Israele/Palestina: quali prospettive per quale pace?
a cura di Chiara Magneschi
A più di cento giorni dall’escalation del conflitto tra Israele e Palestina, determinata dagli attacchi del 7 ottobre e dall’inizio della guerra su Gaza, le prospettive di pace appaiono sempre più urgenti e, al tempo stesso, sempre più difficili via via che la Striscia è resa invivibile dai continui bombardamenti e dall’assedio totale, e che nuovi focolai di violenza armata si accendono nella regione.
In questo contesto, è utile ricordare quanto emerso dal seminario “Israele/Palestina: quali prospettive per quale pace?”, organizzato dal Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace” dell’Università di Pisa lo scorso 11 dicembre: ora che la diplomazia internazionale, dai paesi arabi all’Unione Europea, dalla Cina agli Stati Uniti, fino al Segretario Generale delle Nazioni Unite sembra riconoscere la necessità di creare uno Stato palestinese con piena sovranità, trovando la netta chiusura del governo israeliano, le riflessioni svolte nel corso del seminario possono fornire vari elementi di riflessione.
L’iniziativa è stata introdotta dai saluti di Valentina Mangano, Direttrice del CISP, e da Giorgio Gallo, co-fondatore del CISP e del corso di laurea in Scienze per la pace, ed è stata poi moderata da Renata Pepicelli, esperta di storia sociale del mondo arabo-islamico contemporaneo.
Gallo ha espresso molta incertezza sulle prospettive di sviluppo del conflitto, comprese le prospettive di pace. L’operazione militare israeliana, a fronte di un elevato e inaccettabile costo umano, non sta riuscendo nell’obiettivo dichiarato di “sradicare Hamas da Gaza”: dall’inizio dei bombardamenti sulla Striscia il suo consenso presso la popolazione locale è significativamente aumentato, come riconosciuto da Robert A. Pape in un intervento pubblicato su Foreign Affairs. La categoria di “terrorismo”, di per sé problematica, è utilizzata dall’Occidente con un evidente doppio standard: identifica soltanto i propri “nemici”, mentre non denuncia la violenza deliberata sui civili a scopo di terrore da qualsiasi parte essa provenga, compresi il governo e l’esercito israeliani. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, a differenza dell’Assemblea Generale, non riesce ad approvare il “cessate il fuoco umanitario” a tutela della popolazione civile di Gaza, paralizzato dal potere di veto invocato dagli Stati Uniti.
In questo quadro, la costruzione di una vera pace richiederà molto tempo e un totale cambio di prospettiva: essa non potrà essere imposta dall’alto, sulle macerie e sui morti, ma dovrà necessariamente ripartire dal basso. E se il problema fosse anche il nostro immaginario, che non riesce a concepire le comunità politiche se non come Stati nazionali tendenzialmente omogenei, fondati su un rapporto esclusivo ed escludente tra un popolo e la “sua” terra? Bisognerebbe puntare sulla formazione di una società democratica e plurale, sia in Palestina che in Israele. La storia della decolonizzazione mostra quanto l’indipendenza da sola, senza una profonda democratizzazione della società, non porti a una vera liberazione.
Laura Silvia Battaglia, giornalista e documentarista freelance esperta in Medio Oriente, ha aperto gli interventi condividendo la propria esperienza nei territori palestinesi occupati, da ultimo nel marzo 2023 insieme a un’organizzazione non governativa che si occupa di persone con disabilità: le prime a soffrire e morire in guerra, ma anche quelle più invisibilizzate. Durante quel soggiorno ha potuto constatare come lavorare a Gaza, in particolare come giornalisti e volontari di ONG, fosse quasi impossibile a causa della persistente occupazione di fatto da parte di Israele. Emblematica, a questo proposito, l’iniziativa israeliana di creare un’organizzazione di “copertura” col compito di controllare i palestinesi e gli “stranieri” solidali presenti sul territorio, a partire dalle loro relazioni interpersonali e dai loro movimenti. Quando la reale natura di questa organizzazione è venuta allo scoperto, la risposta del governo di Hamas è stata dura: da allora il clima di sospetto è aumentato, rendendo ancora più difficile entrare nella Striscia come giornalisti internazionali.
Quanto alle prospettive future di pace, secondo Battaglia il 7 ottobre e la successiva guerra su Gaza hanno segnato un mutamento irreversibile del panorama: il livello di violenza e distruzione senza confronto rispetto a precedenti operazioni militari israeliane nella Striscia, rende molto difficile il prossimo riavvio di trattative dirette tra le parti per una soluzione del lungo conflitto. Nel futuro prossimo non è prevedibile neanche un altro cessate il fuoco, cosa che rende la sorte degli ostaggi israeliani presi da Hamas molto incerta. In questo scenario, quali sono gli attori internazionali che possono svolgere un ruolo? Escludendo decisamente che le Nazioni Unite possano intervenire direttamente, ad esempio con l’invio di caschi blu (che Israele rifiuta categoricamente), è verosimile che gli Stati Uniti assumano un ruolo da protagonisti.
C’è grande incertezza sulle effettive intenzioni di Israele rispetto a Gaza: le opzioni vanno dal ritorno di un controllo militare diretto, all’affidamento del controllo all’attuale Autorità Nazionale Palestinese guidata da Fatah, partito palestinese rivale di Hamas, fino all’allontanamento di gran parte della popolazione palestinese e di una ripresa della colonizzazione israeliana. Secondo Battaglia, tuttavia, sarà soprattutto l’amministrazione statunitense attuale e futura a decidere l’assetto dei territori nel dopo-guerra: al di là delle dichiarazioni ufficiali, la realizzazione di una “soluzione a due Stati” sembra comunque molto improbabile.
Francesco Mazzucotelli, docente di Storia della Turchia e del Vicino Oriente all’Università di Pavia, ha richiamato l’attenzione sul fatto che la Cisgiordania, occupata da Israele dal 1967, è parte integrante del conflitto in corso: qualsiasi negoziato per la pace non potrà non tenerne conto. Proprio nella prospettiva di una pacificazione duratura, cui occorre riflettere nonostante tutto, occorre imparare dagli errori commessi in passato ad esempio con i cosiddetti “Accordi di Oslo”. La stessa Autorità Nazionale Palestinese (ANP), spesso presentata come l’embrione di un futuro stato, nasceva in una forma assai problematica, se non altro perché sprovvista di piena sovranità su tutti i Territori occupati: si trattava di soluzioni transitorie, in vista di un accordo definitivo anche sui confini, accordo che è stato costantemente posticipato e, alla fine, mai realizzato.
Dal 2000/2001 in poi il quadro politico nel quale erano nati gli Accordi di Oslo ed era stata affrontata la “questione palestinese” è progressivamente mutato: i negoziati di Camp David sono falliti; gli Stati Uniti si sono impegnati nella “guerra globale al terrore” seguita all’11 settembre; sono mutate le maggioranze politiche in Israele, con un fronte crescente di ostilità al processo di pace e una ripresa massiccia degli insediamenti in Cisgiordania; l’ANP è stata percepita come sempre più debole e subordinata a Israele, mentre cresceva soprattutto a Gaza il consenso per Hamas percepito, nella sua radicalità, come più determinato.
Secondo Mazzucotelli l’occupazione israeliana della Cisgiordania è emblematica dell’attuale situazione. La colonie israeliane non solo solo aumentate di numero, ma sono divenute vere e proprie città invece che semplici avamposti; sono proliferati i check points;è stata costruita la “barriera di separazione” lungo il confine con Israele; le porzioni di territorio controllate direttamente o indirettamente dall’esercito israeliano sono cresciute. Il risultato di questi processi è stato il venir meno di ogni prospettiva di pace: né la soluzione a due Stati, né la creazione di un unico stato democratico multinazionale e multireligioso hanno oggi speranza di concretizzarsi. Altrettanto impraticabile appare la strada, proposta da alcuni studiosi, dei cosiddetti “Stati paralleli”: due entità giuridico-politiche, quella israeliana e quella palestinese che si sovrapporrebbero sui vari territori condivisi e co-governati. Eppure, il fallimento di tutte queste opzioni ci insegna qualcosa: nessuna soluzione pensata a tavolino potrà veramente portare pace nella regione se non partirà dal riconoscimento di pari diritti a tutte le persone che vi abitano, e se non sarà radicata nella stessa società civile israeliana e palestinese.
Luigi Daniele, docente di Diritto internazionale umanitario e penale alla Nottingham Trent University, ha condiviso col pubblico il suo sconcerto per la situazione nei territori palestinesi e in particolare a Gaza. Il conflitto in corso presenta caratteristiche inedite, di cui occorre prendere consapevolezza: il livello di disumanizzazione dei palestinesi, di cui forse pochi si rendono conto, è al massimo; i principi fondamentali del diritto internazionale umanitario, frutto dell’esperienza storica di conflitti sempre più cruenti fino alle due guerre mondiali, vengono violati in modo plateale.
È il caso, in particolare, dell’obbligo di distinzione tra civili e combattenti, obbligo che non viene mai meno neanche in caso di risposta a un attacco subito. Evidentemente l’esercito israeliano considera ormai tutti i palestinesi come combattenti, come nemici. Lo dimostra anche il fatto che, oltre a residenze private dove avrebbero vissuto singoli militanti di Hamas, sono stati attaccati obiettivi civili come ospedali e scuole, ma anche luoghi di culto e università.
Si arriva al punto di voler negare ciò che sta avvenendo, delegittimando ad esempio le fonti palestinesi (più precisamente, di Hamas) relative al numero delle persone uccise sotto i bombardamenti di Gaza. La rivista scientifica The Lancet ha pubblicato uno studio che mostra come non ci siano prove che i dati sulle vittime forniti dal Ministero della Sanità della Striscia siano alterati: all’11 dicembre, giorno del seminario, si contavano circa 18000 morti, di cui quasi 8.000 bambini e più di 5.000 donne, e quasi 50.000 feriti gravi. A distanza di un mese e mezzo, le persone uccise hanno superato le 25.000: più dell’1% della popolazione totale di Gaza è morto sotto i bombardamenti, per i loro effetti o per le conseguenze per prolungato assedio totale della Striscia. Per altro, l’organizzazione non governativa svizzera Human Rights Monitor ricorda che tali numeri non includono le numerose persone che si trovano sotto le macerie da troppo tempo per poter essere ancora vive.
La situazione dei sopravvissuti è sempre più catastrofica. Sono poche le strutture mediche ormai funzionanti, a corto di medicinali e sostane anestetiche. Centinaia di migliaia di persone hanno lasciato le loro abitazioni, distrutte o a rischio distruzione, e sono sfollate interne: vivono in tende, in condizioni estremamente precarie. A causa del blocco e dei rallentamenti nelle forniture, la fame e la mancanza di acqua potabile rischiano di fare migliaia di altre vittime.
Purtroppo, secondo Daniele, la giustizia internazionale sembra non godere di credibilità. Da anni le organizzazioni per i diritti umani chiedevano insistentemente l’intervento della Corte Penale Internazionale, affinché indagasse sui possibili crimini di guerra commessi dall’esercito israeliano nei suoi periodici attacchi a Gaza, in risposta al lancio di razzi da parte di Hamas: nessuna di queste richieste ha avuto seguito, dando luogo spesso a lunghe questioni procedurali.
Anche per questo, aggiungiamo, nonostante la visita del Procuratore della Corte Penale Internazionale al valico di Rafah a Sud di Gaza, l’attenzione si è oggi rivolta alla Corte Internazionale di Giustizia, presso la quale a fine dicembre il Sudafrica ha avviato un procedimento contro Israele per violazione della Convenzione sul genocidio del 1948.
Per quanto riguarda le prospettive, Daniele ha suggerito la necessità di (ri)partire dal principio dell’uguaglianza dei diritti e della pari dignità tra gli esseri umani: insistere su tale principio, solo apparentemente scontato, è necessario per invertire la tendenza in atto a disumanizzare i propri antagonisti, come emerge chiaramente dalle dichiarazioni di numerosi esponenti del governo e dell’esercito israeliani, dichiarazioni analizzate e criticate da vari soggetti, tra cui l’organizzazione pacifista israeliana Breaking the silence, composta in gran parte da ex soldati e obiettori di coscienza.
Oltre alle vittime e ai danni sofferti dalla popolazione di Gaza, questa guerra potrebbe dar luogo a un temibile precedente: se lasciassimo che i principi del diritto internazionale umanitario vengano violati impunemente, senza intervenire o peggio continuando ad avallare la risposta militare di Israele, l’intero edificio giuridico che sostiene la comunità mondiale ne sarebbe colpito e vacillerebbe. Nulla incrina di più la fiducia nel diritto, infatti, che la sua disapplicazione impunita o la sua applicazione secondo doppi standard.
Martina Pignatti Morano, dirigente dell’associazione per la solidarietà internazionale “Un Ponte Per”, ha evocato la necessità di decolonizzare innanzitutto il nostro sguardo e il nostro modo di affrontare il conflitto Israele/Palestina, per poter riaprire vere prospettive di pacificazione. I fallimenti dei passati processi di pace sono anche stati causati dal fatto di essere sempre condotti dall’alto, di non nascere dal dialogo e dall’iniziativa delle comunità palestinesi e di quelle israeliane contrarie all’occupazione e alla guerra.
Pignatti Morano ha rievocato le grandi manifestazioni per chiedere il cessate il fuoco immediato, promosse da esponenti pacifisti della diaspora ebraica statunitense: come il sit-in che il 28 ottobre ha occupato con centinaia di persone la Grand Central Station di New York, e che ha portato a decine di arresti tra i manifestanti. A partire da questi incoraggianti eventi di mobilitazione “dal basso”, è importante promuovere alleanze tra tutti coloro che non ritengono praticabile né accettabile una soluzione militare al conflitto tra Israele e Palestina: occorre far crescere nella società civile, anche europea e italiana, la fiducia nella forza della disobbedienza civile come strada per la pace, alternativa a quegli strumenti istituzionali che troppo spesso non hanno funzionato (come nel caso del programma di peacebuilding delle Nazioni Unite che, paradossalmente, non ha progetti in corso in Medio Oriente). Tra questi strumenti, anche quelli messi a punto da tempo dalla campagna BDS possono essere efficaci.
La via per la pace parte dal cessate il fuoco permanente e dalla fine dell’assedio totale della Striscia di Gaza. Bisogna far crescere l’indignazione verso il rischio di genocidio in corso, nella società civile occidentale ma anche in quella israeliana: occorre far radicare l’idea che non ci può essere sicurezza senza pace, e che non ci può essere pace senza la fine dell’occupazione e il riconoscimento dell’autodeterminazione del popolo palestinese. Nella consapevolezza che gli eventi del 7 ottobre hanno radicalizzato una parte della società israeliana e che la guerra in corso, con le sue enormi sofferenze, rappresenta un nuovo ostacolo al mutuo riconoscimento e a percorsi di pacifica coesistenza.
Chiara Magneschi è avvocata, ricercatrice aggregata al Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace” e docente a contratto in “Teorie giuridiche e politiche e diritti umani” presso il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa.