sabato, Aprile 27, 2024
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Il colpo di stato in Cile attraverso gli occhi di un testimone

Nel 1970 Salvador Allende, leader del Partito socialista, vince le elezioni in Cile alla guida di Unidad Popular: una coalizione di sinistra che si propone di nazionalizzare industrie e risorse naturali, a partire dalle miniere di rame. Queste misure alimentano le speranze popolari ma scatenano una forte opposizione nei settori conservatori, dentro e fuori il paese. Proteste contro la nazionalizzazione delle società di trasporto culminano nel 1972 in uno sciopero che incrina la stabilità del governo. Dopo un primo tentativo di colpo di stato nel giugno 1973, l’11 settembre dello stesso anno navi militari occupano il porto di Valparaíso e danno avvio a un nuovo golpe, questa volta con successo. Allende muore suicida durante i bombardamenti del Palazzo presidenziale della Moneda. Augusto Pinochet assume il potere, scioglie l’Assemblea Nazionale e attua una feroce repressione, con migliaia di vittime e detenuti politici. Documenti recentemente declassificati dalla CIA in tre mandate (fine agosto, inizio settembre, metà novembre) dimostrano il coinvolgimento degli Stati Uniti nel colpo di stato e nel sostegno al regime. Il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa ha organizzato lo scorso dicembre un evento pubblico in occasione del cinquantesimo anniversario del golpe cileno. Chiara Nencioni ha intervistato uno dei relatori, David Muñoz Gutierrez, esule cileno e rifugiato politico in Italia. L’intervista spazia dalla sua esperienza politica alla sua testimonianza diretta del golpe, fino alle recenti vicende del paese: lo scorso 17 dicembre il Cile ha concluso il processo costituente iniziato nel 2019, senza essere riuscito a modificare la vigente Costituzione voluta proprio da Pinochet, nel 1980.

Quando hai iniziato a occuparti di politica e perché?

In tutti i paesi c’è un Nord e un Sud, quartieri alti per i ricchi e quartieri bassi per i poveri. Dalle mie parti c’erano paesini abitati da miseri contadini circondati da tante terre, tutte appartenenti a grandi proprietari terrieri. Vedendo questo, uno si domanda: “perché c’è questa divisione? Si può cambiare?”. Poi, a quattordici anni, ho incontrato degli attivisti della Gioventù socialista, da loro sento parlare di questo politico, Salvador Allende, che si occupava dei poveri nonostante fosse benestante, e così mi unisco al gruppo.

Entrato al liceo, alle elezioni vengo eletto rappresentante. Portavamo avanti iniziative per gli studenti. Ad esempio: al liceo c’erano soltanto tre classi, per terminare il percorso, bisognava frequentare le ultime in un altro paese. La mia prima battaglia è stata che ci fosse nel mio paese un liceo completo, e alla fine l’ho vinta. La seconda battaglia in cui mi sono impegnato è stata per la possibilità di aver colazione e pranzo a scuola, perché tanti studenti provenivano dalla campagna, facendo 3-4 chilometri a piedi nel fango per venire a lezione. Al Congresso del 1969 sono eletto vicesegretario della Gioventù socialista. Nel 1970 il nostro sogno diventa realtà: Salvador Allende diventa Presidente. È il coronamento di una battaglia durata 14 anni, risultato di una grande alleanza anticapitalista e antimperialista per riscattare le risorse del paese, prima fra tutte il rame, che era chiamato “lo stipendio del Cile”. Quello stesso anno, i compagni mi mandano a Temuco per studiare la riforma agraria di Allende.

L’11 settembre 1973, giorno del golpe, tu eri a Santiago. Ci racconti quello che hai visto? Come lo hai vissuto?

Il 29 giugno ‘73 c’era stato un tentativo di colpo di stato perpetrato da una caserma con carri armati. II generale dell’esercito si era messo da solo con la sua mitraglietta davanti al primo carro armato e aveva obbligato il soldato a scendere dal mezzo e ordinato a tutti di deporre le armi. Tuttavia i golpisti avevano già sparato molti colpi uccidendo anche un giornalista svizzero, la cui telecamera, però, aveva continuato a riprendere tutta la scena. Quella sera a Santiago c’è stata una grande manifestazione a sostegno di Allende. Erano mesi di grande tensione, arrivavano notizie drammatiche, la destra faceva sempre più attentati. Sabotavano i ponti, le strade, le condutture del gas, manipolavano i media, che erano tutti, tranne uno, in mano loro. Il partito allora chiama tutti i segretari provinciali per vedere come andavano le cose nelle varie parti del paese. La riunione era fissata per i giorni 7, 8 e 9 settembre. Domenica sera, 9 settembre, si tiene una grande manifestazione a sostegno di Allende nello stadio, quello stesso stadio che tre giorni dopo diventa il più grande centro di detenzione e di massacro da parte dei golpisti. Lunedì 10 io e i miei compagni del Sud andiamo in qualche ministero nella capitale. C’era nervosismo. Martedì 11 settembre ci svegliamo con i carri armati nelle strade e a tutte le radio marcette militari. Cerchiamo di recarci alla sede del comitato centrale del partito ma non ci riusciamo. Si sentivano spari ovunque. Torniamo indietro e ci uniamo ad altri che ascoltavano cosa stava succedendo all’ultima emittente che ancora trasmetteva, Radio Magallanes. Ascolto Allende che dice di rimanere nelle fabbriche e nelle case, di non lasciare il lavoro; poi, alle 9:55, il suo ultimo discorso, prima del suicidio eroico mentre bombardano il palazzo presidenziale della Moneda. Poco dopo si sente il bando dei militari che ordinano di non uscire di casa, pena l’uccisione.

Cosa successe nei giorni seguenti a quell’ “amaro mese di settembre”, per usare le parole di Neruda? Avevi un mandato di cattura: vivo o morto. Come ti sei salvato?

Dopo l’annuncio del golpe ritorniamo in albergo. La notte tra il 12 e il 13 entrano 40 militari con il finto pretesto che dalle finestre si era sparato contro i soldati, ci spingono tutti in corridoio, facce al muro e mani alzate, poi perquisiscono tutte le stanze. Noi avevamo già distrutto tutti i documenti compromettenti, ma un mio compagno aveva ancora un foglio del sindacato democratico dei tassisti. I militari ci chiamano e ci interrogano, io vengo picchiato due volte con il calcio del fucile, cosa che mi ha causato mal di schiena per un anno. Al compagno non venivano le parole, quindi parlo io e mi invento una storia per giustificare quel foglio.

Ci salviamo solo perché in corridoio avevano fermato 7-8 uomini, che facevano parte di un sindacato. II capo aveva chiamato i due soldati che ci avevano presi dicendo: “finalmente abbiamo trovato un po’ di comunisti!”. Poi ci spingono in camera e ci chiudono dentro. Quei compagni sono stati portati via e non se ne è saputo più niente. Dopo l’albergatore ci riunisce tutti nella hall: ci studiavamo a vicenda per cercare di capire se fra di noi c’era qualche infiltrato, qualche spia.

Nei giorni successivi, pur permanendo il coprifuoco, viene consentito a chi era rimasto bloccato a Santiago di tornare a casa. Come mai tu hai scelto di non tornare?

I compagni mi hanno detto che mi avrebbero avvisato se era sicuro per me tornare. Qualche giorno dopo, un cugino mi avverte di non andare al Sud perché ero ricercato “vivo o morto” e il mio volto, con una taglia, era appeso dovunque: sui pali della luce, alle fermate del bus. Allora vado da uno zio paterno che abitava a Santiago. Mi ha accolto e nascosto, sebbene fosse pericoloso, perché in TV minacciavano che chi aiutava “i comunisti” sarebbe stato ucciso.

Sua moglie gestiva una scuola d’infanzia e lui un istituto statale. Cercavo di andare in giro a raccogliere qualche informazione quando arrivavano i genitori a prendere i bambini a scuola, così mi mimetizzavo nella folla. Tre amici mi hanno dato dei soldi per sopravvivere. Ho cercato di camuffarmi e cambiare fisionomia: ho tagliato i capelli, ho iniziato a indossare maglioni dolce vita e mi sono fatto crescere i baffi. È da allora che li porto! Vivo così quasi un mese. Poi, tramite contatti con cristiani socialisti, una suora “in borghese” bussa alla porta di casa di mio zio. Mi viene a prendere, mi nasconde fra le ceste di un furgone fino a un convento e mi dice il suo nome. Il giorno dopo, con un’altra suora, mi aiuta a scavalcare il muro dell’ambasciata italiana, dicendo: “sono Valeria, saluta di là tutti quelli che ho aiutato a scavalcare prima di te”.

Hai più avuto notizie di questa suora?

Una volta, alla Festa dell’Unità a Bologna, ho trovato un libro scritto dal diplomatico italiano Roberto Toscano nel quale si parlava di suor Valeria, che lamentava venisse fatto poco per i profughi cileni. A settembre di quest’anno Paolo Tessadri ha realizzato un documentario intitolato La salvatrice, sulla vita di Valeria e di altre suore che aiutavano i rifugiati e così ho scoperto che fine ha fatto: è stata arrestata due volte per la sua attività clandestina ed è stata soprannominata “la salvadora” proprio perché ha salvato oltre 600 perseguitati dal regime cileno. Quando è tornata in Italia, si è stabilita al Nord (era originaria di Badia), si è smonacata e si è sposata con un prete, Carlo Pizzinini, che a sua volta si è spretato: l’aveva conosciuto proprio in Cile, e con lui ha poi avuto due figli. Anche Carlo faceva parte della rete di una dozzina di persone che aiutavano gli oppositori a scappare. Lei è morta nel 2002, a 65 anni. Su “L’Espresso” del 3 novembre 2023 è uscito un articolo di Paolo Biondani dedicato a lei, dal titolo Suor Valeria, l’eroina italiana contro Pinochet.

Quanto sei rimasto all’ambasciata italiana?

Sono entrato il 9 ottobre del ’73 e sono uscito il 20 agosto del ’74 quando, con una macchina diplomatica, mi hanno scortato fino alla scaletta di un aereo diretto in Italia.

Quando sei arrivato in Italia che impressione hai avuto?

In Italia c’era allora il più grande partito comunista dell’Europa occidentale. A quei tempi in Occidente c’erano vari movimenti di sinistra nei quali venivano raccontate le vicende del Cile. Vedevi la gente commossa, che ti cercava di aiutare il più possibile. Il momento che più mi ha colpito è stato l’11 settembre del ’74: mi hanno invitato a Torino a un congresso in occasione del primo anniversario del golpe e lì c’erano 200.000 persone!

Era un momento storico importante, quello. C’erano due mondi: uno capitalista e uno socialista. C’erano i paesi africani che lottavano per concludere o stabilizzare la loro liberazione dal colonialismo. C’erano in Europa – penso alla Spagna, al Portogallo e alla Grecia – regimi dittatoriali e anche in molti paesi dell’America Latina, dove sono stati commessi crimini sistematici: più di 30.000 desaparecidos in Argentina e 38.000 in Cile, oltre ai circa 2.000 morti accertati.

Gli eventi del Cile hanno in qualche modo condizionato anche la politica italiana: Enrico Berlinguer diede del nostro golpe una lettura funzionale al lancio del “compromesso storico”. Non a caso, il 12 ottobre 1973 scrisse su “Rinascita” un articolo intitolato Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile. Per i comunisti italiani, quella cilena era una lezione che parlava direttamente all’Italia.

Veniamo ai nostri giorni: come è avvenuto il processo che ha portato alle proteste prima, poi alle elezioni dell’Assemblea costituente del 2021 e alle elezioni di Boric nel dicembre del ’22?

Anche dall’esilio, non ho mai smesso di seguire la politica del Cile. Pinochet non lo abbiamo sconfitto noi: ha solo seguito il consiglio di lasciare il governo, è rimasto a capo delle forze armate fino al 1998 e poi senatore a vita, godendo dell’immunità parlamentare. Non ha mai scontato una pena e, come molti dittatori, è morto nel suo letto. Ciò ha portato anche alla trasformazione dei partiti della sinistra: i socialisti, ad esempio, hanno aderito al neoliberismo e io, per questo, non ho più preso la tessera.

C’è stato a lungo una sorta di patto segreto: facciamo finta di cambiare tutto per non cambiare niente, come si dice ne Il Gattopardo. Nella sostanza la Costituzione voluta da Pinochet è rimasta in vigore. Hanno fatto votare una riforma costituzionale che non alterava in modo sostanziale la Costituzione del dittatore e, alle prime elezioni “libere”, il suo candidato ha preso il 48% dei voti continuando a privatizzare le scuole, la sanità, le strade, l’elettricità.

Nel corso degli anni il malcontento e il bisogno di cambiamento è cresciuto. Nel ’21 l’aumento del prezzo del biglietto della metro ha dato avvio a una rivolta degli studenti che poi si è estesa ai professori, ad altri dipendenti pubblici e agli abitanti dei quartieri popolari con lo slogan “non sono 30 pesos [l’aumento del biglietto] ma sono 30 anni [dalla fine della dittatura, in cui poco o nulla è cambiato]”. Si sono sommate alle proteste le rivendicazioni per la scuola pubblica, l’insegnamento libero, la sanità pubblica. Si è creato un grande movimento di un milione di persone che ogni venerdì si riunivano in Plaza de la Unidad e dove ha preso piede l’idea di dover cambiare la Costituzione. Si è arrivato così a un accordo tra i partiti e il governo, creando un “Piano per la pace sociale in Cile” che prevedeva un referendum sulla Costituzione vigente e l’elezione di un’Assemblea costituente con il 50% di donne e i rappresentanti dei popoli autoctoni indios e dei partiti indipendenti. Le elezioni per la Costituente si sono svolte nel 2020 e hanno visto una maggioranza di candidati eletti nelle liste favorevoli a una riforma radicale del testo costituente: come Presidente è stata eletta una donna mapuche. I 150 costituenti a maggioranza progressista hanno lavorato in modo straordinario, elaborando una Costituzione molto avanzata composta da oltre 300 articoli e più di 70 provvedimenti transitori. Il Presidente in carica, il giovane progressista Boric, espressione dei movimenti sociali di protesta, ha sostenuto il lavoro della Costituente.

Ma poi, il 4 settembre 2022, la nuova Costituzione è stata bocciata al referendum confermativo.

La legge prevedeva che, per approvare la nuova Costituzione, occorresse un referendum di conferma. Sono andati alle urne 14 milioni di persone, anche quelli di destra che invece avevano disertato le elezioni per la Costituente. 2 milioni e mezzo di persone hanno votato scheda bianca o hanno invalidato le schede, e c’è la netta sensazione che il voto negativo sia stato spesso “comprato”. La grande maggioranza dei mezzi di comunicazione, in mano alla destra, ha fatto una campagna contro la nuova Costituzione alimentata di falsità e sciocchezze. Alla fine, il 62% dei votanti ha respinto la Costituzione.

In molti hanno voluto dare la responsabilità del fallimento al Presidente Boric, ma lui non c’entra. Il suo impegno per la democrazia è fuori discussione: ha pure varato una legge per continuare a cercare i desaparecidos. La verità è che ormai, in America latina, non si fanno più i colpi di stato militari, ma amministrativi, gettando fango e calunnie sui presidenti democratici.

Dopo la bocciatura del progetto di riforma progressista, che ne è stato del processo costituente?

Dopo la bocciatura del 2022, il processo costituente è andato avanti. A gennaio 2023 è stata nominata una Commissione di 24 esperti di alto profilo, designati dal Congresso cileno e non eletti direttamente dal popolo, dunque non espressione delle diverse classi e componenti sociali come in precedenza. Il testo elaborato dalla Commissione, tenendo conto di 12 principi base pre-concordati con i partiti, è stato poi sottoposto alla discussione e alla modifica di un Consiglio Costituzionale eletto, composto da 50 membri: in queste elezioni, svoltesi a maggio 2023, ha prevalso il blocco ultra-conservatore guidato da José Antonio Kast, che ha ottenuto 33 seggi su 50: più dei tre quinti richiesti per poter approvare modifiche al testo elaborato dalla Commissione degli esperti.

Diversamente da quanto avvenuto in precedenza, questa seconda fase del processo costituente è stata caratterizzata dall’indifferenza della maggior parte della popolazione e, soprattutto, da un risultato finale che valuto come tutt’altro che progressista, anzi in linea di continuità con la Costituzione del 1980, se non persino più conservatore, ad esempio in materia di diritti sociali. Il 17 dicembre scorso, per la seconda volta negli ultimi quindici mesi, i Cileni hanno rigettato anche questo secondo testo, con una maggioranza del 55,7%.

Il Presidente Boric ha definito concluso il processo costituente. La delusione nell’area progressista è molto forte. La sinistra, come dovunque purtroppo, era divisa e fino all’ultimo indecisa se votare sì o no alla nuova Costituzione. Questo esito rispecchia la situazione generale di un paese, segnato da una profonda ferita storica, in cui è ancora difficile una vera riconciliazione democratica.

(Intervista chiusa in redazione il 21 gennaio 2024).

Chiara Nencioni, già dottore di ricerca in filologia greca, è attualmente dottoranda in Storia presso l’Università di Pisa. Collabora con l’Università di Firenze e con la rete degli Istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea. Ha pubblicato numerosi saggi sulla Shoah, sul confine europeo orientale e sul genocidio di Srebrenica.