sabato, Aprile 20, 2024
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Consumatori e sviluppo sostenibile: il ruolo chiave dell’informazione

di Arianna De Conno

 

Nel diritto, soprattutto internazionale, ha da tempo fatto il suo ingresso il concetto di «sviluppo sostenibile», definito formalmente per la prima volta nel 1987 con il Rapporto Our Common Future, stilato e reso pubblico dalla Commissione Mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo, in seno alle Nazioni Unite. Nel documento, meglio noto come Rapporto Brundtland, si affermava che può essere considerato sostenibile quel modello di sviluppo che soddisfi «i bisogni dell’attuale generazione senza compromettere la capacità di quelle future».

Dunque, a partire dal Rapporto Brundtland, il concetto di «sviluppo sostenibile» si è radicato nel diritto internazionale (e non solo), in un processo la cui ultima tappa è rappresentata dall’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, adottata il 25 settembre 2015 dall’Assemblea generale delle Nazioni unite: uno strumento di soft law dal titolo emblematico: «Trasformare il nostro mondo: l’agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile».

L’Agenda 2030 fa propria una visione multidimensionale del concetto di «sviluppo sostenibile», che si articola in tre pilastri – ambientale, sociale ed economico – a loro volta declinati in 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile, articolati infine in 169 target. Tali Obiettivi, così come i tre pilastri dello sviluppo sostenibile, sono tra loro connessi e inscindibili, poiché rappresentano aspetti diversi di progetto unitario da realizzare su scala globale.

Il programma d’azione contenuto nell’Agenda 2030 mira a includere tutti gli ambiti individuati come determinanti per il benessere dell’umanità e del pianeta. Di conseguenza, gli Obiettivi coprono numerosi aspetti dello sviluppo sostenibile: la lotta alla povertà e alla fame, l’eliminazione di disuguaglianze e discriminazioni, la salvaguardia del benessere e della salute di tutti e a tutte le età, l’accesso ad un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, la promozione di società pacifiche, ma anche la tutela delle risorse naturali mediante ogni mezzo possibile, dalla promozione di un’agricoltura sostenibile passando per la gestione sostenibile dell’acqua e delle strutture igienico-sanitarie, fino alla garanzia dell’accesso per tutti i Paesi a sistemi di energia economici, affidabili, sostenibili e moderni.

Determinante, in questo quadro, è la transizione verso un sistema economico globale che consenta di raggiungere tali obiettivi, e dunque un complessivo ripensamento dei modelli di produzione, ma anche di consumo.

Particolare attenzione merita, in quest’ottica, l’Obiettivo 12 dell’Agenda 2030 («Garantire modelli sostenibili di produzione e di consumo»), che mira a un cambiamento radicale delle modalità con le quali attualmente si producono e si consumano beni e servizi. Produzione e consumo sono dunque uniti nel medesimo Obiettivo dell’Agenda 2030, in quanto dimensioni inscindibili del mercato rispetto alle quali è necessario agire seguendo una strategia unitaria che coinvolga, al tempo stesso, operatori economici e cittadini-consumatori.

L’Obiettivo si articola a sua volta in target, connessi a vari aspetti quali il contrasto allo spreco alimentare già nella filiera produttiva (target 12.3) e la gestione eco-compatibile di tutti i rifiuti ed una loro drastica riduzione (target 12.4), ma anche la responsabilità sociale d’impresa (target 12.6), l’accesso per tutti i Paesi alle tecnologie in grado di ridurre l’impatto ambientale dei processi produttivi (target 12.a), la necessità di una spesa pubblica sempre più orientata verso prodotti e servizi sostenibili (target 12.7) e quella di rivedere il sistema di tassazione e sussidi su scala globale, ad esempio razionalizzando quelli che incentivano il ricorso ai combustibili fossili incoraggiandone lo spreco (target 12.c).

Il target 12.8, in particolare, pone come obiettivo entro il 2030 quello di «[…] accertarsi che tutte le persone, in ogni parte del mondo, abbiano le informazioni rilevanti e la giusta consapevolezza dello sviluppo sostenibile e di uno stile di vita in armonia con la natura».

Alla base di quest’ultimo target sembra esserci l’idea che le persone, se adeguatamente informate sull’impatto che possono avere le proprie scelte, anche di consumo, sugli obiettivi di sviluppo sostenibile, modificherebbero le proprie abitudini nel senso di una sempre maggiore sostenibilità di queste ultime.

In particolare un’informazione adeguata dovrebbe indurre i cittadini, quando assumono la veste di consumatori, a scegliere sul mercato i beni e i servizi più sostenibili, stimolando così con la propria domanda e il proprio “voto col portafoglio” un’offerta sempre maggiore di prodotti e servizi dotati di tali caratteristiche.

Evidentemente, l’informazione ai consumatori assume un ruolo chiave. Per poter contribuire in modo attivo al raggiungimento di obiettivi di sviluppo sostenibile, i consumatori dovranno infatti, innanzitutto, ricevere informazioni generali che consentano loro di acquisire consapevolezza dell’impatto che le proprie scelte di consumo possono avere in termini di sostenibilità. L’informazione sembrerebbe dunque assumere una funzione innanzitutto educativa e potrà essere veicolata ai cittadini-consumatori in molteplici modi, ad esempio da parte delle istituzioni mediante campagne di sensibilizzazione, o nei contesti di educazione formale, oppure da parte di soggetti privati anche in contesti di educazione informale.

Una volta che i consumatori avranno raggiunto tale consapevolezza mediante un processo educativo e di sensibilizzazione, necessiteranno di strumenti di informazione specifica a loro destinati per individuare sul mercato prodotti con le caratteristiche di sostenibilità desiderate.  Gli operatori economici, da parte loro, dovranno predisporre strumenti di informazione con cui comunicare al consumatore la sostenibilità dei propri prodotti e della propria attività, ottenendo così sul mercato un “premio” per il proprio impegno in termini di responsabilità sociale d’impresa e per i costi eventualmente affrontati in relazione a essa, riuscendo ad attrarre la domanda (per altro in costante crescita in Europa e non solo) di prodotti sostenibili.

Alla categoria della comunicazione business to consumer sono riconducibili molteplici strumenti, capaci di assumere molteplici funzioni. Si considerino i numerosi termini utilizzati dal legislatore, soprattutto europeo, con riferimento a tale categoria: «informazioni», «etichetta», «etichettatura», «presentazione», «pubblicità», «certificazione», «attestazione», «marchio»; ciascuna di queste espressioni incarna una dimensione differente della comunicazione business to consumer, sia per la modalità con cui avviene la comunicazione, sia per l’oggetto, sia per le specifiche finalità che essa assume.

Tali strumenti rappresentano un dispositivo fondamentale all’interno della più vasta transizione verso modelli di produzione e consumo sempre più sostenibili, anche mediante le dinamiche di mercato della domanda e dell’offerta: tali strumenti sono, infatti, al tempo stesso guida per i consumatori e fondamentali strumenti delle strategie di mercato degli operatori economici.

Il legislatore europeo è da tempo consapevole del ruolo che la comunicazione business to consumer può svolgere nel raggiungimento di obiettivi di interesse generale, ed è dunque più volte intervenuto per regolamentarla. Tale regolamentazione è tradizionalmente legata al raggiungimento di obiettivi di buon andamento del mercato. Il legislatore europeo è intervenuto, da una parte, per garantire l’uniformità e l’omogeneità delle informazioni destinate ai consumatori, come misura funzionale alla creazione di un mercato unico e alla semplificazione degli scambi di merci al suo interno, e dall’altra, per evitare che l’utilizzo della comunicazione business to consumer si traducesse in pratiche distorsive del corretto svolgimento della concorrenza. Nell’approccio del legislatore europeo, per lungo tempo gli strumenti riconducibili alla comunicazione business to consumer sono stati dunque considerati esclusivamente strumenti di mercato, e trattati come tali.

Progressivamente, tuttavia, la disciplina in materia di comunicazione business to consumer è stata resa funzionale anche al raggiungimento di obiettivi ulteriori rispetto a quelli legati al semplice “buon andamento” del mercato. Il legislatore europeo ha così individuato nell’ambito della comunicazione business to consumer strumenti, come l’etichettatura, ai quali ha attribuito un valore non solo di strumenti di mercato, ma anche di politica ambientale, e dunque di implementazione di obiettivi di sviluppo sostenibile.

Per comprendere come ciò sia avvenuto, è necessario analizzare come è mutata, nel tempo, la politica ambientale europea. La sua prima fase, a partire dagli anni Settanta, è stata caratterizzata dall’utilizzo strumenti di “comando e controllo” (command and control) come atti di pianificazione, imposizione di limiti e tetti massimi alle immissioni, normative tecniche, autorizzazioni all’effettuazione di scarichi e sanzioni amministrative.

Questa scelta derivava da una visione del mercato e dei suoi meccanismi concorrenziali come “nemici” dell’ambiente, in base all’assunto che, di regola, le imprese non si fanno carico spontaneamente delle cosiddette “esternalità negative”, né sono spontaneamente portate a prendere in considerazione l’impatto della propria attività nel lungo termine, ad esempio con riferimento al depauperamento delle risorse naturali.

Tale approccio alla politica ambientale ha però progressivamente mostrato i propri limiti. Il sistema di controllo elaborato negli anni Settanta e Ottanta è stato giudicato come eccessivamente esteso e burocratizzato, addirittura economicamente insostenibile per le imprese, senza che per altro ciò si fosse tradotto in un effettivo miglioramento delle condizioni ambientali.

Negli anni Novanta la politica ambientale europea ha così subito una svolta, a partire soprattutto dal Quinto programma di azione in campo ambientale: adottato nel 1992, il programma vede l’ingresso sistematico e strutturato nella politica ambientale europea degli strumenti economici, che sono andati ad affiancare i tradizionali strumenti di “comando e controllo”. L’utilizzo di strumenti economici, per altro, era stato già incoraggiato a livello internazionale dalla Dichiarazione di Rio, adottata anch’essa nel 1992, la quale ha fortemente influenzato i contenuti del Quinto programma. Tale processo di affermazione della tutela dell’ambiente anche “attraverso il mercato” si è ulteriormente consolidato con il Sesto e il Settimo programma di azione in materia ambientale relativi, rispettivamente, al periodo dal 2002 al 2012 e al periodo dal 2013 al 2020.

Si è dunque progressivamente affermata una nuova visione della politica ambientale, basata sull’idea che per orientare i modelli di produzione e consumo verso la sostenibilità sia necessario anche un adeguato sistema di incentivi che affianchi quello degli obblighi e dei divieti. È la stessa logica che presiede la teoria economica del nudging, la cosiddetta “spinta gentile”, in base alla quale sarebbe possibile perseguire in modo efficace obiettivi anche di interesse generale non solo mediante un sistema di obblighi, ma anche attraverso l’utilizzo di “pungoli”, vale a dire di strumenti che stimolino determinate condotte senza renderle però doverose.

Con l’affermarsi di questa nuova visione è cambiato anche l’approccio nei confronti del rapporto tra ambiente e mercato, e ha iniziato progressivamente a radicarsi l’idea che sia possibile di tutelare l’ambiente anche “attraverso il mercato” e i suoi strumenti.

Nello specifico, gli strumenti economici progressivamente introdotti nelle politiche ambientali europee mirano a incidere sui costi e sui benefici delle azioni economiche, influenzando il comportamento degli operatori. Si tratta di una categoria di strumenti molto ampia, a cui possono essere ricondotte misure economiche e fiscali, come le tasse ambientali e gli incentivi finanziari, ma anche tecniche legali di allocazione del danno ambientale, come la responsabilità civile e l’assicurazione, e infine gli strumenti di mercato tra cui le certificazioni ambientali, alcune delle quali sono specificamente rivolte proprio al pubblico dei consumatori.

Le certificazioni ambientali si basano sull’accettazione, da parte degli operatori economici, di adeguarsi a standard di sostenibilità ambientale più rigorosi rispetto a quelli minimi imposti dalla legge, ottenendo in cambio una certificazione spendibile nel rapporto con il pubblico e la cui attendibilità è garantita delle istituzioni. Il processo di assegnazione della certificazione ambientale richiede, infatti, un rigoroso processo di controllo affidato a soggetti terzi e indipendenti, accreditati dall’istituzione pubblica competente, che hanno il compito di verificare il rispetto dei parametri individuati dalla norma di riferimento. Il controllo pubblico garantisce anche l’affidabilità dell’informazione agli occhi dei consumatori, che saranno dunque più propensi a utilizzare quelle certificazioni come guida per le proprie scelte d’acquisto.

Nelle certificazioni ambientali destinate al pubblico sono comprese anche le etichette ambientali, che rientrano a pieno titolo nel novero degli strumenti di comunicazione business to consumer. Tali strumenti di etichettatura sono dunque, al tempo stesso, strumenti di mercato e di politica ambientale. Nello specifico, essi funzionano come opportunità di marketing, sistemi di certificazione e strategia di prevenzione.

Sotto il primo profilo, essi consentono al produttore che si sottopone a regole e standard richiesti dalla legge di ottenere e utilizzare il marchio di qualità, rendendo più appetibili i propri prodotti a consumatori sempre più attenti alla sostenibilità delle proprie scelte d’acquisto. L’etichettatura ecologica, infatti, ha in sé un contenuto comparativo implicito: i prodotti così contrassegnati sono implicitamente presentati come dotati di caratteristiche di sostenibilità, che i prodotti privi del marchio ecologico non hanno.

Sotto il secondo profilo, l’assegnazione dell’etichetta ambientale è possibile solo in seguito a una procedura formalizzata che vede coinvolti soggetti pubblici. Ciò garantisce l’affidabilità delle informazioni che il marchio racchiude, soprattutto in termini di trasparenza e imparzialità del soggetto certificatore, che sarà un soggetto pubblico o comunque sottoposto a controllo pubblico, ad esempio mediante il meccanismo dell’accreditamento.

Per quanto riguarda, infine, la funzione di prevenzione svolta dagli strumenti di etichettatura ambientale, attraverso di essi il legislatore europeo mira a promuovere l’immissione nel mercato di prodotti con un ridotto impatto ambientale, facendo leva sui meccanismi che caratterizzano l’offerta e la domanda sul mercato stesso. Si mira a ottenere la commercializzazione di prodotti sempre più sostenibili, evitando così di dover intervenire, in una fase successiva, sugli effetti dannosi per l’ambiente dei processi produttivi.

Emblematico a riguardo l’articolato sistema di strumenti di etichettatura ambientale che il legislatore europeo ha elaborato a partire dagli anni Novanta, quando, appunto, la dimensione del mercato ha fatto il suo ingresso nella politica ambientale. Si pensi agli strumenti ad adesione volontaria come il marchio Ecolabel o la certificazione per gli alimenti provenienti da agricoltura biologica, a cui si aggiungono strumenti di etichettatura ambientale obbligatori, come l’etichettatura energetica.

Tali esempi mostrano in modo chiaro come gli strumenti di mercato e, più nello specifico, quelli di comunicazione business to consumer, possano divenire parte integrante di strategie di politica ambientale, al punto che è il legislatore stesso a mettere a disposizione degli operatori economici appositi strumenti di certificazione da lui creati e disciplinati.

Il sistema di strumenti di etichettatura ambientale di matrice comunitaria è destinato a essere migliorato e potenziato, come previsto dalle più recenti strategie europee in materia di sviluppo sostenibile, adottate in seguito all’Agenda 2030 e sulla scia del Green Deal europeo, come la strategia «Dal produttore al consumatore» per il settore agro-alimentare, il Piano d’azione per l’economia circolare, l’Agenda per i consumatori. Tali strategie pongono specifica attenzione al ruolo attivo del consumatore nel raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile e, di conseguenza, agli strumenti di informazione a loro destinati.

Nello specifico l’Agenda per i consumatori, adottata dalla Commissione europea il 13 novembre 2020, delinea la strategia europea per i consumatori relativa al periodo dal 2020 al 2025 e individua numerosi interventi relativi al rapporto tra consumo e sviluppo sostenibile, a partire proprio da una maggiore diffusione degli strumenti di etichettatura ambientale già esistenti, come l’etichettatura energetica e il marchio Ecolabel UE. In relazione a quest’ultimo, per altro, auspica una sua maggiore diffusione anche nei mercati elettronici ed evidenzia la necessità di estenderlo anche ai mercati finanziari, in linea con il Piano europeo per la finanza sostenibile del 2018, a cui la Commissione dovrà dare seguito con una nuova strategia in materia, che comprenda anche un apparato di strumenti di informazione al consumatore relativi alla sostenibilità dei prodotti finanziari. Per altro, la mancanza di specifici strumenti in tale ambito rappresenta una lacuna significativa nell’ordinamento europeo, soprattutto a fronte del ruolo determinante che la finanza riveste nel raggiungimento di obiettivi di sviluppo sostenibile, come evidenzia anche il Green Deal con particolare riferimento alla dimensione ambientale.

In materia di finanza sostenibile va segnalato un primo, fondamentale passo fatto dal legislatore europeo: il Regolamento (UE) 2020/852, adottato il 18 giugno 2020 e relativo all’istituzione di un quadro per favorire gli investimenti sostenibili. Il regolamento contiene la cosiddetta “tassonomia” dei prodotti finanziari green e, nello specifico, stabilisce criteri unitari a livello europeo per determinare se un’attività economica possa essere considerata ecosostenibile, allo scopo di individuare il grado di sostenibilità di un investimento a essa relativo. Tale regolamento rappresenta, dunque, la prima tappa del necessario processo di elaborazione di un sistema di strumenti di informazione ai consumatori relativi alla sostenibilità degli strumenti finanziari.

Tornando all’Agenda per i consumatori, essa rimanda anche agli interventi di miglioramento del sistema di informazione al consumatore previsti in altre strategie, come quella «Dal produttore al consumatore». Quest’ultima prevede una serie di interventi volti a migliorare l’accesso dei consumatori alle informazioni, rendendo così più semplice operare scelte d’acquisto sane e sostenibili. Tali azioni vanno dall’etichettatura nutrizionale obbligatoria sulla parte anteriore dell’imballaggio, all’etichettatura relativa al benessere degli animali, alla definizione di profili nutrizionali per limitare la promozione di alimenti ricchi di sale, zucchero o grassi, fino alla verifica dell’estensione dell’indicazione di origine obbligatoria per determinati alimenti.

L’Agenda per i consumatori rimanda anche al Piano d’azione per l’economia circolare, che pone tra i vari obiettivi anche la lotta all’obsolescenza precoce che, secondo la strategia delineata dal Piano, passerà anche dalle informazioni fornite al consumatore. In relazione a tale aspetto, l’Agenda per i consumatori riporta l’intenzione della Commissione europea di presentare, nel 2021, una proposta legislativa volta a responsabilizzare i consumatori per la transizione verde con migliori informazioni sulla sostenibilità dei prodotti, compresa l’obsolescenza precoce. È ragionevole presumere che ciò potrebbe far evolvere anche i contenuti dell’etichettatura dei prodotti, con l’introduzione di nuove informazioni relative, ad esempio, alla loro durata di vita.

Agli interventi qui brevemente riassunti se ne aggiungono altri, anch’essi incentrati sul miglioramento del sistema di informazione al consumatore funzionale agli obiettivi di sostenibilità. L’Agenda per i consumatori fa riferimento, ad esempio, anche alla strategia in materia di sostanze chimiche per la sostenibilità, che prevede azioni per aumentare le informazioni sulle sostanze chimiche e a proteggere i consumatori da quelle più nocive; richiama inoltre la strategia europea in materia di ristrutturazioni, che mira a rendere le abitazioni adatte a una società più verde e digitale, ancora una volta anche mediante strumenti di informazione rafforzati per i consumatori.

L’informazione ai consumatori costituisce, dunque, un elemento chiave nelle strategie di sviluppo sostenibile: non solo a livello europeo, ma anche a livello nazionale. Prima che gli strumenti di mercato facessero il loro ingresso nella politica ambientale comunitaria, gli Stati europei avevano già avviato esperienze di etichettatura ambientale: la prima, l’etichetta tedesca “Angelo azzurro”, risale al 1977.

L’uso degli strumenti di informazione al consumatore in funzione di obiettivi di sostenibilità pone numerose sfide, di cui occorre essere consapevoli.

Innanzitutto, come già detto, il ricorso agli strumenti di informazione dovrà andare di pari passo con un’adeguata educazione e sensibilizzazione dei cittadini-consumatori, affinché si crei una domanda di prodotti sempre più sostenibili e si diffonda un’effettiva capacità di utilizzare le informazioni disponibili sul mercato per operare scelte di consumo effettivamente rispondenti ai criteri di sostenibilità desiderati.

In secondo luogo, gli strumenti elaborati dal legislatore nell’ambito delle strategie di sviluppo sostenibile che utilizzano strumenti di mercato dovranno realmente consentire al consumatore di individuare i prodotti dotati delle caratteristiche di sostenibilità desiderate. Dovranno essere completi ma, al tempo stesso, non sovraccaricare il consumatore di informazioni.

Dovranno poi essere accessibili a varie tipologie di consumatori. Si pensi, ad esempio, alla necessità di rendere accessibili gli strumenti di etichettatura anche alle persone non vedenti o ipovedenti.

Dovrà essere garantita l’affidabilità delle informazioni veicolate. Le procedure di controllo richieste per l’utilizzo, da parte degli operatori economici, degli strumenti di certificazione della sostenibilità dovranno essere tali da risultare affidabili agli occhi dei consumatori.

Infine, si pone la necessità di riflettere quali aspetti della sostenibilità si mira a certificare attraverso tali strumenti. Quello di «sostenibilità» è infatti un concetto multidimensionale, che comprende almeno tre dimensioni: ambientale, sociale ed economica. La vera sfida che il legislatore si trova a sostenere è quella di riuscire a tradurre tale complessità anche negli strumenti di informazione al consumatore, ottenendo strumenti di certificazione in grado di garantire una sostenibilità di prodotti e servizi non “monodimensionale”, tale cioè da comprendere anche aspetti come il rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori nella filiera produttiva, oltre alle questioni strettamente ambientali.

È necessario tuttavia che ciò avvenga evitando di sovraccaricare il consumatore di informazioni. A questo scopo, l’elaborazione di uno specifico strumento di social labelling europeo, da affiancare agli strumenti di eco-labelling già esistenti, appare una soluzione poco adeguata. Si rischierebbe di confondere i consumatori, che si troverebbero davanti a una pluralità di marchi europei di sostenibilità, riferiti ad aspetti diversi di quest’ultima.

La strada migliore da percorrere sembra, allora, quella di una progressiva incorporazione della dimensione della sostenibilità sociale negli strumenti di informazione già esistenti, che da etichette ambientali diverrebbero “etichette di sostenibilità” complete. Una riflessione in tal senso è già iniziata in relazione a vari strumenti di etichettatura ambientale elaborati a livello nazionale, tra cui il ricordato “Angelo azzurro” tedesco.

Tale strada, nell’ordinamento europeo, sembrerebbe già percorribile. Se si guarda al Regolamento (CE) n. 66/2010, che disciplina il marchio Ecolabel UE, si trova un esplicito riferimento anche alla dimensione della sostenibilità sociale in relazione al processo di elaborazione dei criteri per l’assegnazione del marchio.

Il compito di elaborare i criteri per l’assegnazione del marchio Ecolabel è affidato dal regolamento alla Commissione europea che, al momento, ha introdotto elementi attinenti alla dimensione della sostenibilità sociale solo nei parametri relativi ad alcuni prodotti, come i tessuti, i prodotti di abbigliamento e i prodotti elettronici, in particolare con riferimento al rispetto delle convenzioni fondamentali adottate dall’ILO.

Attualmente sono in fase di elaborazione anche i criteri per l’applicazione del marchio Ecolabel UE ai prodotti finanziari, che dovrebbero includere specifici riferimenti alla dimensione della sostenibilità sociale dei prodotti in questione. Per altro, il Regolamento (UE) 2020/852 relativo alla tassonomia dei prodotti finanziari sostenibili contiene già un espresso riferimento anche alla dimensione della sostenibilità sociale, poiché stabilisce che, al fine di determinare il grado di ecosostenibilità di un investimento, un’attività economica possa essere considerata ecosostenibile solo se svolta, tra le altre cose, nel rispetto delle “garanzie minime di salvaguardia”. Queste ultime sono le procedure attuate da un’impresa che svolge un’attività economica al fine di garantire che questa avvenga nel rispetto sia delle Linee guida OCSE destinate alle imprese multinazionali, sia dei Principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani, inclusi i principi e i diritti stabili dalle otto convenzioni fondamentali individuate nella dichiarazione dell’ILO sui principi e i diritti fondamentali nel lavoro e dalla Carta internazionale dei diritti dell’uomo.

Nell’ottica di una futura evoluzione del diritto comunitario sarebbe auspicabile una sempre maggiore incorporazione della dimensione della sostenibilità sociale negli strumenti di informazione al consumatore, al momento incentrati sulla sola dimensione ambientale. Non mancano riflessioni relative all’introduzione di standard di sostenibilità sociale anche tra i requisiti richiesti per l’ottenimento del marchio biologico europeo. Tali riflessioni, per altro, vanno di pari passo con quelle relative all’introduzione di standard attinenti alla sostenibilità anche tra gli quelli il cui rispetto è richiesto per l’utilizzo di certificazioni per i prodotti agro-alimentari, come le denominazioni d’origine protette e le indicazioni geografiche protette.

Nell’ambito degli strumenti di comunicazione business to consumer, merita attenzione il ruolo che la denominazione stessa del prodotto può svolgere nell’incentivarne l’acquisto da parte dei consumatori. Emblematica la questione dell’utilizzabilità di denominazioni relative a prodotti di origine animale per i sostituti di origine vegetale, le cosiddette fake meats. Sulla questione si è avuta una recente decisione del Parlamento europeo, che il 20 ottobre 2020 ha respinto quattro emendamenti relativi al divieto di utilizzo delle denominazioni dei prodotti a base di carne per i prodotti vegetali sostitutivi. La decisione è stata preceduta da un forte dibattito e da una vera e propria campagna intrapresa dai produttori di carne, rappresentati da Copa-Cogeca ossia l’unione delle associazioni europee di agricoltori e allevatori, per impedire l’utilizzo delle denominazioni utilizzate per i meat based products in relazione a prodotti vegetali sostitutivi. Secondo i produttori in questione, l’uso di tali denominazioni avrebbe potuto ingannare i consumatori, inducendoli a credere di trovarsi davanti a prodotti a base di carne.

La questione era essenzialmente di natura economica e legata al timore, da parte dei produttori di carne, di vedere il proprio mercato intaccato da produttori concorrenti. Il mercato dei prodotti sostitutivi della carne è infatti un settore in forte crescita, il cui valore a livello globale ammonta attualmente a 4,6 miliardi di dollari, con la prospettiva di arrivare, entro quattro anni, a un valore di oltre 6 miliardi di dollari. Il 39% di questo giro d’affari è destinato a essere concentrato in Europa, in virtù della sempre maggiore attenzione dei consumatori europei all’impatto sull’ambiente delle proprie scelte.

La questione non era tuttavia priva di rilievo sul piano delle politiche ambientali, come hanno evidenziato le associazioni ambientaliste intervenute sulla questione, tra cui Greenpeace. Secondo le associazioni in questione, infatti, consentire l’utilizzo di denominazioni tradizionalmente usate per i prodotti a base di carne sarebbe non solo possibile, non comportando alcun rischio di confusione per i consumatori, ma anche auspicabile, poiché renderebbe prodotti come le fake meats più “appetibili” ai consumatori mediante l’uso di termini a loro già familiari, senz’altro più accattivanti di termini fantasiosi ma non altrettanto idonei a fare presa sul consumatore. Questo consentirebbe di incentivare il consumo di prodotti che presentano un carattere di maggiore sostenibilità ambientale rispetto a quelli di origine animale, in linea con gli obiettivi di sostenibilità ambientale che la stessa Unione europea si è data, tra i quali la promozione di un minor consumo di carne e uno maggiore di prodotti a base vegetale.

Questo dibattito allude a un problema di fondo, che aggiunge un ulteriore elemento di complessità nell’ambito delle strategie di sviluppo sostenibile centrate sul ruolo attivo dei consumatori: qualsiasi strumento di comunicazione business to consumer utilizzato dagli operatori economici (etichettatura, marchi, denominazione dei prodotti, pubblicità) deve veicolare informazioni affidabili e idonee a non indurre in inganno i consumatori. Una particolare attenzione è posta, nella già citata Agenda dei consumatori, al contrasto del cosiddetto greenwashing, definito come l’utilizzo, da parte degli operatori economici, di «informazioni non veritiere o presentate in modo confuso o fuorviante per dare la falsa impressione che un prodotto o un’impresa sia più rispettoso dell’ambiente» di altri prodotti o imprese concorrenti.

Per altro, da una recente indagine condotta dalla Commissione europea con le autorità nazionali di tutela dei consumatori allo scopo di individuare violazioni del diritto dell’UE in materia di tutela dei consumatori nei mercati online, è emersa chiaramente l’ampia diffusione di questo fenomeno. Nell’ambito di tale indagine, incentrata per la prima volta proprio sul greenwashing, sono state analizzate le asserzioni ambientali utilizzate in vari settori economici, come quelli dell’abbigliamento, dei cosmetici e degli elettrodomestici. Dai risultati è emerso come, nel 42% dei casi analizzati, vi fosse fondato motivo di ritenere che le affermazioni fossero esagerate, se non false o ingannevoli. Affinché le strategie di politica ambientale che fanno leva anche sulle dinamiche di mercato possano produrre risultati è necessario contrastare il greenwashing ma, più in generale, ogni forma di abuso della comunicazione business to consumer.

Nell’affrontare tale riflessione relativa agli strumenti di informazione, è bene aver presente, infine, la sfida senz’altro più significativa che si pone in quest’ambito: l’eccessiva fiducia nelle dinamiche del mercato come strumento per il raggiungimento di obiettivi di sviluppo sostenibile. L’attenzione al ruolo che i soggetti del mercato, in particolare i cittadini-consumatori, possono svolgere a sostegno dello sviluppo sostenibile non può tradursi in un atteggiamento rinunciatario da parte delle istituzioni, sia a livello internazionale che nazionale. È necessario fare i conti con il fatto che i soli cittadini-consumatori, con le proprie scelte d’acquisto, non possono cambiare l’intero sistema produttivo, poiché tali scelte si muovono comunque nell’ambito di un sistema che è disegnato dalle scelte e le azioni di molteplici attori, a partire dagli operatori economici e dalle istituzioni.

Concretamente, si può cercare di favorire un consumo, da parte dei cittadini, di una minore quantità di alimenti provenienti dall’allevamento intensivo a favore di una dieta plant based, e dunque con un impatto ambientale più ridotto, ma questo serve a poco se si continuano a incentivare con fondi pubblici i grandi allevamenti intensivi, estremamente inquinanti. Si può costruire una campagna di comunicazione istituzionale per incoraggiare i cittadini a usare meno la macchina nei propri spostamenti per inquinare meno, ma ciò produrrà effetti molto limitati se, ad esempio, non si investe in un’efficiente rete di trasporti pubblici accessibile a tutti i cittadini, o se si continuano a concedere autorizzazioni per lo sfruttamento di nuovi giacimenti di petrolio e gas.

Il ruolo cruciale dei cittadini-consumatori e, dunque, dell’informazione a loro rivolta nelle strategie di sviluppo sostenibile, va promosso con la consapevolezza che la partecipazione attiva della cittadinanza non può essere ridotta alla sola dimensione del consumo. Strategie che vogliano davvero rendere i cittadini parta attiva del processo di transizione verso un mondo pienamente sostenibile non potranno relegarli al solo ruolo di individui-consumatori, ma dovranno prevedere soluzioni che garantiscano una piena ed effettiva partecipazione attiva dei cittadini al processo di raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile, in molteplici forme e a ogni livello. Dovranno, cioè, essere inseriti all’interno di una piena partecipazione di ciascuno alla vita pubblica e ai processi decisionali, favorendo forme di cittadinanza attiva che prescindano dalla capacità di acquisto dell’individuo.

 

Arianna De Conno ha conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza presso l’Università di Pisa, con una tesi sul rapporto tra informazione al consumatore e sviluppo sostenibile. Si occupa dei temi del consumo critico anche come educatrice e formatrice. E-mail: arianna.deconno@live.it