La distruzione della Foresta Amazzonica: trasformare i conflitti attraverso il diritto
di Matteo La Scala
Spesso i conflitti nascono intorno a una risorsa strategica o estremamente scarsa. Più sfruttiamo il nostro pianeta, più la lista dei beni scarsi aumenta, più aumentano i conflitti per il loro controllo: basti pensare alle nuove “guerre dell’acqua”, dirette conseguenze dei cambiamenti climatici.
Oggi le foreste sono probabilmente uno dei beni più scarsi e contesi sul suolo terrestre: da decenni, esse non riescono più ad assorbire tutta la CO2 emessa in atmosfera e, di conseguenza, non riescono a contrastare il surriscaldamento globale. Inoltre, la loro scomparsa comporta anche la perdita delle funzioni sociali, ecosistemiche ed economiche che queste ricoprono a livello locale.
In questo scenario, la Foresta Amazzonica è il caso più interessante da analizzare, alla luce della sua rilevanza sul piano mondiale e della vastità di attori che si contendono il suo futuro. Un’utile chiave di lettura dei conflitti in corso può essere fornita da alcune considerazioni sul diritto internazionale e sul diritto nazionale degli stati amazzonici: il vigente quadro normativo definisce, infatti, le regole del confronto e consente di comprendere qual è, secondo i vari stakeholders, il futuro auspicabile per la Foresta Amazzonica e quali strade è meglio percorrere per realizzarlo, nel rispetto dei bisogni di base di ciascuno.
Focalizzandosi sul Brasile, protagonista negli ultimi anni di una cattiva amministrazione dell’area amazzonica, un recente articolo pubblicato sulla “Review of European, Comparative & International Environmental Law” valuta l’applicabilità nelle terre indigene dei progetti di protezione ambientale basati sul mercato dei crediti del carbonio finanziati da Banca Mondiale, da programmi delle Nazioni Unite o da altri stati esteri. Contro le aspettative, ciò che emerge dallo studio è la notevole attenzione del sistema giuridico brasiliano per il suo patrimonio ambientale e per le “minoranze” che lo abitano.
La Costituzione Brasiliana sancisce la necessità di difendere l’ambiente, mentre il Codice forestale del 2012 prevede lo sviluppo dei mercati per i servizi ecosistemici. Per quanto riguarda i diritti degli indigeni, la Politica Nazionale per lo sviluppo sostenibile del 2007 riconosce loro il diritto all’integrità territoriale e il rispetto delle risorse naturali. Da Costituzione, gli indigeni non possiedono le terre che occupano, ma esercitano un mandato permanente sulla loro gestione: non sono consentiti atti che limitino il pieno esercizio di tale mandato, anche in virtù dello Statuto dei Popoli Indigeni del 1973. Le terre indigene risultano quindi inalienabili e i diritti su di esse non possono essere soggetti a limitazione. Gli indigeni sono gli unici a potervi svolgere attività produttive traendone profitto, se tali attività sono in linea con le loro tradizioni.
La stessa Costituzione prevede anche che il Parlamento possa autorizzare l’uso delle risorse minerarie o idriche del luogo dopo essersi consultato con gli indigeni, che devono godere anch’essi dei frutti dell’eventuale utilizzo delle risorse. Inoltre, la Dichiarazione delle Nazioni Unite del 2007 sui Diritti dei Popoli Indigeni richiede che gli stati ricevano il consenso libero, preventivo e informato da parte degli indigeni prima di attuare progetti che interessino i loro territori.
Quanto agli accordi regionali degli stati amazzonici, è utile tornare con la mente al 1978 quando il Brasile ideò l’Amazon Cooperation Treaty, firmato poi da Bolivia, Colombia, Ecuador, Guyana, Perù, Suriname e Venezuela. Lo scopo dell’accordo era promuovere l’utilizzo razionale delle risorse per conciliare crescita economica e tutela ambientale, anticipando per molti aspetti il concetto di “sviluppo sostenibile”. Si voleva così promuovere un armonioso sviluppo della regione, distribuendo i benefici fra le parti contraenti attraverso l’incorporazione dei territori amazzonici nelle rispettive economie nazionali. Il trattato è anche in linea con i principi di “salvaguardia forestale” e “sviluppo sostenibile” emersi alla Conferenza di Rio del 1992 e con la successiva elaborazione di indicatori di sostenibilità ambientale. Nonostante una certa convergenza internazionale sui criteri valutativi, sugli approcci utilizzati e sugli obiettivi della sostenibilità, i paesi amazzonici hanno comunque cercato di rielaborare tali concetti, per adattarli agli ecosistemi e ai fattori sociali locali, mirando alla compatibilità con l’uso economico delle risorse naturali.
Nel 1995 i rappresentati degli stati firmatari dell’Amazon Cooperation Treaty si sono riuniti nella città peruviana di Tarapoto, stilando la Tarapoto Proposal: un nuovo documento che, con approccio interdisciplinare, individuava una lista di dodici criteri e indicatori per misurare la sostenibilità dei processi in atto nella Foresta Amazzonica. Essa costituisce, da allora, uno strumento essenziale per la creazione di policies adeguate e per formulare progetti regionali in tema di protezione ambientale e sviluppo sostenibile.
Partendo da queste considerazioni, com’è possibile che uno stato come il Brasile giuridicamente all’avanguardia nella difesa del patrimonio forestale, oggi appaia ai nostri occhi incurante dell’Amazzonia e dei popoli indigeni che la abitano?
Per rispondere può essere utile un’ulteriore riflessione svolta da Manuel Nabais da Furricla che, nell’articolo intitolato The Internationalization of the Amazon, ricorda che il ruolo strategico della Foresta Amazzonica a livello internazionale ha portato a dibattiti riguardanti lo sviluppo futuro dell’intera regione, ma anche che tali dibattiti hanno attirato a loro volta l’attenzione di molti governi e gruppi di interesse. Gli investimenti e gli interventi diretti nel corso degli ultimi due decenni da parte di governi stranieri, ONG e società internazionali volti a preservare la foresta, miravano a una gestione comunitaria della risorsa ma sono stati vivacemente osteggiati dal Brasile, soprattutto negli ultimi anni.
L’autore riconduce queste criticità alla tensione esistente tra due principi del diritto internazionale ambientale: la sovranità e la preoccupazione comune dell’umanità. Da una parte, il diritto di uno stato a controllare il proprio territorio, il suolo sottostante e lo spazio aereo sopra di esso è uno dei principi cardine del diritto internazionale; dall’altra parte, però, nell’esercitare tale diritto uno stato non deve ledere gli interessi, anche ambientali, di un altro stato.
Da questo punto di vista, gli sforzi dei paesi in via di sviluppo per mantenere il controllo sulle proprie risorse trovano la loro ragione nell’opposizione alla liberalizzazione del commercio e degli investimenti, ma cozzano anche contro i tentativi di internazionalizzare la protezione ambientale.
La Dichiarazione di Stoccolma riconosce che alcune questioni ambientali sono di interesse comune a tutta l’umanità e successivi trattati, come la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici della Nazioni Unite, hanno ribadito la necessità di tendere alla cooperazione transnazionale sulle questioni ambientali. Nonostante questo, anche se la comunità mondiale può ritenere necessaria un’azione coordinata per prevenire la deforestazione dell’Amazzonia, questa prospettiva entra in conflitto col diritto del Brasile di esercitare il controllo esclusivo sul suo territorio.
Il concetto di “internazionalizzazione dell’Amazzonia” è nato in Brasile ed è stato più volte ripreso dai media nazionali, esprimendo la paura che la comunità internazionale possa interferire con l’Amazzonia, fino a ricorrere ad un’operazione militare che porti ad un controllo diretto. Sebbene questo possa sembrare assurdo, il timore può risultare comprensibile considerando che le compagnie straniere sfruttano le risorse della nazione dai tempi dell’indipendenza e che altri stati hanno messo gli occhi sull’Amazzonia per la prima volta negli anni ’60 del secolo scorso, quando la si voleva utilizzare come eventuale rifugio in caso di guerra nucleare.
L’ostilità brasiliana nei confronti della comunità internazionale è diventata tale che i politici e l’esercito da anni cercano di limitare l’attività delle organizzazioni ambientaliste internazionali e delle ONG, criticandole come enti che attentano alla sovranità del Brasile. Gli stati vicini del Brasile hanno poi condiviso le medesime preoccupazioni.
I vantaggi derivati dallo sfruttamento esclusivo della sua porzione della Foresta Amazzonica sono tali che difficilmente il Brasile potrà accettare di porvi un limite. Tra i suoi obiettivi principali, quello di garantire l’integrazione nazionale e fisica, portando le risorse dell’Amazzonia nella propria area di competenza e integrando interamente la foresta per impedire ad altri stati di esercitare i propri interessi in loco, ma anche quello di rassicurare aziende nazionali e internazionali sulla possibilità dell’uso delle risorse della foresta. Per fare ciò sono state costruite infrastrutture e sono stati elargiti incentivi a imprese private per aumentare il controllo dell’Amazzonia.
Secondo la retorica “sovranista”, la tutela dell’ambiente è solo un pretesto con cui altri stati possono avanzare pretese sul territorio brasiliano. La stessa retorica ribadisce che se gli stati ricchi del pianeta chiedono l’internazionalizzazione dell’Amazzonia, devono essere altresì disposti a internazionalizzare i loro patrimoni forestali e artistici. Quest’ultimo punto spiega come mai nessuno stato abbia mai proposto una vera e propria internazionalizzazione della foresta: ovunque vi sono patrimoni naturali di ugual valore per l’ecologia mondiale, anch’essi minacciati di distruzione dallo sfruttamento economico.
Come nota Manuel Nabais da Furricla, gli sforzi di internazionalizzazione sono guidati da buoni propositi, ma possono creare contraccolpi e atteggiamenti di chiusura visibili nelle politiche militari ed economiche del Brasile. Stando alle sue parole, i programmi internazionali volti a tutelare l’Amazzonia ne stanno di fatto favorendo la distruzione, non tendendo conto della sovranità nazionale: in ogni caso, qualsiasi piano d’azione internazionale dovrebbe essere guidato dal Brasile.
Alla luce di questi contrasti nati proprio sul terreno giuridico, come ripensare gli strumenti legali di tutela affinché siano capaci di stimolare la cooperazione tra gli stati per tutelare la Foresta Amazzonica dal rischio di distruzione?
Si tende spesso a ritenere che il problema principale siano i governi brasiliani, che hanno messo in atto una cattiva gestione della risorsa, privilegiando lo sviluppo economico di breve periodo rispetto agli interessi nazionali e internazionali di preservazione della Foresta Amazzonica. Si può, di conseguenza, essere portati a pensare che sia ingiusto affidare un bene di interesse globale a un cattivo gestore solo perché esso rientra nei suoi confini territoriali.
Uno sguardo al passato e al diritto nazionale brasiliano, tuttavia, mostra che i principi di tutela ambientale e delle minoranze indigene sono da sempre presenti nel suo ordinamento. L’Amazon Cooperation Treaty (ideato proprio dal Brasile), la Proposta di Tarapoto, la Costituzione brasiliana e altre leggi nazionali mostrano la buona volontà dello stato di tutelare il proprio patrimonio ambientale e gli indigeni. Da questo punto di vista, l’ostilità nei confronti degli aiuti e dei consigli stranieri non sembra derivare dalla semplice volontà di sfruttare la foresta per propri fini economici: tale atteggiamento pare diffuso in ampi strati della popolazione e i governi “populisti”, come quello guidato da Jair Bolsonaro, non fanno altro che alimentare e cavalcare tale ostilità. Gli stessi stati che vorrebbero imporre al Brasile la cooperazione internazionale nella gestione della Foresta Amazzonica, in passato hanno pesantemente sfruttato le sue risorse con pratiche neocolonialiste, facendo nascere nella popolazione il giustificato timore che l’apparente interesse nell’ambiente sia una scusa per perpetrare tali pratiche.
Riconoscendo che il Brasile è una democrazia, che proprio quest’anno rieleggerà i suoi rappresentanti, compito della comunità internazionale dovrebbe essere quello di rassicurare gli abitanti locali subordinando le forme di cooperazione a un principio generale di non ingerenza. In questo modo la cittadinanza brasiliana potrà sentirsi pienamente responsabile del destino della Foresta Amazzonica, decidendo di eleggere chi ha veramente intenzione di tutelarla in quanto parte del loro patrimonio. In altre parole: il Brasile deve tornare ai suoi stessi valori, riscoprendo il diritto nazionale e i suoi impegni internazionali liberamente assunti. Solo quando si sentirà sovrano nei suoi territori, accetterà di buon grado l’aiuto straniero.
A questa prospettiva, ovvero la gestione locale della Foresta Amazzonica col sostegno internazionale, si può proporre come alternativa la gestione internazionale col sostegno locale. Questa proposta però, per essere credibile e attuabile, deve vedere un’internazionalizzazione completa ed egualitaria dei più importanti patrimoni forestali mondiali e la creazione di una competente autorità internazionale che possa amministrarli in forme sostenibili, sfruttando le conoscenze locali in nome della comune preoccupazione dell’umanità.
Matteo La Scala è studente del terzo anno del corso di laurea triennale in Scienze per la Pace dell’Università di Pisa, e tirocinante presso il Centro Interdisciplinare di Scienze per la Pace dello stesso ateneo. Durante il percorso di studi ha approfondito in particolare la transizione ecologica, lo sviluppo dello Sri Lanka e la questione ucraina.