cui i prigionieri politici dell’apartheid sudafricano erano costretti a ballare nudi, davanti ad altri detenuti e polizia, al fine di esporre potenziali oggetti nascosti e nelle loro parti intime; arrivando persino all’uso della musica come strumento di tortura psicologica nelle carceri di Abu Grahib, Guantánamo o nel Gulag sovietico. Inoltre, il dramma di musicisti ebrei costretti a suonare per i loro aguzzini durante le feste del Terzo Reich o dei prigionieri politici argentini che hanno dovuto ballare con gli ufficiali della dittatura militare nei centri di intrattenimento per le truppe non possono essere dimenticati.
Decisamente, non tutta la musica significa elevazione intellettuale, morale o spirituale. La musica è un’azione profondamente sociale, non è mai innocente e, come ogni risultato del comportamento umano, è ambigua, può essere corrotta dall’ideologia e configurata come strumento o risultato del nazionalismo, dell’estremismo e di ogni tipo di violenza.
Ma che dire della pace: la pace ha un suono? Quel suono – se esistesse – sarebbe rumore o potrebbe essere musica? In effetti, una melodia può essere un cammino verso la pace? La musica può essere uno strumento di peacemaking, peacekeeping, peacebuilding e peace enforcement?
Nello stesso Ruanda di Simon Bikindi, pochi anni prima della sua condanna, la musicista Odile Gakire (Kiki) Katese ha creato, nel 2004, un gruppo di percussioni tradizionali tutto al femminile chiamato Ingoma Nshya. Tutte le donne erano sopravvissute alla guerra civile ruandese del 1994 e appartenevano a entrambe le parti del conflitto. Alcune di quelle percussioniste che avevano perso parenti cari hanno suonato i tamburi fianco a fianco con i parenti dei genocidi, in una eloquente dimostrazione del potere della musica di unire e produrre armonia. Inoltre, le percussioni tradizionali in Ruanda erano riservate ai soli uomini e il gruppo Ingoma Nshya ha dimostrato che portando le donne in primo piano, le culture possono cambiare ed evolversi.
Questo, ovviamente, non è un esempio isolato. Musicisti di vari stili si sono impegnati contro la guerra e a favore della pace in diverse occasioni. Nella seconda metà del ventesimo secolo, il violoncellista catalano Pablo Casals si è distinto in modo eloquente contro tutti i tipi di guerre e regimi oppressivi. Casals è stato anche nominato per il Premio Nobel per la Pace nel 1958, ha ricevuto la Medaglia per la Pace delle Nazioni Unite e ha persino composto un inno alle Nazioni Unite nel 1971, commissionato dal segretario generale U Thant. Bob Dylan, premio Nobel per la letteratura nel 2016 e autore di classici pacifisti come “Masters of War” e “Blowing in the Wind”, è stato una figura di spicco nelle proteste contro la guerra in Vietnam. Nel 2006, il violoncellista Yo-Yo Ma è stato designato dalle Nazioni Unite come “Messaggero della Pace”. Poco dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989, il violoncellista russo Mstislav Rostropovich ha suonato una composizione di Johann Sebastian Bach in una Berlino riunificata dopo 28 anni. Non si può nemmeno dimenticare la West Eastern Divan Orchestra, una sinfonica fondata nel 1999 dal direttore Daniel Barenboim e dallo scrittore Edward Said con l’obiettivo di promuovere il dialogo tra musicisti provenienti da paesi e culture storicamente ostili. Ora, durante la tragedia della guerra in Ucraina, la televisione mondiale ha mostrato un anonimo violoncellista suonare il suo strumento come un disperato grido di pace.
Ma qual è il senso di queste iniziative? Qual è il potere di queste esibizioni di musica per la pace? Questo ha qualche effetto pratico? Cosa può, infatti, un musicista con il suo strumento contro eserciti e cannoni? È questo, per caso, diverso da quello che può fare un intellettuale con la sua penna o un manifestante con il suo megafono?
W. H. Auden aveva una visione pessimistica del potere dell’arte e degli artisti. Una volta, interrogato, disse: “So che, anche con tutti i versi che ho scritto, anche con tutte le posizioni che ho preso (…), non ho salvato un solo ebreo… La storia politica del mondo sarebbe stata esattamente la stessa se non fosse stata scritta una sola poesia, né dipinto un solo quadro, né composta una sola battuta di musica.”
Perdonate la mia audacia, ma non posso essere d’accordo con il poeta inglese. Arte e musica possono fare molto, altrimenti gli artisti non sarebbero così perseguitati, uccisi, imprigionati o censurati dalle dittature nel corso della storia. Quindi c’è davvero un significato profondo, un’importanza enorme e un’utilità innegabile in queste esibizioni di “musica per la pace”.
Quando il mio stimato amico Felipe Avellar de Aquino, uno dei più talentuosi violoncellisti brasiliani e professore al Dipartimento di Musica dell’Università Federale di Paraíba, è disposto a eseguire un concerto chiamato “un violoncello per la pace” nel Palazzo della Sapienza, ci fa vedere, in primis, che la musica è un’ottima metafora di un “processo di pace”. Alla fine, la creazione musicale è il risultato della risoluzione dei molti conflitti tra le note, tra gli strumenti, tra le interpretazioni, tra le dissonanze che dialogano e si armonizzano. E più importante: La musica, infatti, non elimina le differenze, ma le somma e le unisce, producendo empatia, comprensione e trasformazione reciproca, convertendo in consonanza e armonia ciò che prima era solo conflitto e disarmonia. In un’orchestra, ad esempio, sarebbe tragico mettere a tacere il violinista per sentire solo i violoncelli. La diversità è la più grande risorsa di qualsiasi orchestra.
In secondo luogo, un concerto come questo dimostra che, nonostante l’idea generale che la musica sia un linguaggio universale, la cultura musicale è fortemente legata alle tradizioni locali, alla cultura del territorio e al senso di appartenenza a una comunità. Condividere una melodia comune o cantare un ritmo popolare rafforza il senso di comunità, abbatte le percezioni di dissomiglianza e crea un senso di solidarietà e di riconciliazione. Nel concerto “Un violoncello per la pace”, una selezione di opere basate sulla musica popolare di tre paesi diversi – di Gaspar Cassadó (Spagna), Clóvis Pereira (Brasile) e Zoltán Kodály (Ungheria) – ci permetterà di ascoltare una convergenza espressiva di gesti musicali che enfatizzano il senso della fraternità. Lo stesso senso di fraternità presente nel quarto movimento della Nona Sinfonia di Beethoven, l’Inno alla gioia, che incanta e commuove a tutti noi dalle sue note di apertura.
E parlando di emozione, si può menzionare un terzo punto. Dato il fascino emotivo che le manifestazioni musicali presentano, questo concerto dimostra che la musica ha il potere di amplificare le azioni. Azioni che vanno dalle manifestazioni contro la guerra, attraverso le affermazioni dell’umanità stessa in mezzo al conflitto e il sostegno alla guarigione dei traumi, alla promozione dell’empowerment della comunità e all’espressione e apprezzamento dei gruppi emarginati. In questo contesto, la musica può indubbiamente supportare e rafforzare i processi di peacemaking, peacekeeping, peacebuilding e peace enforcement.
Questo giorno può offrire anche una quarta riflessione, sul legame privilegiato tra musica e umanità. Un brano musicale ben composto e ben eseguito è infatti una grande impresa dello spirito umano, tanto quanto un dipinto di Cecco di Pietro o una scultura di Nicola Pisano, per esempio. Ma, nel caso dell’esecuzione musicale, è come se fossimo seduti accanto al grande maestro Nicola Pisano nell’esatto momento in cui lui brandisce martello e scalpello per scolpire il maestoso pulpito del Battistero di Pisa, gioiello del gotico e una delle pietre miliari della scultura italiana. In altre parole, qui c’è un messaggio di ottimismo: “siamo ancora capaci”. Non è mai facile, ma è possibile. Non è facile perché, come diceva Vladimir Horowitz, suonare bene richiede ragione, cuore e mezzi tecnici in egual misura e proporzione: “Senza ragione sarà un fiasco; senza tecnica, sarei un dilettante; senza cuore, una macchina”. Questa complessa modulazione tra ragione, tecnica ed emozione richiede allenamento, prova, investimento di tempo e studio. Tutto questo non è lontano dai processi di peacemaking, peacekeeping, peacebuilding e peace enforcement. Posso dirlo con l’esperienza personale di chi è stato consigliere giuridico della Missione di Pace delle Nazioni Unite a Timor Est, un paese dove la cultura musicale è ricca ed è stata di grande aiuto nella sua ricostruzione.
Facilitando le connessioni tra le persone, superando le differenze, consentendo la memoria e ricostruendo relazioni spezzate dalla violenza, non ho dubbi che il soft power della musica occupa un posto privilegiato nei processi di pace, ovunque nel mondo.
Non ho inoltre dubbi sul fatto che il suono della pace, nelle società multietniche, multireligiose e multiculturali, sia inclusivo, diverso, dialogico, polifonico, multiplo, plurale. Proprio come non c’è solo una via per la pace, non c’è nemmeno una sola musica per la pace. Ci sono diverse possibili colonne sonore. Dico però senza timore di sbagliarmi che, in questa colonna sonora della pace, deve esserci uno spazio generoso per lo meno per l’ultima frase del personaggio Marcello, il pittore de La Bohème, di Giacomo Puccini, un frammento che deve costituire l’appello permanente per tutti i nostri sforzi, grandi e piccoli, alla ricerca della pace: “Coraggio!” “Coraggio!”
Con l’eco di quella piccola frase di Marcello, che riecheggia nel Palazzo della Sapienza, vi lascio ora con la voce del violoncello del prof. Aquino. E questa è la quinta ed ultima lezione che la musica ci offre oggi: non può esserci pace senza ascolto. Ascoltare l’altro è un dovere fondamentale per chi cerca la pace.
Questo testo è dedicato a Fyodor Petrov, soldato della libertà del suo paese.
Grazie mille.
Fonte: UnipiNews, 27 maggio 2022.