sabato, Luglio 27, 2024
Economia

Criticità dell’economia globale e risposte politiche nella pandemia. Intervista a Pompeo Della Posta

L’ultimo Chief Economists Outlook, pubblicato lo scorso novembre dal World Economic Forum, sintetizza le principali tendenze dell’economia globale nell’attuale contesto, ancora profondamente segnato dalla crisi pandemica. Che quadro emerge da questo rapporto?

È un quadro caratterizzato, come scrivono gli autori, da “forti squilibri” legati alle differenti risposte che i paesi hanno dato alla pandemia, cui si sommano i costi sempre più visibili del contrasto alla crisi climatica. “La linea di faglia più profonda – si legge nell’Outlook – è emersa tra le economie con accesso ai vaccini e con politiche economiche di supporto, e quelle senza”. Quasi un anno dopo l’avvio delle prime campagne di vaccinazione, solo il 3,7% della popolazione nei paesi a basso reddito ha ricevuto almeno una dose di vaccino, contro il 61% della popolazione nei paesi ad alto reddito. Là dove la copertura vaccinale è ancora bassa, i paesi vivono spesso blocchi prolungati della vita sociale e limitazioni nelle attività economiche. Là dove sono mancate politiche di sostegno al reddito o alla ripresa, vengono esacerbate “le cicatrici economiche e sociali causate dal fallimento di varie attività e dalla crescita della disoccupazione” e delle diseguaglianze sociali. Fino a quando non ci sarà maggiore equità vaccinale su scala globale, la pandemia non sarà vinta e continueranno a esserci grossi rischi per la diffusione del virus e delle sue varianti, e la ripresa economica sarà incerta e diseguale.

La pandemia ha anche evidenziato fragilità già presenti nell’economia globale. Il caso più emblematico è quello delle “catene globali del valore” (global value chains) e delle “filiere globali di approvvigionamento” (global supply chains). La catena globale del valore comprende l’insieme delle attività transnazionali che danno vita a una merce: dalla progettazione alla produzione, attraverso l’assemblaggio dei vari materiali e componenti, fino alla commercializzazione e alla distribuzione. La catena globale di approvvigionamento riguarda nello specifico il trasporto internazionale dei materiali e dei prodotti. Prima della pandemia, il 70% del commercio mondiale comportava scambi di materie prime, componenti, servizi per le imprese e beni strumentali all’interno di catene globali. Questa organizzazione produttiva e commerciale consente, in teoria, alle aziende di “ottimizzare” ogni singola fase del processo, andando alla ricerca del fornitore più efficiente e meno costoso su scala planetaria: non riguarda solo i prodotti tecnologicamente avanzati, come smartphone, computer o autovetture, ma anche le produzioni del settore agroalimentare e dell’abbigliamento.

Le catene globali sono problematiche, non solo perché sono associate ai processi di “delocalizzazione” con cui le aziende spostano le produzioni là dove la forza lavoro è più sfruttata, dove esistono meno vincoli ambientali e legislazioni fiscali più favorevoli, ma anche perché queste catene sono lunghe ed esposte a rotture. Pensiamo a quello che è successo lo scorso 23 marzo quando la portacontainer Ever Given si è incagliata nel Canale di Suez ostruendone il passaggio e creando una coda di 230 altre navi. L’agenzia Bloomberg ha stimato che il blocco del Canale, attraverso cui passa il 12% delle merci mondiali e il 30% del traffico dei container spediti via mare, ha determinato una perdita di almeno 9,6 miliardi di dollari al giorno.

La pandemia, specialmente nelle prime fasi caratterizzate da lockdown prolungati, a partire da quello che ha interessato la Repubblica Popolare Cinese nei primi mesi del 2020, ha interrotto molte catene globali provocando uno shock dell’offerta. Nel caso della Cina la cosa si spiega facilmente, perché il paese fornisce molti prodotti intermedi per varie produzioni poi ultimate e commercializzate in Occidente.

Un caso specifico e interessante di catene globali fragili è quello dei semi-conduttori. Diverse produzioni, tra cui quella dell’auto, si sono interrotte o hanno rallentato per la mancata fornitura di semi-conduttori: le scorte di tali materiali sono state in parte dirottate sulla produzione di chip destinati ai computer, la cui domanda è aumentata per effetto della diffusione del lavoro a distanza in tempo di lockdown. La fragilità di questa catena globale è dovuta anche a un altro fattore: le difficoltà di approvvigionamento delle cosiddette “terre rare” che, grazie alle loro proprietà chimico-fisiche, sono fondamentali nella produzione di circuiti e motori elettrici per vetture, ma anche nelle tecnologie militari e civili come i robot e le turbine eoliche. Tali materiali sono abbastanza diffusi sotto la crosta terrestre, ma la bassa concentrazione dei loro depositi li rende rari e costosi da estrarre, così che i paesi fornitori alla fine sono pochi. È il caso della columbite-tantalite, conosciuta generalmente come “coltan”, attualmente fornita soprattutto dal Congo e particolarmente ricercata per la produzione di cellulari e computer.

La pandemia, accelerando i processi di informatizzazione della vita quotidiana, del lavoro e delle pubbliche amministrazioni, ha rivelato ulteriori criticità nell’organizzazione economica attuale: ad esempio, è emersa la dipendenza europea da piattaforme digitali come Microsoft Teams, Zoom, Google Meet, gestite da società private di cui nessuna con sede in Europa. Tradizionalmente, uno dei parametri chiave per stabilire le “eccezioni” al libero commercio è stato quello della sicurezza militare. Oggi assume sempre più rilievo quello della sicurezza informatica (per altro non disgiunta da problemi di ordine militare, se è vero che già adesso molti conflitti tra Stati o tra Stati e attori non statali assumono la forma di cyberwars). Le misure adottate dall’amministrazione Trump per escludere la Repubblica Popolare Cinese dalla realizzazione di infrastrutture 5G negli Stati Uniti si inserisce in questo scenario.

 

Come possono rispondere, in generale, i governi alla fragilità delle catene globali messa in luce dalla pandemia?

Le risposte dei governi possono essere molteplici: ne fa menzione anche il Chief Economists Outlook da cui siamo partiti. In primo luogo, si possono promuovere nuove reti di produzione ovvero “filiere globali parallele”, per disporre di forniture alternative e ridurre la dipendenza da determinati paesi. In secondo luogo, rispondendo anche a esigenze ambientali, le catene globali possono essere accorciate ossia la produzione può essere spostata in paesi più vicini ai mercati di vendita, così da ridurre o evitare spedizioni costose e clima-impattanti. Questa strategia può arrivare fino al cosiddetto reshoring, ossia al ritorno di gran parte della produzione nel paese d’origine delle aziende che prima avevano delocalizzato. In terzo luogo, i governi potrebbero investire risorse per rendersi più autonomi dall’estero in alcune produzioni strategiche, come i prodotti farmaceutici, i semiconduttori, i microchip, le batterie, ecc. Infine, i governi potrebbero essere tentati di ricorrere a misure protezionistiche, anche per alleviare le pressioni che le importazioni da paesi a medio e basso reddito esercitano sul mercato dei beni e del lavoro di quelli ad alto reddito. Ma il protezionismo unilaterale è sempre rischioso, a causa delle reazioni a catena che può produrre.

 

Rispetto alle catene globali la pandemia sembra aver contribuito a una “crisi della globalizzazione”, ovvero a un’inversione di tendenza rispetto al primato del libero commercio e all’articolazione transnazionale della produzione e degli scambi. Assistiamo alla conferma delle critiche mosse alla “globalizzazione neoliberista” dal “movimento dei movimenti”? Penso alle mobilitazioni del dicembre 1999 a Seattle contro il vertice dell’Organizzazione Mondiale del Commercio WTO, o alle manifestazioni del luglio 2001 a Genova contro il G8, in cui si criticava la subordinazione delle economie e delle società locali, dei bisogni delle comunità e dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici agli “interessi del mercato” ovvero, più concretamente, alla ricerca di profitti da parte del sistema finanziario e delle multinazionali.

Se le proteste contro una globalizzazione tutta centrata sulla logica di mercato fossero state minimamente accolte, forse avremmo potuto prevenire le crisi economiche degli ultimi decenni (a partire da quella del 2008) e si sarebbero evitate le risposte conservatrici agli effetti negativi della globalizzazione, incarnate da Trump e dai “populismi di destra”. A suo tempo quelle critiche sono state rigettate in maniera sprezzante dai liberisti, eredi della signora Thatcher e del suo famoso motto “there is no alternative” (ossia, non c’è alternativa all’economia e alla società di mercato), sposato nel corso degli anni Novanta anche da esponenti della “nuova sinistra” come Blair o Clinton.

La pandemia ha indotto, almeno in un primo momento, ad assumere uno sguardo più critico su un modello di globalizzazione guidato unicamente dalla ricerca del massimo profitto e fondato sul primato del libero mercato, senza correttivi e senza intervento pubblico in economia: il modello che, ai tempi, era stato chiamato Washington Consensus e che era stato imposto come unica ricetta di successo, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Da una parte, dobbiamo riconoscere che le critiche avanzate più di vent’anni fa dal movimento di Seattle e di Genova non andavano liquidate come posizioni “no global”, espressioni di chiusura e di localismo, ma andavano prese sul serio e discusse come premesse per una posizione “new global”, ovvero come punto di partenza per un’altra globalizzazione, che mettesse al centro i diritti fondamentali, i beni comuni, la democrazia, le relazioni cooperative e pacifiche tra i popoli, contrastando in modo strutturale povertà e diseguaglianze. Dall’altra parte, avendo in mente le “pulsioni sovraniste” all’opera nella precedente amministrazione Trump, penso che dobbiamo guardarci dal rispondere alla crisi della globalizzazione neoliberista con il ripiegamento nazionalista. La storia europea e mondiale del primo Novecento ci dovrebbe mettere in guardia dal protezionismo estremo: dalle guerre commerciali si passa facilmente alle guerre in senso stretto.

 

La pandemia ha messo in discussione un altro dogma neoliberista, diretto corollario dell’idea che lo “Stato minimo” sia la condizione ottimale per lo sviluppo economico: la riduzione del debito pubblico. Le cosiddette “politiche di austerità”, caratterizzate dalla drastica riduzione del debito attraverso il taglio della spesa pubblica e il controllo del rapporto deficit/PIL, hanno dominato per anni il dibattito italiano ed europeo. Per far fronte alla pandemia abbiamo assistito a un cambio di rotta: politiche fiscali e monetarie espansive, creazione di strumenti di debito comune a livello europeo e allentamento delle regole in materia di indebitamento e deficit. È possibile fare previsioni sugli effetti di tali politiche? Si tratta di un cambio di paradigma o di una posizione reversibile?

In questo ultimo anno e mezzo abbiamo assistito, se non a delle vere e proprie “conversioni”, certamente a dei ripensamenti da parte di economisti orgogliosamente neoliberisti come Francesco Giavazzi, prima accesi sostenitori dell’austerità, adesso favorevoli all’aumento della spesa pubblica e dell’indebitamento per sostenere la ripresa dell’economia nella crisi pandemica.

Se torniamo con la memoria al 2011, anno cruciale della crisi nella zona euro, possiamo misurare l’entità del cambiamento avvenuto. Allora le politiche di austerità hanno toccato l’apice, con l’imposizione alla Grecia di fortissimi tagli alla spesa pubblica. Per garantire il pagamento dei debiti contratti dai governi di Atene nei confronti di banche straniere, soprattutto tedesche e francesi, le istituzioni europee hanno affamato un intero popolo, come dimostrano i dati sull’aumento della mortalità causato dal mancato accesso alle cure sanitarie. La critica ai dogmi neoliberisti, alimentata dalla crisi globale del 2007-08, è stata così riassorbita tornando ad attribuire ai “governi spendaccioni” la responsabilità della crisi dell’euro.

Avendo colpito il cuore produttivo e finanziario dell’Europa, la pandemia ha reso quasi inevitabile un cambio nella politica economica. Nel complesso, la riduzione del PIL e dell’occupazione sperimentate nel 2020, per effetto delle chiusure prolungate adottate contro la diffusione del virus, sono state maggiori rispetto alle contrazioni registrate con la crisi globale del 2007-08. Nello specifico, tra il 2007 e il 2009 l’Italia ha registrato una caduta complessiva del PIL del 6,3%, mentre nel solo 2020 la diminuzione è stata del 9%.

A differenza di quanto accaduto con la crisi del 2007-2008 e con la crisi della zona euro, le autorità monetarie e le istituzioni europee hanno cercato di contrastare attivamente l’impatto negativo della pandemia attraverso varie politiche espansive. La Banca Centrale Europea ha mantenuto molto bassi i tassi d’interesse e ha lanciato il Pandemic Emergency Purchase Program (PEPP): un programma di acquisto di titoli del settore pubblico e privato nel mercato secondario. Dal PEPP, che dovrebbe concludersi alla fine di marzo 2022, si attende una dotazione finanziaria totale di 1.850 miliardi di euro. Per effetto di questo programma, ad esempio, i costi di rifinanziamento del debito pubblico italiano si sono ridotti.

Il Consiglio Europeo ha approvato un pacchetto di interventi per rilanciare gli investimenti, incentrato sull’ormai famoso Next Generation EU: un programma di prestiti e sovvenzioni agli Stati membri, per un valore totale rispettivamente di 360 e di 390 miliardi di euro. Uno degli aspetti più significativi, e perfino di portata storica, del Next Generation EU è che viene finanziato attraverso l’emissione di titoli europei di debito: da sempre gli stati “virtuosi” dell’Unione si erano opposti a qualsiasi forma di “socializzazione del debito pubblico” a livello europeo! La risposta dei mercati all’emissione di questi titoli è stata buona: nel mondo di oggi, segnato da tante incertezze, c’è una forte domanda di safe assets, e i titoli garantiti dai bilanci degli stati dell’Unione Europea e dalla stessa Banca Centrale si presentano come particolarmente sicuri.

I fondi del Next Generation EU disponibili per l’Italia dovrebbero essere circa 127,6 miliardi di euro in prestiti e 77,4 miliardi di euro in sovvenzioni “a fondo perduto”, per un totale complessivo di 205 miliardi di euro. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), come noto, contiene le indicazioni operative secondo le quali il governo utilizzerà le risorse ma anche le “riforme” che dovranno accompagnare le spese, in coerenza con le specifiche “raccomandazioni” indirizzate al paese e con le “condizionalità” stabilite dalle istituzioni europee. È bene ricordare sempre che si tratta, per una quota significativa, di prestiti che andranno prima o poi restituiti: l’efficacia degli investimenti previsti dal PNRR, anche in termini occupazionali, è essenziale per garantire la ripagabilità del debito contratto.

Oltre ai fondi del Next Generation EU, i governi hanno beneficiato della temporanea sospensione del Patto di Stabilità e Crescita e di altri vincoli di bilancio, potendo adottare ulteriori misure espansive. Così, ad esempio, nonostante gli alti livelli di debito pubblico, l’Italia ha introdotto politiche di sostegno a imprese e famiglie, sotto forma di maggiore spesa pubblica e di riduzione delle imposte. Tuttavia, l’assenza di forme di finanziamento diretto della spesa pubblica da parte della Banca Centrale Europea, in linea con quanto stabilito dal Trattato sul funzionamento dell’Unione, ha portato a un forte aumento del rapporto debito pubblico/PIL, in Italia e non solo. Nel nostro paese, il deficit di bilancio è aumentato di circa 108 miliardi di euro nel 2020 rispetto a quanto previsto dalla legge di bilancio: con una contrazione del PIL reale del 9%, il rapporto debito/PIL a fine 2020 è così aumentato di oltre 20 punti, superando il 155%.

Tali misure saranno in grado di portare le finanze pubbliche, il PIL e l’occupazione ai livelli pre-Covid-19? Secondo alcune prime stime sulla situazione italiana, ciò non si verificherà, con conseguenze in termini di insostenibilità del debito sovrano nel lungo periodo. Forse non è un caso che il governo spagnolo abbia deciso di ricevere solo i contributi a fondo perduto ma non i prestiti del Next Generation EU: evidentemente ritiene che tale debito non sia sostenibile nel medio-lungo termine. Che gli stati, innanzitutto quelli europei, si stiano facendo carico nel contrasto della pandemia e nella ripartenza economica di debiti la cui restituzione è tutt’altro che scontata spiega, forse, perché tornino a circolare proposte per rendere il debito pubblico “perpetuo”, ovvero un debito che non dovrebbe mai venire rimborsato, ma di cui si continuerebbero a pagare solo gli interessi, per altro a tassi piuttosto bassi.

 

Un nuovo strumento fiscale di livello sovranazionale è in via di implementazione: la cosiddetta “global minimum tax”, finalizzata a stabilire un’aliquota minima per tassare le grandi multinazionali. Non è un caso che questa misura, in discussione da molti anni, sia stata decisa proprio in tempo di pandemia. Valdis Dombrovskis, vicepresidente della Commissione europea per un’economia al servizio delle persone e Commissario europeo per il commercio, commentando la proposta di una nuova Direttiva europea in materia ha affermato che si tratta di una misura “particolarmente importante in un momento in cui dobbiamo aumentare i finanziamenti pubblici per una crescita sostenibile ed equa, per affrontare le conseguenze della pandemia e promuovere la transizione verde e digitale”. Come valuta complessivamente questo strumento? È davvero una svolta epocale? E come dovrebbe funzionare in concreto?

Lo scorso 8 ottobre l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) ha annunciato che 136 paesi e giurisdizioni fiscali avevano siglato un accordo per porre “limiti concordati a livello multilaterale alla concorrenza fiscale tra i paesi in tema di tassazione delle imprese”, comprese quelle digitali. L’accordo includeva anche tre paesi dell’Unione Europea – l’Ungheria, l’Estonia e l’Irlanda – che non avevano firmato una prima bozza di accordo resa nota a luglio. Unico assente tra gli stati membri rimane a oggi Cipro, che non ha preso parte ai lavori.

L’accordo prevede due “pilastri”. Il primo riguarda le regole per redistribuire i diritti di tassazione delle multinazionali più grandi dalla giurisdizione di “stabilimento” a quella di “mercato”, rispetto a una determinata soglia di profitto. Il secondo pilastro riguarda le regole per definire e applicare un’aliquota minima di tassazione per le società multinazionali con fatturato superiore a una certa soglia.

Lo scorso 31 ottobre, a chiusura del vertice di Roma, i paesi del G20 hanno definitivamente avallato questo accordo a “due pilastri”. Nella Dichiarazione finale si fa appello all’Inclusive Framework (un gruppo di lavoro cui partecipano 140 stati e giurisdizioni con l’obiettivo di definire nuove regole fiscali globali) per sviluppare le regole e gli strumenti multilaterali per far entrare in vigore l’accordo nel 2023. In questo quadro, il 22 dicembre scorso la Commissione Europea ha adottato una proposta di Direttiva per implementare i principi dell’accordo OCSE negli stati membri, presentandola come uno strumento fondamentale per “combattere l’elusione e l’evasione fiscali”. La Commissione europea sta lavorando, in particolare, al pilastro dell’accordo globale relativo all’aliquota minima, per evitare “una concorrenza fiscale pericolosa tra gli stati membri” per attrarre società multinazionali sul proprio territorio.

Il primo pilastro dell’accordo quantifica la parte dei profitti che i soggetti multinazionali dovranno sottoporre a tassazione nella rispettiva giurisdizione-mercato, ovvero dove i beni e servizi sono utilizzati o consumati, superando parzialmente il criterio usuale della presenza fisica sul territorio. A subire questa riallocazione sarà il 25% dei profitti in eccesso rispetto alla soglia del 10%. A ricevere una quota dei profitti saranno le giurisdizioni in cui la multinazionale produce almeno un milione di euro di ricavi, oppure anche solo 250.000 euro per le giurisdizioni che hanno un PIL più basso di 40 miliardi di euro. Secondo i calcoli dell’OCSE, oltre 125 miliardi di dollari di profitti si sposteranno dalle giurisdizioni di stabilimento a quelle di mercato, e i maggiori destinatari dovrebbero essere i paesi in via di sviluppo. La regola, però, riguarderà solo i veri e propri colossi dell’economia globale: le aziende che fatturano oltre 20 miliardi di euro l’anno e, ovviamente, con una redditività di almeno il 10%, con l’esclusione delle imprese estrattive e di quelle che operano nei mercati finanziari regolamentati. Con questi parametri si stima che saranno interessate dal provvedimento solo 100 soggetti multinazionali. Cosa potrebbe voler dire questo accordo nella pratica? Che, per esempio, ad Amazon, che ha un margine operativo inferiore al 10% in quanto realizza i propri enormi profitti grazie alle grandi quantità di vendite effettuate, piuttosto che in virtù di alti profitti unitari, tale norma non si applicherebbe.

Il secondo pilastro, invece, fissa definitivamente al 15% l’aliquota minima effettiva per la tassazione delle società multinazionali. Viene chiusa la possibilità di un rialzo di questa soglia, prevista da una precedente versione dell’accordo, che fissava l’aliquota minima ad “almeno il 15%”. La platea dei soggetti interessati dal secondo pilastro è più ampia di quella del primo: si tratta dei gruppi multinazionali con più di 750 milioni di euro di ricavi annuali. Anche qui vigono alcune esclusioni e alcune deroghe, come i soggetti governativi, le organizzazioni internazionali e no profit, i fondi pensione. Secondo i calcoli dell’OCSE, le entrate fiscali aggiuntive prodotte dal nuovo meccanismo ammonteranno a circa 150 miliardi di dollari ogni anno. Come funziona il meccanismo dell’aliquota minima? Il principio di base è semplice: se il livello effettivo di tassazione praticato da una particolare giurisdizione è inferiore al 15%, il gruppo deve pagare un’imposta aggiuntiva per portare la propria aliquota fino a questo minimo.

Si può valutare questo accordo da molti punti di vista. Da un lato, ci si può certamente rallegrare del fatto che si sia arrivati a questo risultato, non scontato. D’altro lato, la misura del 15% risulta piuttosto bassa e non è detto che sia superiore a quella effettivamente praticata: ad esempio, non è significativamente superiore a quella del 12,5% già adottata dal governo irlandese e che è servita ad attrarre un’impresa globale come Apple. Una misura del 18-20% sarebbe risultata più adeguata. Resta inoltre un senso di ingiustizia, se si tiene conto di quanto vengano tassati, in media, i redditi delle persone fisiche: non si capisce perché le multinazionali non debbano essere trattate in modo analogo.

Le dichiarazioni positive sull’accordo, rilasciate dai portavoce di aziende come Amazon, Google o Facebook, sottolineano come le misure introdotte permetterebbero di ottenere la stabilità del sistema di tassazione globale e aumenterebbero il grado di fiducia nello stesso. Forse già questo potrebbe confermare i dubbi sull’efficacia della misura. Si potrebbe, però, pensare che queste imprese globali abbiano fatto una valutazione oggettiva, secondo la quale l’eventuale pagamento di maggiori imposte sarebbe più che compensato dal beneficio che otterrebbero in termini di riduzione del rischio di perdita di reputazione, potenzialmente devastante per i loro affari.

 

Pompeo Della Posta è Professore associato di Economia Politica al Dipartimento di Economia e Management dell’Università di Pisa, membro del Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace” e Direttore della rivista online del Centro, “Scienza e Pace / Science and Peace“.

 

[intervista realizzata da Federico Oliveri, Annalisa Runci e Benjamin Gelormini il 7 dicembre 2021, chiusa in redazione il 23 dicembre 2021].