venerdì, Novembre 22, 2024
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L’alba di una nazione? Sulla costruzione di un’identità e di uno Stato europei

di Giovanni Scrivano

 

Nei dibattiti sul presente e sul futuro dell’Unione Europea, soprattutto ascoltando quella parte favorevole a una prosecuzione del processo di integrazione, è comune sentir ripetere le parole “identità” e “Stato”: l’identità è invocata sia nella constatazione di fatto, secondo la quale esiste già qualcosa di simile a una identità europea, sia nell’auspicio che tale identità si possa nel futuro rafforzare, onde fungere da base per una una maggiore coesione europea. La nozione dello Stato è, invece, chiamata in causa come punto di arrivo ideale del processo stesso d’integrazione, auspicando cioè che esso conduca alla creazione di uno Stato europeo, il quale dovrebbe assumere, secondo l’opinione più diffusa, carattere federale.

Se il ricorso ai concetti di identità e di Stato in relazione all’Europa è piuttosto comune, meno comune sembra essere l’analisi approfondita degli stessi, a partire della loro non banali problematicità: Stato e Identità (o, meglio, quella particolare identità politica che è la Nazione) sono stati, infatti, assolutamente centrali in quella fase della storia europea che inizia con la Rivoluzione francese e finisce con la conclusione dell’ultimo conflitto mondiale, giustamente considerata come spartiacque epocale rispetto alle modalità con cui la guerra è stata condotta, accompagnata da violenze sui civili e forme di sterminio di massa mai conosciute prima. Proprio per non rivivere più uno stato di guerra totale tra le nazioni europee e garantire una pace duratura sul continente, si sente ripetere spesso, è stata creata l’Unione Europea (e prima di essa lo furono le comunità sue precorritrici, dell’acciaio e del carbone, ed economica). Eppure, a parere di chi scrive, è legittimo e necessario un esame più accurato nel caso in cui entrino in gioco concetti che portano il peso e le ombre del passato.

 

Lo Stato, l’identità, la Nazione

Come giustamente osservato dal sociologo Zygmunt Bauman (2003a; 2003b), la Nazione è una sorta di “identità artificiale” nel senso che non si è formata, almeno nella sua interezza, solo attraverso processi spontanei. Grazie ad essa lo Stato si consolida e legittima. All’origine delle Nazioni si traccia una distinzione tra la comunità nazionale dello Stato e l’insieme di tutti coloro che a quella particolare identità nazionale sono considerati “estranei” e che, si ritiene, la minaccino (o, più probabilmente, minacciano gli interessi dello Stato). Tale Nazione, però, è stata spesso edificata con la coercizione e la repressione verso quanti si rifiutino di aderire alla nuova identità, unica per tutto il territorio dello Stato e probabilmente mai esistita prima, che si sostituisce a quella moltitudine di modi di vita, dialetti, comunità e corpi intermedi caratteristici del panorama europeo ancora in tarda epoca moderna. Facendo leva sul concetto di Nazione, nel corso del XIX e XX secolo, gli Stati poterono prelevare dalla loro società civile quantità di risorse senza precedenti, nella forma di denaro, obbedienza, o soldati di leva animati adesso da un nuovo fervore nazionalistico, più di qualsiasi forma di collettività organizzata precedente (Reinhard, 2010).

Lo Stato fu quindi fondamentale per la formazione delle identità nazionali almeno quanto queste furono strumentali al consolidamento e all’espansione del potere dello Stato, in un processo che non sempre fu pacifico, per i singoli popoli e per l’Europa nel suo insieme. Tanto forte fu questo sodalizio tra Stato e Nazione che, nel momento in cui in Europa il sentimento nazionale iniziò ad affievolirsi, così sembrò fare anche la legittimazione dello Stato, e con essa la sua straordinaria capacità di prelievo e mobilitazione.

È perciò giustificato, guardando al percorso storico di questi concetti e alla loro stretta interazione, chiedersi se vi siano realmente le condizioni per una loro più mite riproposizione o se invece, chiamandoli in causa senza particolari distinzioni e precauzioni, non si rischi di ripetere alcuni dei drammatici errori di cui questi concetti sono stati forieri.


 
Passato e presente dell’identità europea

I più ferventi sostenitori dell’idea di un’unità europea sono spesso i più consapevoli del ruolo giocato dalle identità nazionali degli stati in alcune delle fasi più buie del nostro passato. Tuttavia sembrano, alle volte, meno consapevoli del fatto che, sostenendo la creazione di una federazione europea di qualche tipo come cesura rispetto al passato, basata sul riconoscimento di una “comune identità europea”, rischiano di invocare due categorie, quelle di Stato e di identità (che gli possa fungere da sostegno), quali soluzioni ai mali che quelle stesse categorie hanno, almeno in parte, causato.

Se vogliamo applicare, consapevolmente o meno, al futuro dell’integrazione europea i concetti che furono propri del consolidamento dello Stato moderno, in particolare dall’illuminismo e dalla Rivoluzione francese in poi, dobbiamo tenere a mente che tale processo non si è manifestato solamente nelle proclamazioni dei diritti fondamentali e nella nascita dello Stato di diritto (elementi positivi di quell’eredità cui oggi l’Unione cerca di richiamarsi), ma ebbe anche un volto decisamente più oscuro, fatto di repressione e intolleranza verso quanti erano ritenuti “non conformi” alle nuove identità.

Si tende ad associare l’identità europea a principi di tolleranza, democrazia, libertà di movimento e collaborazione internazionale, tutti enunciati in numerosi trattati e carte dei diritti, sottoscritti in Europa forse in quantità maggiore che in qualsiasi altra regione del pianeta. Ma se da un lato si può porre in discussione quantomeno la capacità, per non dire la volontà, degli Stati nazionali e dell’Unione stessa di applicare estensivamente tali principi al proprio interno, dall’altro si deve notare che tali principi hanno una vocazione universalistica, per cui limitarne l’applicazione e il rispetto ai soli territori dell’Unione appare una chiusura arbitraria. Questi principi non hanno nulla di intrinsecamente europeo, ovvero non riposano su una storia e una cultura comuni in cui in via esclusiva i popoli dell’Unione possano riconoscersi: tali principi sono suscettibili di un riconoscimento e di un’attuazione universali, per altro auspicabili. Non è un caso che essi siano stati assunti tra gli obiettivi anche di organizzazioni extraeuropee e sovranazionali, a partire dalle Nazioni Unite.

Di tali principi l’Unione può forse costituire al momento la più avanzata forma di implementazione, ma non certo l’unica, e perciò questa forma di identità europea sembra poter avere una scarsa efficacia di legittimazione per un ipotetico Stato europeo, il quale non avrebbe un particolare diritto a governare l’Europa più che qualsiasi altro territorio; nel nazionalismo otto-novecentesco, invece, lo Stato doveva venire ossequiato in quanto forma associata di quella particolare Nazione. Di contro, le popolazioni degli Stati nazionali potrebbero ritenere che la tutela dei diritti umani, sanciti pressoché ugualmente da quasi tutte le costituzioni d’Europa, possa essere demandata allo Stato nazionale di appartenenza; magari perché percepito come più vicino e controllabile, o anche solo per quella parte ancora esistente di sentimento d’appartenenza nazionale.


 
L’avvenire di un’illusione?

La domanda fondamentale è se si voglia fare dell’Europa uno Stato e, una volta che questa domanda abbia trovato una risposta affermativa, bisogna constatare che le istituzioni politiche hanno bisogno di una legittimazione di qualche tipo se vogliono sperare di far accettare le proprie decisioni ai popoli che governano, prima ancora di poter ambire alla capacità di prelevare risorse propria dell’epoca degli Stati Nazionali.

Non è questa la sede per approfondire se possano esistere altre e nuove forme di legittimazione per uno Stato. Ci si vuole limitare qui a riconoscere che tali sono state le forme storiche preminenti di legittimazione, e, come tali, devono essere prese in considerazione, non fosse altro che per accantonarle come poco praticabili. Qualora perciò si parli della necessaria costruzione di un’identità per l’Europa, si deve riconoscere di volersi servire di un concetto che ha una lunga storia alle spalle, e il cui uso, se applicato nelle sue forme storiche, non è esente da pericoli molto concreti.

Da una parte, infatti, i diritti umani non sembrano poter rappresentare, per la loro universalità, un’identità specificatamente europea (a meno che non si voglia affermare che i soli europei siano capaci di libertà, democrazia, tolleranza e simili, idea che probabilmente più di qualche storico si sentirebbe di mettere in discussione). Dall’altra parte, è dubbio che nel lungo periodo possano servire allo scopo le legittimazioni di tipo “funzionalista” avanzate da molti degli stati occidentali contemporanei, in cui il consenso sembra derivare sempre più dal trasferimento di denaro a vari gruppi di interesse, almeno per un ipotetico Stato europeo che ambisca ad avere una legittimazione autonoma, invece di essere percepito come semplice “governo del mercato”.

Resta, dunque, da chiederci che cosa possa rappresentare adeguatamente l’identità europea. Alcune delle possibili risposte a questa domanda rischiano di essere quantomeno inquietanti: in mancanza di una lingua e di un retaggio culturale immediatamente percepibile come comune da parte dei popoli europei, c’è il rischio che l’identità europea, se la si vuole costruire come sono state a loro tempo edificate le identità nazionali, tese cioè a delimitare ma anche a escludere, porti a una nuova stagione di xenofobia tesa a difendere dalle minacce esterne le pretese comuni “radici” culturali. Senza voler avanzare paragoni forzati, va comunque ricordato che l’idea di un’identità europea di questo tipo sia stata avanzata, nella sua forma più radicale, sotto il regime nazionalsocialista che cercò di narrare sé stesso come il difensore dell’Europa dall’aggressione del “giudeo-bolscevismo”. Oggi, in maniera forse per alcuni inaspettata ma in generale non del tutto contraddittoria, di “identità europea” si sente parlare anche in ambienti collegabili alla destra estrema, spazio politico più comunemente associato nella mentalità comune alla categoria del sovranismo. Tali movimenti, infatti, hanno “costruito” un’identità europea precisamente nel modo che abbiamo delineato (collegandola in questo caso alla religione cristiana o all’etnia, che pretendono comuni all’Europa), e di essa si proclamano difensori contro immaginari progetti di “sostituzione etnica” attraverso le migrazioni.

Che si riesca ad associare ad un ideale, come quello europeo, da molti ritenuto garanzia di pace e cooperazione tra i popoli, il più bieco delirio xenofobo non deve tuttavia stupire: ogni confine tracciato su una mappa divide, per definizione, coloro che stanno “dentro” da coloro che stanno “fuori”. Se il processo di integrazione europea non deve portare ad altro che a spostare confini dal Reno e dalle Alpi al Mediterraneo e ai Balcani, come pure alcuni vorrebbero, allora non è da escludere che i processi del passato si possano almeno parzialmente ripresentare: la proliferazione di “muri” anti-migranti e la gestione militare della frontiera mediterranea, luogo di sofferenza e morte per migliaia di persone, stanno a dimostrarlo.

Vale la pena ripeterlo ancora, in conclusione. Questi rischi saranno difficili da evitare se noi costruiremo l’identità europea allo stesso modo in cui abbiamo costruito quelle delle nazioni. Ma questa non è necessariamente l’unica possibilità: il pericolo di ripetere gli errori del passato è una ragione più che sufficiente, anche da sola, per cercare nuove categorie su cui fondare le nostre identità, ma sempre esaminando con attenzione i concetti in cui speriamo di poter riporre la nostra fiducia per l’avvenire, anche quelli ritenuti più rassicuranti o familiari. Rimangono, da questo punto di vista, un monito le parole attribuite a Thomas Jefferson: “il prezzo per il mantenimento della libertà, è l’eterna vigilanza”.


 
Riferimenti bibliografici

Z. Bauman (2003a), Intervista sull’identità, Laterza, Roma-Bari.

Z. Bauman (2003b), Voglia di comunità, Laterza, Roma-Bari.

W. Reinhard (2010), Storia dello Stato moderno, Il Mulino, Bologna.

 

Giovanni Scrivano frequenta il corso di laurea magistrale in Giurisprudenza presso l’Università di Pisa.