Il diritto internazionale nel conflitto Israele/Palestina. Intervista a Luigi Daniele
Il diritto e la giustizia internazionali svolgono un ruolo cruciale nel conflitto israelo-palestinese, soprattutto nell’escalation di violenza iniziata dal 7 ottobre, ma non è sempre agevole comprenderne i termini esatti e soprattutto le implicazioni concrete. Luigi Daniele insegna Law of Armed Conflicts alla Nottingham Trent University e fa parte del Centre for Rights and Justice presso la medesima università. Lo abbiamo intervistato per ricostruire l’intricato quadro giuridico relativo al conflitto armato in corso a Gaza, dall’attacco di Hamas del 7 ottobre alla successiva risposta militare del governo israeliano. Alcuni di questi temi, a partire dal fondamento e dai limiti della legittima difesa da parte di Israele e dallo status di “territorio occupato” proprio di Gaza, sono temi ricorrenti del dibattito pubblico che non sempre vengono affrontati con la dovuta correttezza. A essere controversa è la natura stessa del conflitto in corso, essendo la statualità palestinese oggetto di diverse interpretazioni e rivolgendosi di fatto l’attacco israeliano non solo contro Hamas ma contro un’intera popolazione, ovvero i 2,3 milioni di abitanti di Gaza. Dall’intervista emerge chiaramente come il diritto possa e debba svolgere un ruolo essenziale per garantire la pace e la sicurezza internazionali, limitando quanto più possibile l’uso della forza, individuando e perseguendo le responsabilità per crimini commessi nei conflitti armati, prevenendo genocidi e altri gravi crimini internazionali. Affinché il diritto possa svolgere questo ruolo, la sua applicazione deve però essere equa e uniforme, non arbitraria e selettiva: il rischio, viceversa, è quello di far perdere ogni credibilità allo strumento giuridico e alle istituzioni, come le Nazioni Unite e le Corti internazionali, chiamate a garantirne l’effettività.
Qual è lo statuto giuridico del territorio di Gaza in quanto “territorio occupato”? Come inquadrare, da questo punto di vista, l’attacco di Hamas e di altri gruppi armati del 7 ottobre e la risposta militare del governo israeliano?
La maggioranza di studiosi, ONG e organismi delle Nazioni Unite considerano il territorio di Gaza ancora occupato. È vero che il ritiro delle forze di terra dalla Striscia, nel 2006, ha fatto venire meno la presenza delle truppe sul campo e delle colonie. Tuttavia, una occupazione militare è tale, ai sensi del diritto internazionale, quando un territorio si trovi sottoposto di fatto all’autorità di un esercito straniero, nel qual caso le regole dell’occupazione (incluse quelle di particolare protezione dei civili sotto occupazione) sono applicabili su tutti i territori ove tale autorità sia stabilita ed effettivamente esercitata. A Gaza l’esercito israeliano controlla la quasi totalità dei confini, lo spazio marittimo, aereo, le comunicazioni, il transito di ogni bene, decidendo persino l’apporto calorico pro capite della popolazione da anni. Inoltre, tutti i residenti di Gaza sono confinati al suo interno dal 2006, con pochi permessi concessi su base giornaliera o periodica, limitati al territorio israeliano, al fine di utilizzare forza lavoro a basso costo in ambito domestico. Per tutta la durata degli ultimi devastanti bombardamenti, poi, la chiusura è stata totale.
In situazioni di occupazione, tanto più se illegali, così come di annessione e negazione armata del diritto all’autodeterminazione, va ricordato che il diritto internazionale non vieta, in generale, la resistenza. Ma nessuna resistenza armata a nessuna occupazione è libera dai vincoli giuridici che regolano mezzi e metodi di conduzione delle ostilità, anzitutto l’immunità dei civili dagli attacchi. Gli attacchi a civili del 7 ottobre, quindi, meritano la più ferma condanna in questo senso, poiché hanno preso intenzionalmente di mira la popolazione civile israeliana.
Per quanto riguarda la risposta militare israeliana (al di là dell’uso giornalistico e politico del concetto), essa è difficilmente configurabile come legittima difesa in senso giuridico. Nel parere consultivo del 2004 sulla costruzione del muro, la Corte Internazionale di Giustizia ha chiaramente affermato ai sensi della Carta ONU il diritto di legittima difesa (art. 51) non può essere invocato contro attacchi provenienti dal territorio occupato (v. par. 139). In questi casi, infatti, un conflitto armato per il diritto esiste già e non è innescato dall’attacco, per cui non si può dire che si legittimi il ricorso alla forza armata, visto che essa è già impiegata (appunto per mantenere l’occupazione). Il rischio di una lettura contraria, inoltre, sarebbe quello di legittimare altre potenze occupanti alla legittima difesa, in senso giuridico, per ‘difendere’ le proprie occupazioni o annessioni (si pensi alla Federazione Russa). Attenzione: questo non significa che Israele non abbia altri fondamenti giuridici per agire a protezione dei propri cittadini, attaccati all’interno dei suoi confini legali. Tali fondamenti per perseguire militarmente e penalmente i responsabili degli attacchi del 7 ottobre, coi loro limiti, sono rinvenibili nell’altro ramo del diritto dei conflitti armati, cioè lo ius in bello, che delinea il regime giuridico applicabile alle occupazioni militari e alle ostilità nell’ambito di esse.
Il conflitto armato in corso può essere definito giuridicamente una “guerra”, se si usa questo termine nell’accezione comune di ostilità militari che coinvolgono Stati? E, in caso, è guerra tra chi: Israele e Hamas? Israele e Gaza? Israele e Palestina?
Deve essere definito una guerra, o meglio un ‘conflitto armato’, come afferma il diritto internazionale. Un conflitto armato che non comincia il 7 ottobre. È un conflitto in corso, di cui quegli attacchi sono parte, ma che aveva già visto molte escalation, inclusi lanci di razzi e bombardamenti su larga scala della Striscia, ben cinque volte dal solo 2006, uccidendo civili (2789 palestinesi e 13 israeliani).
La guerra è, in tutta evidenza, tra Israele e Hamas, visto che l’Autorità Palestinese ha deposto le armi da molto tempo e tutt’ora ha una “collaborazione di sicurezza” in Cisgiordania con le forze di occupazione. Tragicamente, Israele sembra considerare tutti i civili di Gaza potenziali terroristi, quelli maschi adulti probabili terroristi e tutti gli altri, comunque, non innocenti (come sostenuto anche dal Presidente della Repubblica Isaac Herzog), per cui siamo di fronte a un problema radicale. Se una intera popolazione, di due milioni e trecentomila persone, è in senso lato ‘nemica’, il conflitto è formalmente con Hamas, ma sostanzialmente viene condotto attraverso una degradazione e una compressione delle protezioni di tutta la popolazione civile. Quanto al carattere del conflitto, alcuni autori, nonché ovviamente Israele, insistono sulla non statualità della Palestina, a causa della mancanza di un controllo effettivo da parte del suo governo riconosciuto, l’Autorità Palestinese, sul relativo territorio. Questo argomento, tuttavia, tralascia un paradosso fondamentale: è solo a causa dell’occupazione, illegalmente protesa verso un’annessione incrementale e totale, che questa effettività manca. Per questo i giudici della Corte Penale Internazionale hanno ricordato che ex iniuria ius non oritur (par. 59), ossia da un illecito non possono sorgere validi effetti giuridici, concludendo che ai fini della giurisdizione della Corte stessa la Palestina può essere considerata uno stato.
Le convenzioni che si applicano ai conflitti armati di carattere internazionale, tra stati, e quelle che si applicano ai conflitti armati tra stati e gruppi armati non statali (o tra questi ultimi fra loro), sono diverse. Il dibattito sulla classificazione di questo conflitto è tutt’ora in corso. Tuttavia, per quanto riguarda le norme che regolano la protezione di civili, ospedali, scuole e strutture civili e le regole di ingaggio, le più rilevanti sono considerate oggi di carattere consuetudinario, quindi applicabili in entrambi i tipi di conflitti. L’importanza dello ius in bello, o diritto internazionale umanitario, è proprio questa, cioè che detta vincoli applicabili a tutte le forze armate in campo, siano esse statali o non statali, senza riguardo agli scopi ultimi dell’azione bellica (cosa che invece serve a definire l’uso della forza armata da parte degli stati, ad esempio se a scopo di aggressione o legittima difesa). Questo diritto si incentra su mezzi e metodi di conduzione delle ostilità e non permette sconti, nemmeno a seguito della commissione di crimini di guerra: si applica, infatti, senza vincoli di reciprocità. Ciò significa che le violazioni di una parte non giustificano violazioni dell’altra, né diminuiscono le responsabilità di proteggere i civili, quand’anche si abbia a che fare come gruppi ‘terroristi’. È importante notare, proprio a questo proposito, che il concetto di “terrorismo” nel diritto di guerra non identifica attori o gruppi di attori, ma un metodo vietato. Minacciare o usare violenze con lo scopo primario di diffondere terrore tra civili, infatti, è proibito sempre e da parte di chiunque, sia che a seminare terrore siano gruppi armati non statali, sia che a farlo siano eserciti regolari.
Quale è stato e quale poteva essere il ruolo delle Nazioni Unite rispetto al conflitto in corso? Cosa emerge dalle dinamiche interne degli organismi principali – Consiglio di Sicurezza, Assemblea Generale, Segretario Generale – e dalle loro relazioni rispetto al conflitto?
Emerge un doppio standard ormai conclamato e indifendibile delle potenze occidentali, guidate dagli Stati Uniti. A partire dal primo veto USA nel Consiglio di Sicurezza sulla risoluzione brasiliana per il cessate il fuoco, fino a quello più recente su quella degli Emirati Arabi (sostenuta da 97 stati e 12 membri del Consiglio!), si è chiusa un’epoca delle relazioni internazionali. Le già ipocrite retoriche da nuovo scontro di civiltà, di difesa armata dei valori, di occidente guardiano del cd. ‘rules-based order’ contro la minaccia delle autocrazie… sono rovinosamente implose. È emerso chiaramente che la legalità internazionale per l’Occidente è un asset quando serve all’outcasting di rivali strategici (in sé pienamente legittimo, a mio avviso, nel caso della guerra contro l’Ucraina), mentre viene degradata a meno che un optional, e visto persino come una minaccia, nel caso di crimini internazionali delle potenze alleate.
Classi dirigenti che si autoproclamano bastione liberale contro gli autoritarismi in due mesi di massacri non riescono nemmeno a pronunciare il concetto di ‘crimine internazionale’ (poiché ciò equivarrebbe a evocare un parametro che varrebbe a punire tanto le efferatezze Hamas, tanto l’indiscriminata azione militare israeliana), affidandosi a ipocrite esortazioni al governo Netanyahu di rispettare il diritto internazionale umanitario mentre esso viene, in tutta evidenza, fatto a pezzi insieme a decine di migliaia di civili, donne e bambini bombardati. Questo atteggiamento di imbarazzante irrisione nei confronti dei limiti giuridici di ogni azione militare, anche di legittima difesa, nonché di complicità politiche con crimini internazionali di proporzioni epocali, ha dei costi incalcolabili: isola i nostri stati, ne distrugge la credibilità, li degrada a piccole patrie di unilateralismo.
Ecco perché all’Assemblea Generale 153 stati, con solo 10 contrari e 23 astensioni, hanno votato a favore del cessate il 14 dicembre 2023. Basta osservare i voti distribuiti su un planisfero e si ha una misura molto chiara della questione. Anche gran parte dell’Unione Europea ha votato a favore.
Quanto all’ONU, è in seno a istituzioni e agenzie specializzate dell’organizzazione che la violazione pluridecennale di tutti i diritti fondamentali dei palestinesi è stata documentata e denunciata in maniera puntuale negli ultimi dieci anni. È dalle giurisdizioni internazionali che nuove importanti decisioni sono in arrivo: penso, in particolare, alla Corte Internazionale di Giustizia, presso la quale il Sudafrica ha depositato lo scorso 29 dicembre un ricorso contro Israele per violazione della Convenzione del 1948 sulla prevenzione e punizione del crimine di genocidio, e di cui abbiamo assistito alle prime due giornate di udienza: la prima, in cui il Sudafrica ha esposto i propri argomenti; la seconda, in cui Israele ha presentato la propria difesa. Non è un caso che l’attuale esecutivo israeliano, nello scagliarsi contro la legalità internazionale, provi a dipingere chiunque, dalle ONG per i diritti umani, ai giuristi, ad esperte ed esperti indipendenti ONU, fino al Segretario Generale in persona, come anti-israeliani.
Dal 2002 è operativa la Corte Penale Internazionale (CPI), competente a giudicare sui crimini più gravi che riguardano la comunità internazionale: i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità, il genocidio e il crimine di aggressione. Israele non fa parte della Corte. L’Autorità Nazionale Palestinese, invece, ha accettato la sua giurisdizione. La CPI ha giurisdizione anche sui Territori Occupati da Israele dopo il 1967? Ci sono state in passato indagini relative a crimini commessi nella Striscia di Gaza, in occasione delle precedenti guerre che hanno interessato questo territorio?
L’Autorità Palestinese ha per la prima volta sottoscritto una dichiarazione di accettazione della giurisdizione della Corte nel 2009. A parità di condizioni giuridiche (anche la Federazione Russa non è parte della Corte), la stessa dichiarazione da parte dell’Ucraina ha condotto in tempi molto brevi alla conclusione delle indagini e all’emissione del mandato d’arresto contro Putin per crimini di guerra. La Palestina (a differenza dell’Ucraina) ha poi anche ratificato lo Statuto nel 2015, diventando stato parte della Corte.
La precedente procuratrice, Fatou Bensouda, ha condotto una indagine preliminare in cui ha concluso di avere ragionevole motivo di ritenere che molti e gravi crimini internazionali fossero stati commessi nelle precedenti offensive dalle parti in conflitto, a partire dal 2014 (ricordo che nei soli bombardamenti a Gaza di quell’anno 1500 furono le vittime civili palestinesi, inclusi centinaia di bambini). Nel 2021 i giudici hanno anche definitivamente chiuso il dibattito contro la sussistenza della giurisdizione della Corte, motivato delle opposizioni incentrate sull’idea che la Palestina non sia uno stato. Con due decisioni storiche, i giudici hanno ribadito che ai sensi dello Statuto di Roma la Palestina ha conferito validamente giurisdizione alla Corte stessa. La CPI ha quindi giurisdizione sui crimini internazionali commessi nel territorio palestinese occupato dal 1967, quindi Cisgiordania, Gerusalemme Est e Gaza, nonché sui crimini commessi da cittadini palestinesi anche al di fuori di questo territorio.
Alla luce delle evidenze disponibili attraverso i resoconti giornalistici, quali crimini coperti dalla giurisdizione della CPI sono stati commessi dal 7 ottobre in poi? Quali attori, statuali e non, potrebbero essere realisticamente perseguiti per tali crimini?
Le parti di questo conflitto possono essere entrambe perseguite per crimini internazionali, realisticamente (non meno realisticamente di Putin, di sicuro), e per crimini di attacchi illegali in situazioni di combattimento che precedono il 7 ottobre. A mio avviso, poi, ferma restando la competenza della Procura della CPI e poi dei giudici a qualificare i crimini, il 7 ottobre sono stati commessi crimini di guerra di cui all’art. 8 dello Statuto di Roma, tra cui (cito le condotte dell’articolo): la presa di ostaggi, l’omicidio volontario, il dirigere intenzionalmente attacchi contro civili in quanto tali o contro civili che non partecipino direttamente alle ostilità, oltre a violazioni della dignità personale, in particolare utilizzando trattamenti umilianti e degradanti e violenze sessuali. Un’azione della Corte è urgente, in questo senso, per sottrarre tutti i crimini contro tutti i civili, sia palestinesi, che israeliani, alle spirali di post-verità, in cui le atrocità vengono spesso negate, dipinte come propaganda di una parte o montature. Ascoltare e mettere agli atti le testimonianze di vittime e familiari delle vittime, come accaduto in molti altri casi, nel quadro di uno scrutinio guidato da parametri legali, terzo e imparziale, è la migliore risposta che i principi dello Stato di diritto ci mettono a disposizione.
Per quanto riguarda l’offensiva militare israeliana, ancor più che nelle precedenti, a mio avviso si configurano crimini di guerra, di cui sempre all’articolo 8, tra cui (citando le condotte codificate): distruzione ed appropriazione di beni, non giustificate da necessità militari o compiute su larga scala illegalmente ed arbitrariamente; privare volontariamente un prigioniero di guerra o altra persona protetta del suo diritto ad un equo e regolare processo; deportazione, trasferimento o detenzione illegale; dirigere intenzionalmente attacchi contro popolazioni civili in quanto tali o contro civili che non partecipino direttamente alle ostilità; dirigere intenzionalmente attacchi contro beni di carattere civile, e cioè beni che non siano obiettivi militari; dirigere intenzionalmente attacchi contro personale, installazioni, materiale, unità o veicoli utilizzati nell’ambito di una missione di soccorso umanitario o di mantenimento della pace in conformità della Carta delle Nazioni Unite, nella misura in cui gli stessi abbiano diritto alla protezione accordata ai civili ed alle proprietà civili previste dal diritto internazionale dei conflitti armati; lanciare intenzionalmente attacchi nella consapevolezza che gli stessi avranno come conseguenza la perdita di vite umane tra la popolazione civile, lesioni a civili o danni a proprietà civili ovvero danni diffusi, duraturi e gravi all’ambiente naturale che siano manifestamente eccessivi rispetto all’insieme dei concreti e diretti vantaggi militari previsti; attaccare o bombardare con qualsiasi mezzo, città, villaggi, abitazioni o costruzioni che non siano difesi, e che non costituiscano obiettivi militari; uccidere o ferire combattenti che, avendo deposto le armi o non avendo ulteriori mezzi di difesa, si siano arresi senza condizioni; dirigere intenzionalmente attacchi contro edifici, materiali, personale ed unità e mezzi di trasporto sanitari che usino, in conformità con il diritto internazionale, gli emblemi distintivi previsti dalle Convenzioni di Ginevra; affamare intenzionalmente, come metodo di guerra, i civili privandoli dei beni indispensabili alla loro sopravvivenza, compreso il fatto di impedire volontariamente l’invio dei soccorsi previsti dalle Convenzioni di Ginevra. Ci sono poi crimini di guerra strutturali in atto da decenni, in forma di politiche statali, come il trasferimento, diretto o indiretto, ad opera della potenza occupante, di parte della propria popolazione civile nei territori occupati (art. 8(2)(b)(viii) SR).
Si configurano, inoltre, a mio avviso, crimini contro l’umanità, nel contesto di un attacco esteso e sistematico alla popolazione civile palestinese (ai sensi dell’art. 7 dello Statuto di Roma), di: deportazione o trasferimento forzato della popolazione; imprigionamento o altre gravi forme di privazione della libertà personale in violazione di norme fondamentali di diritto internazionale; persecuzione contro un gruppo o una collettività dotati di propria identità, ispirata da ragioni di ordine politico, razziale, nazionale, etnico, culturale, religioso, o da altre ragioni universalmente riconosciute come non permissibili ai sensi del diritto internazionale; crimine di apartheid.
Ci sarebbe poi da discutere seriamente la configurabilità del crimine di genocidio, con condotte commesse nell’intento di distruggere, almeno in parte, un gruppo nazionale in quanto tale, cioè quello palestinese, nella parte costituita dalla popolazione civile di Gaza, tra cui potenzialmente: uccidere membri del gruppo (al momento almeno 14000 donne e bambini); cagionare gravi lesioni all’integrità fisica o psichica di persone appartenenti al gruppo; sottoporre deliberatamente persone appartenenti al gruppo a condizioni di vita tali da comportare la distruzione fisica parziale del gruppo stesso.
Quale può essere, in generale, il contributo del diritto internazionale e della giustizia penale internazionale per l’avvio di un reale e sostenibile processo di pacificazione?
In Occidente siamo stati abituati a concepire la pace in Medio Oriente dal prisma della potenza occupante e della sua sicurezza. La sicurezza della popolazione israeliana è essenziale alla pace, questo è chiaro, ma il tema è che alcune forze politiche israeliane hanno ancorato ideologicamente questa sicurezza alla sicurezza dell’occupazione e dell’annessione della Palestina, mentre altre, oltranziste e al governo, non fanno mistero di non considerare il popolo palestinese nemmeno esistente, ponendo quindi le premesse logiche della sua eliminazione come tale. D’altro canto, finché si opprime con violenza militare strutturale e pluridecennale tutto il popolo palestinese, è inevitabile che a trarne vantaggio saranno i gruppi armati che simmetricamente proclamano un mors tua vita mea circa lo stato di Israele.
L’uguale diritto a sicurezza, libertà, dignità e autodeterminazione del popolo palestinese, invece, non è una minaccia per nessuno. L’uguaglianza dei diritti è minaccia solo per chi deraglia in concezioni razziste e inversioni coloniali, secondo cui un popolo di ‘terroristi genetici’ userebbe i diritti che gli spettano per eliminare altri. La verità è l’opposto: segregazione, violenza, negazione di tutti i diritti e stermini di civili aiutano chi ritiene che solo le furie cieche delle armi possano liberare o proteggere, mentre legalità e giustizia aiutano chi, semplicemente, rivendica i propri diritti inalienabili e ritiene l’altro un essere umano con pari dignità. Finché perdura una occupazione, tra l’altro, ai sensi del diritto internazionale, tecnicamente, non c’è nessuna pace, nel senso che perdura un conflitto armato (una occupazione militare, giuridicamente, ma anche intuitivamente, è un tipo di conflitto armato).
La giustizia internazionale deve fare il proprio dovere, e gli stati europei, tutti parte dello Statuto di Roma e delle altre applicabili convenzioni, devono sostenere questo sforzo (anziché sabotarlo con giustificazioni prive di plausibilità), affinché si ripristino progressivamente le condizioni minime per costruire ponti tra questi due popoli, come tante e tanti attivisti per i diritti umani e per l’uguaglianza di fronte alla legge fanno da decenni, sia in Palestina, che in Israele. Se questi giuristi, attivisti, gruppi e organizzazioni, che lavorano fianco a fianco, fossero state ascoltate, non si sarebbe finiti in questo abisso che segna la storia di questo secolo.
Senza giustizia ed eguaglianza di fronte alla legge, come dimostrano tutti questi decenni, non ci sarà nessuna pace. Senza rispetto dei limiti basilari del diritto internazionale, tutti i futuri conflitti saranno combattuti con logiche eliminazioniste, indiscriminate, con altre potenze e regimi che useranno la categoria del ‘civile terrorista’, in quanto tale uccidibile, smantellando completamente quel poco di limiti giuridici al bellum omnium contra omnes che l’ordine giuridico internazionale ha edificato sulle macerie del secondo dopoguerra.
Intervista chiusa in redazione il 13 gennaio 2024.