giovedì, Novembre 21, 2024
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L’aborto negli Stati Uniti non è più un diritto costituzionale

di Elettra Stradella

 

1. Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization

Il 24 giugno scorso la Corte Suprema degli Stati Uniti, con decisione assunta a maggioranza (6 – 3) nel caso Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, ha stabilito che la Costituzione degli Stati Uniti non impedisce ai cittadini di ciascuno Stato di regolare o vietare l’aborto, “fenomeno che presenta profonde implicazioni morali”. Ha così superato i suoi precedenti giurisprudenziali che avevano, invece, riconosciuto nel quadro dei principi e dei diritti costituzionali l’affermazione del diritto all’aborto.

A partire da questa pronuncia ciascuno Stato avrà piena autonomia nella regolazione dell’interruzione volontaria della gravidanza, potendo consentirla attraverso una legislazione particolarmente permissiva, ma anche vietarla radicalmente, senza eccezioni, in quanto non esiste una legge federale sulla materia né, secondo la Corte, un fondamento costituzionale del diritto di abortire.

2. Dove inizia il percorso verso l’ovverruling di Roe v. Wade

È dell’aprile del 2007 la prima pronuncia favorevole a un’interpretazione restrittiva del diritto costituzionale all’aborto negli Stati Uniti, come tale costruito dalla Corte Suprema nel caso Roe v. Wade del 1973, pur già parzialmente messa in discussione vent’anni dopo in Planned Parenthood v. Casey, quando la Corte aveva introdotto, per la valutazione della legittimità di previsioni concernenti l’aborto, uno scrutinio definito undue burden test con il quale i giudici avrebbero dovuto valutare l’incostituzionalità di qualsiasi restrizione al diritto di abortire verificando se la limitazione era tale da gravare sul diritto della donna in modo sproporzionato rispetto ai benefici che intendeva determinare. Un test che è stato utilizzato fino ad oggi per sanzionare qualsiasi “onere eccessivo” imposto sulla capacità di decidere della donna in merito a una interruzione volontaria di gravidanza: come ricordato nella sentenza Stenberg v. Carhart del 2000, quando una legge limita un diritto costituzionale garantito (come l’aborto a partire dal 1973) e non ci sono altre giustificazioni per quell’intervento legislativo, se non l’ostilità del legislatore nei confronti di quel diritto, the burden is undue.

Ma nel 2007 alla Corte è arrivato il giudice Samuel Alito, redattore dell’opinione di maggioranza del recentissimo caso Dobbs, e con Gonzales v. Carhart (2007) la Corte ritiene costituzionale una legge federale del 2003, il Partial Birth Abortion Ban Act, con la quale si vietava ai medici di ricorrere a una tecnica abortiva particolarmente cruenta, utilizzabile nel secondo trimestre della gestazione. A fronte della dissenting opinion scritta dalla giudice Ruth Bader Ginsburg, nella quale si sottolinea la gravità di una decisione del genere, e si richiama l’elemento relativo alla tutela della salute della donna, la Corte ritiene che l’incertezza medica non impedisca al legislatore di intervenire sul tema dell’aborto, così come può farlo su altre questioni: insomma la necessità, sancita da Roe, di prevedere eccezioni a eventuali limitazioni dell’aborto quando siano finalizzate a garantire la salute e la vita della gestante, sembra venire meno, e il legislatore può costituzionalmente limitare o impedire l’utilizzo di una determinata tecnica abortiva quando “ethical and moral concerns, ovvero ragioni di ordine etico e morale, stiano alla base del suo divieto.

Anche nell’occasione che qui si commenta, sono le argomentazioni di Alito a consolidare il percorso regressivo della Corte Suprema, che emerge (fatto già di per sé eccezionale e preoccupante, sintomatico del conflitto presente all’interno del collegio) dalla bozza diffusa in anticipo della sentenza Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, di cui il 24 giugno si è avuto conferma.

In quest’ultima decisione la Corte è stata chiamata a valutare la compatibilità con la Costituzione di una legge del Mississippi che vietava sempre l’aborto dopo la quindicesima settimana di gestazione (anche in presenza di stupro e incesto), tranne che in casi di emergenza medica o di gravi anomalie fetali. Poiché la legge si poneva manifestamente in contrasto con quanto stabilito dalla Corte Suprema nella storica sentenza Roe v. Wade del 1973, dove era stato costituzionalizzato, cioè ritenuto direttamente derivante dai principi e dai diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione, il diritto all’aborto, come parte del diritto alla privacy protetto attraverso il XIV Emendamento della Costituzione, la Corte questa volta si è trovata a decidere se continuare ad applicare il precedente, oppure “cambiare idea”, fare cioè ovverruling ritenendo sbagliata e da superare la posizione precedentemente assunta.

Va ricordato, però, che la sentenza Roe non aveva in realtà negato il diritto degli stati a proteggere “la vita umana in potenza”, ma aveva sostenuto la necessità di un bilanciamento e di una diversa graduazione degli interessi in gioco a seconda della fase della gravidanza, tale da condurre a una limitazione del potere dello Stato di incidere sulla scelta di interrompere la gravidanza nel primo trimestre, e alla possibilità di esercitare questo potere nel secondo trimestre, purché in modo ragionevole e con una finalità di tutela della salute della donna. Centrale, in Roe, era l’elemento della viability, vale a dire la possibilità per il feto di sopravvivere al di fuori dell’utero materno, considerata da quella Corte come il criterio determinante nella modulazione dell’incostituzionalità di limiti posti dal legislatore al diritto a interrompere la gravidanza. La legge del Mississippi, in effetti, si limitava a ridurre il periodo della gravidanza durante il quale sarebbe stato ammissibile interromperla, portandolo a 15 settimane (ricordiamo che in Italia questo periodo è pari a 90 giorni, trascorsi i quali l’aborto è possibile esclusivamente qualora la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo di vita per la donna, e quando siano accertati processi patologici che determinino un grave pericolo per salute fisica o psichica della donna).

La scelta dell’overruling operata in Dobbs può dunque essere analizzata da tre punti di vista: quello interpretativo, relativo al pensiero costituzionale che la decisione traduce; quello dell’impatto politico-istituzionale all’interno degli Stati Uniti; e quello, più ampio, del significato che assume in dimensione transnazionale e quale manifestazione del perdurante assetto discriminatorio, caratterizzato da una violenza strutturale e istituzionale, nei confronti delle donne.

3. Dobbs e l’interpretazione originalista

Sul primo punto: la sentenza fa proprio, in modo forte e identificativo, un approccio originalista, con il quale i giudici vanno alla ricerca dell’intento originario dei costituenti cristallizzandolo e negando la legittimità di un’interpretazione evolutiva volta a riconoscere, anche a partire dalle esigenze provenienti dalla società, nuovi e diversi diritti. Il precipitato di questa teoria nel caso in questione è ben rappresentato dalla forza con cui l’opinione di maggioranza critica radicalmente la scelta operata dalla Corte negli anni Settanta: la Corte infatti avrebbe occupato un posto che non le spettava, riconoscendo un diritto costituzionale all’aborto senza che ve ne fosse traccia all’interno della Costituzione, e nella totale assenza di un orientamento in tal senso da parte dei costituenti.

Questo orientamento sulla possibile individuazione di ulteriori diritti costituzionali rispetto a quelli espressamente sanciti, non è certamente univoco, se è vero, ad esempio, che nel 2015 la sentenza Obergefell v. Hoedges ha riconosciuto il diritto al matrimonio tra le persone dello stesso sesso. Certamente, l’individuazione di nuovi diritti, quando essi non siano radicati nella tradizione americana, deve poggiare sulla loro riconducibilità alla dimensione centrale della libertà presente nel XIV Emendamento, ed è su questa che la sentenza Roe aveva costruito il riconoscimento del diritto all’aborto, attraverso il right to privacy, così come nel 2003, in Lawrence v. Texas, erano state ritenute incostituzionali le sodomy laws, lesive del diritto ad avere rapporti consensuali non procreativi (nel caso specifico delle leggi del Texas, in particolare del diritto ai rapporti omosessuali, gli unici sanzionati in quello stato, a differenza di quanto accadeva in altri che censuravano la sodomia in quanto tale). In Dobbs, la corte recupera la visione puramente originalista del dissent di Alito nella sentenza sul matrimonio omosessuale, e applica rigorosamente il “canone della storia” per escludere l’aborto dalla sfera dei diritti fondamentali.

Ma è l’interpretazione costituzionale evolutiva che nei decenni, attraverso una Corte Suprema viva e attiva all’interno della forma di governo, ha permesso di tradurre la Costituzione più antica al mondo in spazi sempre nuovi di eguaglianza e progresso civile e sociale. Negare la legittimità dell’interpretazione evolutiva equivale di fatto a negare una parte fondamentale della storia statunitense, operando una scelta di vera e propria politica costituzionale, a dispetto del richiamato originalismo. Ed è proprio questo che fa la Corte, seppur ammantando di tecnicismo e formalità la decisione, in larga parte orientata su una questione di rapporti tra diritto statale e diritto federale.

L’affermazione dell’approccio originalista appare dunque strumentale al tentativo di attivare per via istituzionale un gender backlash, come appare evidente soprattutto dalle parole della concurring opinion del giudice Thomas, nella quale l’overruling di Roe è presentato come l’inizio di un percorso di ripristino della legalità costituzionale attraverso la progressiva cancellazione di sentenze della Corte Suprema considerate illegittimamente “normative”: il riferimento va in particolare alla già citata Lawrence v. Texas del 2003, sulla illegittimità delle sodomy laws, e alla citata Obergefell v. Hoedges, che ha affermato il diritto al matrimonio per le coppie dello stesso sesso. Ma il ragionamento di Thomas potrebbe probabilmente trovare applicazione addirittura rispetto alla (risalente nel tempo) Griswold v. Connecticut, del 1965, con la quale privacy e diritti connessi alla sessualità, alla corporeità, e all’autodeterminazione, avevano fatto ingresso nella giurisprudenza nord-americana attraverso la dichiarazione dell’incostituzionalità del divieto per le coppie sposate di acquistare e utilizzare mezzi contraccettivi.

L’originalismo, peraltro, per sua “natura”, risulta inutilizzabile in una prospettiva orientata al genere, poiché un’interpretazione che cristallizzi il momento nel quale la Costituzione degli Stati Uniti (così come gran parte delle altre Costituzioni) è stata approvata, cercando di salvaguardare (ad ogni costo) l’intento e l’ideologia costituzionale presenti in quella fase, sarebbe inevitabilmente influenzata dalla fondazione asimmetrica che caratterizza molte Costituzioni, e sicuramente quella statunitense: un patto costituente del quale le donne non sono state parte, perché ancora escluse dai diritti politici.

Ma è anche vero che l’originalismo della maggioranza di questa Corte non riguarda soltanto le questioni di genere. Su questa linea si colloca anche New York State Rifle & Pistol Association, Inc. v. Bruen, pubblicata proprio il giorno prima della sentenza Dobbs, con la quale la Corte ha stabilito che il II e il XIV Emendamento fondano il diritto individuale di portare armi per la propria difesa personale in luogo pubblico e che la legge dello stato di New York (risalente addirittura al 1911), che stabiliva la condizione per cui il soggetto avrebbe dovuto dimostrare una particolare necessità per poterlo fare, avrebbe violato tale diritto.

Come ha scritto Giuliano Amato su “Il Manifesto” del 28 giugno scorso, non ci sono dubbi sul fatto che se leggiamo la Costituzione americana troviamo il diritto a portare le armi e non troviamo il diritto all’aborto. Sembra però esserci una contraddizione nella struttura che l’approccio originalista di questa Corte presenta, nel tempo della crisi della dello stato di diritto e della democrazia (bloccata”, come la definisce sempre Amato nell’articolo citato). Alito, infatti, scrive che non esistendo un diritto costituzionale all’aborto questo può essere oggetto di deliberazione politica, e le donne, per la rivendicazione dei loro diritti, hanno a disposizione gli strumenti che l’eguaglianza politica offre loro per porre i loro interessi e le loro istanze al centro del dibattito e tradurli in legislazione.

Il problema però non è soltanto che la democrazia rappresentativa presenta evidenti e noti problemi di funzionamento nel contesto nord-americano, dove particolarmente scarsa è la partecipazione politica, pressoché costante il contenzioso elettorale, anche per il frequente tentativo dei detentori del potere di controllare e guidare il voto (basti pensare al noto fenomeno del c.d. gerrymandering, attraverso il quale le circoscrizioni elettorali vengono disegnate con il preciso intento di avvantaggiare un partito), ma anche che lo stesso ragionamento non è stato applicato il giorno precedente al caso del porto pubblico di armi. In questa materia è stata infatti recentemente approvata da parte del Senato una legge federale che mirerebbe a limitare il possesso di armi, eppure la Corte non sembra averne tenuto conto nella sua decisione. Certamente, in questo caso il II Emendamento è scritto, e un approccio testualista, che accompagna quello originalista, non potrebbe non tenerne conto, ma mi pare che vengano utilizzati molti pesi e molte misure per il self restraint nei confronti dei processi deliberativi.

D’altra parte, molto diverso nei due casi è anche l’approccio ai rapporti tra diritto federale e diritto statale, se è vero che nella sentenza sulle armi la maggioranza della Corte non si pone troppi problemi a dichiarare incostituzionale una legge approvata più di un secolo fa dallo stato di New York, limitando l’autonomia statale e rifederalizzando la questione; mentre nella sentenza sull’aborto si censura proprio la limitazione all’autonomia statale che il precedente di Roe aveva determinato, lasciando alle “virtù locali” la definizione delle regole sull’interruzione volontaria della gravidanza.

 

4. Dobbs e l’impatto politico-istituzionale negli Stati Uniti

Si giunge così al secondo punto: la sentenza determina uno slittamento del diritto all’aborto dal piano federale, garantito finora attraverso la sentenza Roe v. Wade, a quello statale.

Il modello prescelto dalla Corte in materia di aborto è tale per cui al centro della democrazia statunitense vengono posti i singoli stati, e non la federazione. Oltre al fatto che tale scelta è discutibile perché non sembra collocarsi in una tendenza omogenea alla valorizzazione dell’autogoverno statuale, ma rispondere all’esigenza estremistica di consentire l’espansione di legislazioni statali fortemente repressive dell’autonomia riproduttiva, l’impatto in termini di eguaglianza è evidente: stati diversi (che equivale a dire stati repubblicani e stati democratici) avranno discipline anche radicalmente diverse. Così le differenze politiche si tradurranno in asimmetrie nel riconoscimento dei diritti e, infine, in una strumentalizzazione dei corpi delle donne, oggetto di un conflitto civile e politico che questa sentenza rende ancora più drammatico.

Tale conflitto si manifesta chiaramente nella recentissima emanazione dell’Executive order “Protecting Access to Reproductive Health Care Services”, con il quale il Presidente Biden ordina alla sua amministrazione di adottare una serie di misure delle quali dar conto entro 30 giorni dall’emanazione dell’ordine esecutivo. Tra queste misure si segnala in particolare la garanzia dell’accesso all’interruzione volontaria della gravidanza, incluso l’accesso ai farmaci abortivi, il pieno accesso alla contraccezione, la promozione di una informazione e di una formazione adeguata sui diritti riproduttivi, il sostegno agli strumenti gratuiti di tutela legale per le donne e per le associazioni che accompagnano nel percorso verso l’aborto legale e alla possibilità di spostarsi da uno stato all’altro per ottenere i servizi sanitari di cui si ha bisogno, tra cui l’interruzione volontaria della gravidanza, la garanzia della privacy delle donne che cercano informazioni, anche tramite piattaforme digitali, sull’accesso all’aborto, l’istituzione di una Task Force on Reproductive Health Care Access. È evidente che l’utilizzo dei poteri esecutivi presidenziali quale strumento di attenuazione degli effetti di una decisione della Corte Suprema, espressamente denunciata quale attacco ai diritti fondamentali delle donne, al di là dell’opportunità sostanziale dei provvedimenti assunti e dell’utilità delle misure disegnate, rappresenta un ulteriore passaggio del conflitto tra poteri.

L’invito alla prudenza rintracciabile nell’opinione concorrente del Presidente della Corte Roberts (nella quale il giudice giunge allo stesso judgment, ritenere non incostituzionale la legge del Mississippi, ma attraverso un percorso argomentativo diverso), che sottolinea come la decisione sulla legge restrittiva del Mississippi non richiedesse di arrivare al punto di cancellare il diritto all’aborto riconosciuto nella sentenza Roe, non è stato accolto.

 

5. Dobbs e la regressione transnazionale nella tutela dei diritti di genere

Ma arriviamo all’ultimo punto. Dobbiamo tenere presente che le Corti, in moltissimi paesi del mondo, hanno svolto un ruolo fondamentale nel delineare i confini dell’autonomia riproduttiva, e nel contribuire a identificare l’ordine nel quale si inscrivono le relazioni di genere all’interno della comunità di riferimento, e lo hanno quasi sempre fatto attraverso meccanismi di “bilanciamento”. Un bilanciamento derivante dalla tendenza a individuare all’interno delle Costituzioni, oltre ai diritti connessi alla salute e all’autodeterminazione della donna, anche un principio di protezione della vita umana prima della nascita, sia nei casi in cui ci siano previsioni che vi fanno espresso riferimento, sia dove si limitano a proclamare il diritto alla vita. La giurisprudenza però, anche nei sistemi in cui il dovere del riconoscimento e della protezione del feto presenta un fondamento costituzionale, ha progressivamente fatto emergere livelli crescenti di autonomia in capo alle donne.

Questo fenomeno sembra invece vivere, in particolare a partire dal 2010, numerosi momenti di crisi; una crisi che oggi esplode all’interno di una più ampia tendenza al gender backlash, com’è stato definito: un “contraccolpo” per i diritti “di genere”.

Gli interventi sul corpo delle donne e sulla autodeterminazione rappresentano una delle principali, sebbene non l’unica, manifestazione di questo arretramento, fortemente legata, peraltro, alla crisi dello stato di diritto che caratterizza numerosi ordinamenti segnati da gestioni populiste del potere, in cui rinvigorimento del patriarcato e indebolimento dei principi cardine del costituzionalismo sembrano sempre più integrarsi e confermarsi reciprocamente.

 

Elettra Stradella è professoressa associata di diritto pubblico comparato dell’Università di Pisa, presso il Dipartimento di Giurisprudenza, e membro del Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace”. Presidente del Comitato Unico di Garanzia dell’Ateneo fino al 2021, è attualmente coordinatrice del Gender Equality Plan Team di Ateneo. Insegna Diritto e genere e European Law and Gender, e coordina il modulo Jean Monnet European Law and Gender, finanziato dalla Commissione europea negli anni 2019-2022.