Mantenere l’ordine pubblico durante l’emergenza Covid: una sfida per la democrazia
a cura di Chiara Magneschi
Il seminario “Mantenere l’ordine pubblico durante l’emergenza Covid: una sfida per la democrazia”, introdotto e coordinato da Roberto Cornelli, Professore di Criminologia e Politica Criminale all’Università di Milano-Bicocca, si inserisce nel quadro delle attuali problematiche legate alla pandemia. In particolare, approfondisce il rapporto tra l’imposizione di restrizioni legata a questa particolare congiuntura storica e il mantenimento di diritti e tutele proprie delle forme di governo democratiche.
Questo tema è stato al centro di un rapporto intitolato “Accountability in Policing COVID-19. Lessons from the Field”, realizzato per l’International Center of Transitional Justice (ICTJ) da due dei relatori intervenuti, Anna Myriam Roccatello (Vice-direttrice esecutiva di ICTJ) e Mohamed Suma (Senior Expert di ICTJ).
L’autrice e l’autore del rapporto hanno svolto l’indagine con riferimento a quattro paesi, nei quali il binomio ordine pubblico-rispetto dei diritti umani si prospettava problematico già in epoca pre-Covid, ovvero l’Uganda, la Colombia, il Libano e il Kenya (paesi nei quali, peraltro, la ricerca dell’ICTJ è attiva da molti anni). Si tratta, in effetti, di contesti caratterizzati da grande vulnerabilità socio-economica, che la politica non riesce ad affrontare adeguatamente, e dove le comunità sono fortemente oppresse, anche perché le forze di polizia pongono spesso in atto condotte lesive dei diritti delle cittadine e dei cittadini.
Con questi presupposti, la pandemia ha funzionato da detonatore, esasperando le criticità preesistenti. Si è così verificato che, spesso, a fronte della sospensione transitoria di alcuni diritti civili, le forze di polizia di questi paesi abbiano esercitato illegalmente il potere di controllo sull’applicazione delle regole relative. Si è creato così un doppio vulnus nel sistema democratico, e, se la ferita determinata dalla compressione di alcuni diritti poteva giustificarsi nel contemperamento con l’istanza (contingentemente prevalente) di tutela della salute pubblica, assolutamente ingiustificabili si rivelano gli abusi riscontrati nell’implementazione delle misure anti-Covid. In altre parole, osservano molto chiaramente Roccatello e Suma, le misure emergenziali sono state un pretesto, per questi organi, per ampliare ed esercitare arbitrariamente i propri poteri, incidendo negativamente sulle istituzioni democratiche, venendo meno alla vocazione di proteggere le cittadine e i cittadini, e di trovare un equilibrio tra i vari interessi in gioco.
Ma c’è di più: in alcuni paesi (come l’Uganda e il Kenya), i governi hanno colto l’opportunità emergenziale per integrare nelle forze di polizia istituzionali alcune milizie “irregolari” che però, di fatto, già da tempo erano informalmente assimilate alle prime. Questo passaggio è avvenuto al di fuori di qualsiasi criterio condiviso di idoneità al reclutamento, con la conseguenza che sono cresciute le repressioni violente verso la popolazione, culminate anche in uccisioni. Inoltre, è accaduto sovente che l’estensione dei poteri della polizia, con l’occasione delle esigenze eccezionali di tutela dell’ordine pubblico, sia stata utilizzata con il diverso fine di reprimere le manifestazioni di dissenso e di malcontento rispetto a crisi economiche di enorme portata, come in Libano o in Colombia.
In quest’ultimo Stato, poi, la situazione politica attuale è estremamente delicata. Come noto, nel 2016 era stato raggiunto dal governo colombiano un “Accordo di pace” con le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (FARC), che avrebbe dovuto segnare un progressivo abbandono da parte di queste ultime dei territori su cui detenevano il controllo. Di fatto, afferma Maria Camila Moreno (ICTJ Colombia), che il governo non è riuscito a far sentire la propria presenza nei territori, a radicarvisi, ad offrire servizi, e le forze militari irregolari hanno non solo continuato a controllarli ma, nel contesto della crisi pandemica, si sono rese uniche detentrici della gestione dell’ordine pubblico (con reazioni arbitrarie e violente rispetto alla violazione del coprifuoco e dei confinamenti, sfociate in molte uccisioni).
In tutti questi casi, i governi non hanno difeso i cittadini né perseguito i criminali. Si può anzi dire che abbiano avallato il loro operato in quanto funzionale a sedare le proteste dal basso, inasprite dall’esistenza di un forte squilibrio, tra ricchi e poveri, nell’accesso alle cure e ai servizi che la pandemia ha reso ancora più lampante. Del resto, osserva Suma rispetto al contesto africano, la matrice coloniale di queste forze di polizia si fa ancora sentire: sono forze che continuano a tutelare unicamente le leadership e vedono la popolazione come una minaccia. Questo è un aspetto molto critico della transizione democratica, perché non esistono ancora forze di polizia “indipendenti”, che posseggano una visione da Stato di diritto, e che possano sanzionare gli operati “torbidi” di alcuni funzionari.
Quelle oggetto dello studio dell’ICTJ sono senz’altro da considerare democrazie fragili, anche in congiunture ordinarie. Ma i rischi per l’ordine democratico, legati all’allentamento di diritti e garanzie dei cittadini in nome di valori superiori (salute, ordine pubblico) e al rafforzamento di prerogative di controllo dei cittadini, come sappiamo, riguardano anche democrazie “solide”, come l’Italia.
Come osserva Roccatello, alla base di tutte le situazioni di tensione sociale e politica, che poi sfociano in abusi e atrocità a danno dei cittadini, c’è sempre una forma di discriminazione. Quindi, la capacità di una forza di polizia istituzionale di equipaggiarsi di risorse e competenze specifiche in tal senso è un elemento prezioso. E proprio in questa direzione, rende noto Vittorio Rizzi (Prefetto, vice Direttore generale della pubblica sicurezza e Direttore generale della polizia criminale), va l’impegno dell’Italia, anche durante la pandemia, grazie al sostegno dell’Oscad (l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori della Polizia di Stato, che l’anno passato ha ricevuto il Premio CIDU per i diritti umani), un organo volto a stimolare la ricerca sulla prevenzione dei reati d’odio, del razzismo e dell’intolleranza, ma anche la riflessione sul rischio di discriminazione interno alle Forze di Polizia, indice, più di ogni altro, dello “stato di salute” di queste ultime.
A sua volta, un’autentica predisposizione “non violenta” ed antidiscriminatoria degli organi preposti alla tutela dei cittadini e alla salvaguardia dell’ordine pubblico è l’elemento chiave per la fiducia dei cittadini nel loro operato e l’adesione spontanea alle regole di convivenza civile sulla quale essi vigilano.
Sul punto ritorna anche Roberto Cornelli: l’argomento dell’antidiscriminazione, se posto al centro delle politiche, è un argine efficace verso possibili derive in momenti critici, e fa sì che la fiducia – piuttosto che il timore della repressione – possa divenire l’elemento di legittimazione delle Polizie. Il fatto che ci sia un organo che si occupa fattivamente di discriminazione crea una cultura di pace, capace di informare l’operato delle Forze di Polizia che si vedono rappresentate nei territori. Si tratta, conviene Roccatello, di un processo culturale, che è anche soprattutto delle istituzioni, senza il quale non ci può essere transizione.
In un’ottica di State-building, il buon esito dei processi di transizione democratica in atto in vari paesi del mondo dipenderà proprio dalla capacità di far penetrare il valore dell’antidiscriminatorietà nelle istituzioni, come base della loro azione. Solo così tali processi non saranno solamente una reazione al passato, ma risposte per cambiare il presente e il futuro.
Chiara Magneschi è avvocata, ricercatrice aggregata al Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace” e docente a contratto in Teorie giuridiche e politiche e diritti umani presso il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa. E-mail: chiaramagneschi@gmail.com