“C’è bisogno di un giornalismo di pace”. Intervista a Laura Silvia Battaglia
Fin dalle prime ore, il conflitto armato tra Israele e Hamas ci pare sia stato raccontato dalla maggior parte dei media europei e occidentali in maniera de-storicizzata, e spesso secondo una logica binaria “amico/nemico”. È d’accordo con questa interpretazione? Dopo quasi un mese dall’inizio delle ostilità, questa narrazione è a suo avviso mutata?
La modalità con cui i media occidentali stanno raccontando questo conflitto è decisamente “contemporaneista”. Tutto inizia il 7 ottobre, come se nulla fosse accaduto in una storia lunga almeno 70 anni. Il conflitto è sempre conflitto Israele-Hamas, dove Hamas è giustamente indicata come l’entità contro cui Israele combatte, ma da questo contesto vengono cancellate, non menzionate e, infine, oscurate la Palestina e la questione palestinese, con tutti i temi sulla terra occupata o contesa, e sulla identità negata o estorta. In questa prospettiva, la logica binaria amico-nemico è funzionale a eliminare ogni scala di grigi e soprattutto ogni azione pacifica e congiunta: le iniziative, ad esempio, della comunità di Haifa, da sempre molto mista e attiva, dove di recente migliaia di persone si sono affollate in una moschea per un incontro interreligioso tra ebrei, cristiani e musulmani, per chiedere una tregua duratura e la liberazione di tutti gli ostaggi e i prigionieri, da entrambe le parti, sono state oscurate da altre notizie. La copertura di iniziative di questo genere, comprese quelle omologhe nelle piazze di Londra, Washington o New York, trovano una copertura numerica minore, oppure non vengono menzionate affatto.
Con il rilascio di ostaggi e prigionieri, in corso da alcuni giorni, la narrativa di questa guerra sui media è lievemente più incline a rivedere la logica binaria, ma il “doppio standard” permane. L’uccisione di tre fratelli di origine palestinese in Vermont, anche sulla copertina dei giornali americani, trova posto quasi a fondo pagina come “crimine d’odio” ma senza titoli allarmistici su un eventuale pericolo islamofobico. Diversamente da quanto accade in genere quando le vittime di reati del genere sono ebree o cristiane o laiche (penso al caso del docente francese accoltellato alcuni mesi fa in Francia per hate crime, definito però un caso di “terrorismo” per mano di “lupo solitario”).
Recentemente ha osservato che il mondo dei media non può continuare a essere “un mezzo di prosecuzione del discorso coloniale”. Quali sono le conseguenze di questo approccio? Come ritiene che il giornalismo possa essere “decolonizzato”?
I media occidentali e anche i media anglosassoni continuano ad avere una posizione up-down , dall’alto in basso, rispetto al resto dell’umanità e alle notizie dal resto del mondo. Lo vediamo con chiarezza anche rispetto al decesso dei colleghi gazawi, palestinesi e libanesi sul fronte della attuale guerra, di cui poco o nulla si parla [secondo il Committee to Protect Journalists, a oggi sono 57 i giornalisti uccisi nel conflitto armato in corso, tra cui almeno 8 giornaliste donne secondo Women Press Freedom, ndr], ma anche rispetto al contributo degli stessi sulle piattaforme Instagram e TikTok. Se non fosse per colleghi come Motaz Azaiza, che è giustamente diventato l’uomo dell’anno per GQ Arabic, non avremmo alcuna notizia diretta da questa parte del fronte, inaccessibile ai giornalisti internazionali. La decolonizzazione dei media occidentali inizia da qui: dare alle colleghe e ai colleghi non bianchi, non anglosassoni e dei Sud del mondo l’attenzione, il rispetto e i premi Pulitzer che meritano. E promuovere con loro campagne per la difesa della vita e della libertà di tutte e tutti quei giornalisti che rischiano quotidianamente per informare il mondo. Forse, quando avremo dei foreign desk [sezione di una redazione giornalistica dedicata alla copertura e alla gestione delle notizie provenienti dall’estero, ndr] veramente inclusivi per genere, nazionalità, colore, religione, allora riusciremo a decolonizzare ogni giornalismo.
È possibile, per i giornalisti e le giornaliste appartenenti a comunità oppresse o che hanno vissuto forme gravi di violenza, praticare un giornalismo “obiettivo” e “imparziale”? Come tenere conto del proprio posizionamento e della propria esperienza di vita per produrre un “giornalismo di pace”, che contribuisca alla comprensione critica e alla trasformazione non violenta dei conflitti, superando pregiudizi e polarizzazioni?
Certo, è possibile, ma non è affatto facile. Nel 2013, quando insegnai per due mesi giornalismo all’università al-Ahzar di Gaza, mi ritrovai a discutere proprio di questo con i miei allievi. Mi dicevano che non comprendevano interamente il significato e il senso di un giornalismo “obiettivo” e “imparziale”. Dicevano che non potevano e non riuscivano, in un contesto in cui era a loro impedito uscire dalla Striscia, confrontarsi con una alterità, potere comparare condizioni di vita diverse dalla loro. Così, riconoscevano che inevitabilmente il loro giornalismo sarebbe stato più soggettivo e attivistico, proprio per le condizioni di vita loro imposte, da una parte dall’occupazione israeliana, dall’altra dalla dittatura de facto di Hamas. Tuttavia, è possibile praticare un giornalismo imparziale: un giornalista gazawi può decidere se militare nella unità media e visual di Hamas, realizzando video per la loro promozione e la diffusione del loro credo politico e militare in loco e nel mondo, oppure lavorare per un media con posizioni chiaramente pro-palestinesi ma con un linguaggio tendente all’oggettività, come fa al Jazeera Arabic, oppure agire da indipendente, come fa Motaz Azaiza, che pubblica i suoi contenuti sui social media, raccontando semplicemente la vita quotidiana dei civili. La sua onestà è sinonimo di obiettività, in quel contesto.
Esiste una propaganda di guerra anche da parte palestinese? Se sì, come si configura, e a chi si rivolge?
Quando c’è una guerra, ci sono sempre almeno due propagande. Quella palestinese non agisce solo da questo momento storico ma riposa nel passato, nella storia di un popolo comunque privato della terra da settanta anni. Si basa tendenzialmente sull’enfatizzazione del ruolo della vittima o delle vittime, sull’oscuramento degli strumenti di propaganda nell’educazione quotidiana scolastica dei bambini, delle bambine e dei cittadini gazawi; e, nel conflitto in corso, nella minimizzazione di eventuali efferatezze compiute dal braccio aramato di Hamas. Sui social rivolti agli spettatori arabi, c’è molta enfasi sul trattamento positivo degli ostaggi israeliani, ad esempio, ma si tace di più sulle uccisioni nei kibbutz e al rave Supernova. Questa propaganda si rivolge al vasto pubblico del mondo arabo e al più vasto pubblico internazionale, affinché empatizzi con la causa palestinese e, là dove prevale l’indignazione profonda, specie presso alcune fasce sociali o in alcune comunità migranti in Europa, nel Regno Unito o negli Stati Uniti, si possa passare a una forma di reazione o di radicalizzazione sul lungo periodo.
Da quando, a fine ottobre, l’esercito israeliano è penetrato nel Nord di Gaza, abbiamo visto e letto servizi giornalistici da parte di giornalisti internazionali ammessi in questa zona della Striscia. Come valuta le condizioni di lavoro in cui stanno operando questi colleghi al seguito dell’esercito israeliano?
Resto del parere che il giornalismo “embedded” [termine con cui si definisce quel giornalismo di guerra dove i giornalisti si uniscono alle truppe e operano sotto la loro protezione e supervisione, per riportare notizie direttamente dal fronte, ndr] nasce estremamente limitato e perciò sia destinato a essere pessimo. Tuttavia, quando non ci sono alternative valide, questo giornalismo resta l’unico praticabile, a patto di essere critici. Dunque, bene ha fatto la BBC a sottoporre a un fact-checking rigoroso il video fornito dalle Forze di sicurezza israeliane sull’ingresso nell’ospedale Al-Shifa, mostrando ad esempio come un calendario dei turni settimanali di medici e infermieri fosse stata spacciata dall’esercito come una tabella con i turni di guardia dei terroristi, generando meme ironici sui social nel mondo arabo. Deprimente, invece, il comportamento della CNN, il cui inviato in elmetto e giubbotto antiproiettile non faceva altro che ripetere ciò che gli era stato “venduto” come verità, con effetti esilaranti per i parlanti e scriventi in lingua araba. Purtroppo, non c’è niente da ridere quando si è in guerra e queste narrazioni servono a giustificare internazionalmente i bombardamenti che, finora, hanno ucciso più di 14.000 civili gazawi inermi, invece di perseguire i veri responsabili degli attacchi terroristici del 7 ottobre.
Intervista a cura di Chiara Magneschi, realizzata il 25 novembre 2023 e chiusa in redazione il 28 novembre 2023.
Laura Silvia Battaglia è reporter freelance e documentarista, specializzata in dialogo interreligioso e Medio Oriente. Si è occupata a lungo di Iraq e Yemen, paese nel quale ha vissuto per quattro anni, di cui ha una seconda cittadinanza e dal quale ha corrisposto più volte durante il conflitto iniziato nel 2015. Lavora per diverse agenzie internazionali e collabora con vari quotidiani, testate televisive e programmi radiofonici. Ha vinto i premi giornalistici “Luchetta”, “Siani”, “Cutuli”, “Giornalisti del Mediterraneo” e “Colomba d’oro per la Pace”.
L’immagine di copertina rappresenta tre giornalisti in piedi sulle macerie della torre Al Jala, che ospitava diversi organi di informazione tra cui The Associated Press e Al Jazeera, colpita dagli attacchi aerei israeliani a Gaza il 14 maggio 2021. Foto: Mohammed Talatene/Picture Alliance via Getty Images.