I molteplici ruoli delle donne nei conflitti armati
a cura di Chiara Magneschi
Si è tenuto giovedì 26 maggio 2022 il seminario “Donne nella guerra. Riflessioni sui molteplici ruoli delle donne nel conflitto armato”, promosso dal Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace” dell’Università di Pisa. Introdotto da Laura Savelli e moderato da Valentina Bartolucci, il seminario è stato tenuto da Michela Ponzani, professoressa di Storia Contemporanea all’Università Tor Vergata di Roma, autrice per Einaudi di “Guerra alle donne. Partigiane, vittime di stupro, «amanti del nemico» (1940-45)”.
Il “dilemma morale”, come lo ha efficacemente definito Luigi Ferrajoli, che molte e molti di noi attraversano da quando è scoppiato il conflitto russo-ucraino, risiede nella questione se vi sia o meno compatibilità tra l’adesione al pacifismo e il sostegno alla resistenza armata ucraina. Intrecciando elementi di matrice storica e letteraria, Michela Ponzani ha condotto un viaggio attraverso il tempo che ha favorito l’assunzione, nel pubblico, di un “punto di vista interno”: quello delle donne protagoniste della resistenza partigiana, capace di guidarci nell’affrontare tale dilemma.
A partire dall’aggressione russa del 24 febbraio scorso, la resistenza armata ucraina è stata sovente accomunata, nel dibattito pubblico italiano, a quella partigiana di liberazione dal nazi-fascismo, spesso allo scopo di ridimensionare la funzione anti-bellica di quest’ultima e di svelarne una pretesa componente aggressiva. La relatrice ha invitato a dismettere i confronti tra episodi e fenomeni lontani nel tempo e nello spazio, che hanno eziologie, ragioni e finalità giocoforza differenti. La storiografia deve, piuttosto, aiutare a ricostruire e contestualizzare una particolare prospettiva, propria delle protagoniste e dei protagonisti di quelle vicende.
Si dibatte molto anche del senso della partecipazione femminile alla resistenza, quasi che questa possa mortificare o ribaltare l’equazione, tradizionalmente istituita, tra donne e pace. Tuttavia, anche a voler accettare per un momento il nesso tradizionale di cui sopra, sorge in modo evidente un’osservazione: le donne partigiane che riuscirono ad usare le armi stavano resistendo, che è cosa ben diversa dall’attivare unilateralmente un conflitto armato.
L’approccio storiografico utilizzato da Ponzani ha fatto emergere come centrale la distinzione tra resistenza ed aggressione. Si tratta di una prospettiva che, di per sé, può aiutare a sciogliere il “dilemma morale” di partenza, superando l’aspra, quanto forse apparente, contraddizione tra pacifismo e resistenza. A ciò si aggiunga che, nella contingenza storica del secondo dopoguerra, ma non solo, qualsiasi narrazione alternativa a quella tradizionale, che legava la donna e la sua funzione alla casa, appariva come rivoluzionaria: l’immagine della donna che imbraccia il fucile ha significato davvero un momento di emancipazione per le combattenti partigiane, che decisero di rompere con il ruolo subalterno e privato assegnato loro.
La rottura con gli schemi tradizionali avvenne nel momento in cui, per le donne stesse, si profilò la questione del tutto inedita del resistere come un diritto, oltre la logica dei doveri cui, da sempre, erano abituate. “Praticare la resistenza” ebbe anche il significato imprevisto di valorizzare tutta quella serie di attività resistenti che si esprimeva nelle forme più silenti e quotidiane: dal sopravvivere ai soprusi familiari e sociali, al compiere il lavoro di staffetta. Tutto questo nonostante il dato innegabile che la resistenza armata fa più rumore – tanto che, ad esempio, non si conosce il numero esatto delle protagoniste della resistenza partigiana civile, non armata, né di tutte le donne rimaste sole, i cui mariti e padri erano al fronte – e che la rivendicazione di un ruolo resistente pubblico sconta l’assimilazione al modello maschile di resistenza, fondato sulla lotta armata.
Questa nuova narrazione non dimentica come sia ancora in atto, con vigore per nulla diminuito, la vittimizzazione delle donne e la loro strumentalizzazione a fini bellici: gli stupri, condotti durante i conflitti compreso quello in corso in Ucraina, sono strategie di guerra, che inducono il nemico ad arrendersi pur di non subire una simile violenza. Nel suo libro “Guerra alle donne”, Ponzani documenta come i tedeschi compirono stupri all’interno di una vera e propria strategia del terrore, volta a spezzare il legame tra civili e partigiani, a stanare i combattenti, a reprimere lo spirito di resistenza. Sempre i tedeschi crearono campi-bordelli, dietro la linea gotica, dove le donne venivano utilizzate di giorno come personale di servizio, di notte per il piacere dei soldati. Si stima (al ribasso) che siano state circa 60.000 le donne violentate durante la seconda guerra mondiale.
Rispetto a questi crimini di guerra, è stato difficile far emergere anche solo una denuncia, complici, da un lato, la difficoltà delle donne, nate e cresciute in contesti fortemente patriarcali, di raccontare le violenze subite, dall’altro lato, la circostanza che la rappresentazione pubblica di quei fatti fosse anti-funzionale rispetto alla ricostruzione post-bellica. Toccante ed emblematico lo scambio – riportato nel dettaglio dalla relatrice – tra una donna che aveva subito violenza e il marito tornato a casa, in cui, quando lei sta per raccontare lo stupro, lui la ferma asserendo di non voler sapere nulla, perché “ognuno di noi due ha vissuto la propria guerra”. Un episodio che, peraltro, dimostra come già, nell’immediato dopoguerra, vi fosse la piena consapevolezza che lo stupro era guerra, sebbene parlarne fosse un tabù. A lungo, dunque, si scelse la via dell’oblio. Probabilmente fino alle guerre jugoslave quando, ancora una volta, le donne furono bersaglio strategico delle violenze di guerra e si risvegliò la “memoria nascosta” delle violenze del secondo conflitto mondiale.
Il dono più ricco di questo seminario è stato quello di dissolvere il dilemma iniziale, tra pacifismo e resistenza, facendo emergere una questione forse ancora più difficile da affrontare: quella della compatibilità tra la necessità di liberare le donne dall’attribuzione di ruoli statici e subalterni, e lo slancio di valorizzare il contributo che esse hanno dato e danno alla causa della pace. In altre parole: se il fatto di poter interpretare in guerra ruoli diversi è, per le donne, segno e frutto di un processo di emancipazione, come si può affermare che la donna è naturalmente “meno disposta alla guerra e più disposta alla pace”, ed auspicare che sia così?
Il rigoroso approccio storiografico proposto da Ponzani apre, a questo riguardo, scenari interessanti quando si ricorda la vicenda di Carla Capponi: partigiana stanca di condurre una resistenza civile estremamente esposta e indifesa, a causa del divieto per le donne di portare con sé un’arma, che decise di violare tale divieto rubandone una. Capponi stessa racconta questo evento come un importante momento di disobbedienza ed emancipazione per il quale, per altro, ricevette successivamente una medaglia al valore militare, con la motivazione che “guidava audacemente i compagni nella lotta cruenta”, presentandosi quale “mirabile esempio di civili e militari virtù”.
Si tratta di espressioni che restituiscono tutto il peso dell’assimilazionismo al modello maschile che è stato, a lungo, l’unico modo per valorizzare le donne al di fuori della sfera domestica. Un modello di cui è difficile liberarsi, come testimonia la vicenda di Capponi. Tuttavia, per superare l’impasse, potremmo innanzitutto rinunciare alla tentazione di fare della “donna che imbraccia il fucile” un nuovo modello di donna, antagonista rispetto a quello tradizionale della “donna custode del focolare”, ma altrettanto monolitico, deterministico e, in ultima analisi, sterile (benché sia necessario e utile ricordare che furono circa 35.000 le partigiane armate). Inoltre, la storiografia interessata a ricostruire il “punto di vista interno” ci offre, ancora una volta, una preziosa guida metodologica: dobbiamo ascoltare le parole delle partigiane, sentire dalle loro voci come esse stesse hanno interpretato la resistenza, profondamente, al di là di ogni retorica. In questo modo è possibile cogliere quella prospettiva personale che è l’unica in grado di dirci quale sia, di volta in volta, il “posizionamento” delle donne tra guerra e pace.
Chiara Magneschi è avvocata, ricercatrice aggregata al Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace” e docente a contratto in Teorie giuridiche e politiche e diritti umani presso il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa. E-mail: chiaramagneschi@gmail.com