COP26 di Glasgow: un bilancio del vertice, oltre le dichiarazioni
di Gaia Barbieri
Si è chiusa a Glasgow lo scorso 12 novembre la 26° Conferenza delle Parti (COP26), ovvero i 197 Stati che hanno aderito alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici: un evento globale molto atteso, per spingere i governi a fissare obiettivi chiari e soprattutto ad assumere impegni vincolanti nel contrasto della crisi climatica in corso e nell’avvio di una vera e coerente transizione ecologica.
L’evento ha alimentato forti aspettative anche perché la precedente edizione, tenutasi a Madrid nel 2019, aveva lasciato molte questioni in sospeso, tra cui la nuova regolazione del mercato delle quote di anidride carbonica e gli aiuti economico-finanziari per i paesi a basso reddito, tra i più colpiti dagli effetti devastanti dei cambiamenti climatici. L’edizione di quest’anno, inoltre, era la prima a svolgersi dopo lo scoppio della pandemia da Covid-19 ed era, dunque, anche l’occasione per riflettere sulle cause e sugli effetti della diffusione del virus in connessione coi problemi del clima.
Che bilancio è possibile fare della COP26? Gli impegni presi dagli Stati e le strategie messe in campo dai governi sono all’altezza della gravità della situazione? Per rispondere occorre confrontare il testo dell’accordo finale e di altri accordi siglati nel corso dei lavori con i principali obiettivi che la conferenza si era data e con le richieste avanzate dai movimenti globali contro il cambiamento climatico: si tratta di andare oltre le dichiarazioni di principio rispetto agli obiettivi da raggiungere, verificando da un lato la presenza o meno di impegni vincolanti e, dall’altro, di road maps credibili per realizzare nei tempi stabiliti i target prefissati.
I lavori della COP26 hanno trattato sostanzialmente tre obiettivi: azzerare le emissioni nette a livello globale entro il 2050, così da puntare realisticamente a limitare l’aumento delle temperature medie a 1,5 °C nei prossimi trent’anni; elaborare adeguati piani di adattamento per garantire la sicurezza delle comunità messe a rischio dal cambiamento climatico e misure idonee per salvaguardare gli habitat naturali, ad esempio dalla deforestazione; stanziare adeguati aiuti finanziari per sostenere la transizione ecologica dei paesi a basso reddito, in un’ottica di giustizia climatica.
Il quadro della crisi climatica è decisamente allarmante e non lascia spazio a negazionismi. Secondo il sesto rapporto IPCC sui cambiamenti climatici, redatto dal Programma delle Nazioni Unite sull’ambiente e dell’organizzazione meteorologica mondiale, il limite degli 1.5° stabilito nell’Accordo di Parigi potrebbe essere raggiunto già nel 2040. Secondo lo stesso documento, nel 2100 si rischierà di raggiungere un aumento medio della temperatura compreso tra i 2,5° e i 5°.
Per quanto riguarda l’Italia, secondo i dati dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), il 2020 è stato il quinto anno più caldo dal 1961, registrando un’anomalia media di +1,54 gradi centigradi, e il decennio 2011-2020 è stato il più caldo dal 1961. Nel XVI Rapporto dell’Istituto, “Gli indicatori del clima in Italia”, si precisa che dal 1985 le temperature medie annuali sono state quasi sempre superiori alla norma ad eccezione del 1991 e del 1996. Il 2020, inoltre, è stato il 24° anno consecutivo con anomalia positiva rispetto al valore normale.
Ridurre le emissioni per mantenere l’aumento della temperatura sotto 1,5°
Il Documento finale della COP26 riafferma l’obiettivo di lungo termine di mantenere l’aumento della temperatura media ben sotto i 2° dai livelli pre-industriali e di proseguire negli sforzi per limitare l’aumento a 1.5°.
Questo obiettivo può contare sull’inaspettato accordo tra Cina e Stati Uniti, che hanno dichiarato di voler collaborare alla progressiva decarbonizzazione delle proprie economie: un segnale positivo, viste le tensioni che caratterizzano le relazioni tra le due superpotenze, responsabili di circa il 40% delle attuali emissioni di gas a effetto serra immessi in atmosfera a livello globale.
L’annuncio dell’accordo è stato ben accolto dalle Nazioni Unite e dall’Unione Europea: il segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, ha dichiarato che questo è “un importante passo nella giusta direzione”, anche se restano perplessità sulla carenza di dettagli operativi. Genevieve Maricle, direttrice del Climate Policy Action per il WWF, ha affermato che le due più grandi economie globali hanno “il potere di sbloccare un importantissimo flusso finanziario dal pubblico al settore privato, capace di favorire una accelerazione della transizione a un’economia a basse emissioni di carbonio”.
Tuttavia, gli obiettivi assunti nel Documento finale restano non vincolanti per le parti. Sono state approvate regole univoche e uguali per tutti i paesi nel conteggio delle emissioni. Ma, senza una strategia efficace per garantire la riduzione delle emissioni nei tempi prefissati, i target prefissati rischiano di restare sulla carta. Per altro, due dei principali produttori attuali di gas serra, la Cina e l’India, avevano già annunciato che raggiungeranno zero emissioni soltanto nel 2060 e nel 2070 rispettivamente. L’India, in particolare, ha spinto per modificare il testo dell’accordo finale: nell’articolo 36, in riferimento all’uso del carbone, non si parla più di “phase out” (eliminazione) ma di “phase down” (riduzione progressiva). Tale modifica risente evidentemente del peso del carbone nell’economia indiana: dalla sua lavorazione proviene il 70% dell’energia nazionale; 4 milioni di indiani lavorano nel settore; il governo ha annunciato di voler aprire decine di nuove miniere. Resta, comunque, un impegno generale a tagliare le emissioni di CO2 del 45% entro il 2030.
105 Stati si sono impegnati a tagliare, entro il 2030, le emissioni sul gas metano del 30%. Tuttavia diversi paesi dell’Unione Europea, come la Polonia, l’Ungheria, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, l’Austria, la Lettonia, la Lituania e la Romania, non hanno aderito all’accordo, ma anche Russia, Cina e India. Secondo la Commissione Europea, invece, riducendo il livello dell’inquinamento da ozono troposferico causato in gran parte dal gas metano, si potrebbero evitare oltre 200.000 morti premature, centinaia di migliaia di accessi al pronto soccorso per problemi di asma e oltre 20 milioni di tonnellate di perdite di colture l’anno.
Solo 12 Stati, infine, hanno finora aderito al BOGA (Beyond Oil and Gas Alliance), un accordo globale che punta alla graduale eliminazione della produzione di petrolio e gas attraverso obiettivi tangibili e misurabili. L’accordo prevede anche di interrompere i finanziamenti di quei paesi che continuano a non avere strategie adeguate per la riduzione delle emissioni ma, al contrario, proseguono a investire nei combustibili fossili. Promosso da Costa Rica e Danimarca, il BOGA prevede tre livelli possibili di adesione: core members, associates e friends. Svezia, Francia, Quebec, Groenlandia, Irlanda e Galles sono “core members”; California, Nuova Zelanda e Portogallo hanno deciso di entrare come “associates”; l’Italia ha deciso di aderire “as a friend”, ovvero come osservatore esterno, senza impegnarsi a prendere alcuna decisione.
Secondo Oil Change International, se implementato in modo efficace, il BOGA potrebbe sottrarre più di 17 miliardi di dollari all’anno all’industria fossile. Tuttavia, nel caso di nuovi investimenti esteri connessi agli idrocarburi, l’accordo riguarda soltanto i ‘combustibili fossili non abbattuti’, cioè quelli le cui emissioni non possono essere abbattute attraverso tecnologie come la cattura e lo stoccaggio di anidride carbonica. Ciò si traduce di fatto, nel caso dell’Italia, nella prosecuzione di finanziamenti pubblici all’ENI per progetti di estrazione all’estero se accompagnati da impianti di cattura e stoccaggio di emissioni. Oltretutto, si tratta di tecnologie controverse, che non risolvono il problema ma lo spostano in avanti nel tempo, oppure lo trasferiscono dall’atmosfera al sottosuolo.
Mettere in sicurezza habitat naturali e comunità a rischio
Il riscaldamento globale non può essere contenuto sotto gli 1.5° senza conservare integre le foreste del pianeta, visto il loro ruolo fondamentale di “assorbitori” di anidride carbonica: grazie alla fotosintesi, infatti, le piante aspirano dall’aria almeno un quarto del nostro inquinamento climatico.
Le foreste oggi sono, però, doppiamente minacciate. Da un lato, la stessa crisi climatica sottopone gli alberi a stress letali – siccità, ondate di calore, tempeste sempre più forti e incendi sempre più vasti – che fanno diminuire o fermano la fotosintesi: alcune foreste, come quelle del bacino amazzonico, si stanno già trasformando da agenti assorbenti in fonti di anidride carbonica, contribuendo così ulteriormente al riscaldamento globale.
Dall’altro lato, la deforestazione massiccia minaccia la sopravvivenza stessa delle foreste, determinando una trasformazione permanente dell’uso del suolo. Secondo gli studi sul tema, in origine il nostro pianeta contava oltre 6 miliardi di ettari di foreste, corrispondenti al 45% delle terre emerse. Un miliardo di ettari è scomparso tra la rivoluzione neolitica e quella industriale; altri 500 milioni di ettari sono andati distrutti tra il 1750 e il 1990. Secondo la FAO, negli ultimi trent’anni, l’umanità ha eliminato altri 420 milioni di ettari di foreste, lasciando solo due terzi della copertura forestale naturale del pianeta: una perdita solo in parte compensata dalla crescita, naturale o programmata, di nuovi boschi.
131 Stati, che ospitano oltre il 90% delle foreste terrestri, hanno stipulato nel corso della COP26 la ‘Declaration on Forests and Land Use’, allo scopo di fermare la deforestazione entro il 2030. 28 paesi si sono impegnati a rimuovere la deforestazione dal commercio globale di cibo e di altri prodotti agricoli, come l’olio di palma, la soia e il cacao. Si tratta, in effetti, delle produzioni che contribuiscono di più all’abbattimento degli alberi. Decine di aziende multinazionali si sono impegnate a “ripulire” le proprie filiere commerciali da prodotti a rischio di causare deforestazione. Trenta grosse istituzioni finanziarie, che gestiscono asset per 9.000 miliardi di dollari, hanno inoltre annunciato che entro il 2025 rinunceranno completamente a sostenere business che in qualche modo possano essere dannosi per le foreste.
Per realizzare gli obiettivi fissati nella dichiarazione contro la deforestazione, 11 paesi dei paesi più sviluppati e tutta l’Unione Europea hanno messo a disposizione 12 miliardi di dollari. Inoltre, il Presidente degli Stati Uniti ha annunciato che proporrà al Congresso di contribuire con altri 9 miliardi di dollari, cui si dovrebbero aggiungere altri 7,2 miliardi provenienti dal settore privato. Sarà, inoltre, istituito un fondo speciale da 1,5 miliardi di dollari per proteggere la seconda foresta pluviale tropicale più grande del mondo, situata nel bacino del Congo. 14 donatori governativi e privati hanno impegnato, inoltre, 1,7 miliardi di dollari per sostenere le popolazioni indigene e le comunità locali nel loro ruolo di custodi delle foreste e della natura.
Diversi osservatori, tuttavia, hanno criticato la scadenza fissata al 2030 per fermare la deforestazione, ritenendola troppo poco ambiziosa, e la mancanza di impegni vincolanti: l’accordo infatti non prevede sanzioni per chi non lo rispetta. In passato, altri accordi internazionali avevano proposto obiettivi simili sulla deforestazione ma, senza mezzi coercitivi, non erano stati in grado di bloccare davvero il fenomeno, che anzi si è esteso in molti paesi. Inoltre, secondo l’Istituto per la ricerca ambientale in Amazzonia, l’accordo dovrebbe riguardare tutti i fenomeni di deforestazione e non solamente quelli “illegali”. Reale è la preoccupazione che i paesi firmatari dell’accordo intendano riservarsi il diritto di fissare una certa quota di scomparsa delle foreste per ragioni economiche e di sviluppo territoriale: un’interpretazione suggerita da alcuni come unica spiegazione plausibile per l’adesione del governo di Bolsonaro a un accordo di questa natura. Già ad aprile, a causa della pressione internazionale, il Presidente del Brasile aveva promesso che il paese avrebbe eliminato la deforestazione illegale entro il 2030, ma poco dopo il suo governo aveva tagliato di un quarto i fondi alle agenzie per la protezione ambientale.
Finanziare la transizione ecologica
La transizione ecologica e l’adattamento climatico hanno costi notevoli. Per sostenere il cambiamento, gli Stati ad alto reddito sono stati chiamati, in nome della giustizia climatica, ad aiutare i paesi a medio e basso reddito nei loro sforzi per la decarbonizzazione delle loro economie e per la gestione degli effetti del riscaldamento globale.
Nel testo finale della COP15 di Copenhagen (2009) era stato raggiunto, per la prima volta, un accordo in base al quale i paesi più sviluppati avrebbero dovuto mobilitare, entro il 2020, 100 miliardi di dollari l’anno per sostenere i paesi in via di sviluppo impegnati nella transizione. Nel testo si affermava che questi fondi sarebbero dovuti arrivare “da un’ampia varietà di fonti, pubbliche e private, bilaterali e multilaterali, includendo anche fonti finanziarie alternative”. Inoltre, si prevedeva l’istituzione di “un fondo multilaterale per l’adattamento climatico” offerto con “modalità di finanziamento efficienti ed efficaci” e con una struttura di governance tale da garantire un’equa rappresentatività sia ai paesi sviluppati che a quelli in via di sviluppo. Lo stesso impegno era stato ribadito anche nelle COP successive ed era rientrato tra i principali impegni dell’Accordo di Parigi, restando tuttavia sulla carta. Inoltre Oxfam aveva da sempre messo in guardia sul fatto che l’80% dei fondi destinati ai paesi in via di sviluppo sarebbero arrivati sotto forma di prestiti bancari e non di sovvenzioni, aumentando l’indebitamento di tali paesi.
Non a caso, i finanziamenti per la transizione sono stati centrali nelle discussioni della COP26. Già prima della conclusione dei lavori, però, l’impegno dei paesi più sviluppati a finanziare il fondo da 100 miliardi di dollari promesso era sparito dall’accordo. Inoltre, non sarebbero contemplati fondi specifici per i paesi in via di sviluppo finalizzati a gestire i disastri naturali causati dai cambiamenti del clima. Sebbene nel testo si riconosca che il riscaldamento globale è all’origine di vari eventi avversi come cicloni e inondazioni, sono previsti stanziamenti solo per intervenire in seguito a “danni e perdite” causati dai disastri, e non per prevenirli, rafforzando la capacità di risposta e adattamento come richiesto dai paesi più vulnerabili.
Tasneem Essop, direttore del Climate Action Network, una coalizione internazionale di oltre 1500 ONG attive in 130 paesi, ha commentato criticamente questo esito: “È estremamente deludente che l’ultima versione del documento non sia riuscita a includere le richieste del G77 per finanziare uno strumento specifico per ‘perdite e danni’ da parte delle nazioni più ricche del mondo”. Laura Greco, presidente di A Sud, ha dichiarato: “È incredibile che anche a Glasgow, come in tutte le occasioni precedenti, una volta arrivati al punto, i paesi industrializzati si siano tirati indietro, non riconoscendo le proprie responsabilità storiche e ignorando che il trasferimento di fondi e tecnologie è essenziale per correggere il carico di ingiustizia e di violazione dei diritti umani che l’emergenza climatica scarica sui paesi più vulnerabili”.
A parziale compensazione del mancato obiettivo dei 100 miliardi di finanziamenti destinati ai paesi a basso reddito, la Banca Mondiale ha annunciato che stanzierà 25 miliardi l’anno per la transizione ecologica.
È stato assunto dall’Unione Europea, dal Regno Unito e dagli Stati Uniti un impegno finanziario per accompagnare il Sudafrica verso il progressivo abbandono del carbon fossile come fonte di energia a favore di energia pulita. Obiettivo della partnership, secondo la Commissione Europea, è quello di “accelerare la decarbonizzazione dell’economia sudafricana, in particolare per quanto riguarda il sistema elettrico”. Il programma prevede 8,5 miliardi di dollari come prima tranche “attraverso meccanismi di finanziamento, prestiti agevolati, investimenti e strumenti a rischio condiviso, con la partecipazione anche del settore privato”.
Infine, 45 governi si sono impegnati a destinare 4 miliardi di dollari all’agricoltura sostenibile. Le industrie agroalimentari, infatti, sono responsabili fino al 35% delle emissioni globali di CO2. Secondo il Climate Change Committee, in particolare, bisognerebbe tagliare del 35% il consumo di carne entro il 2050, sostituendo parte dell’alimentazione con prodotti di origine vegetale. Tale prospettiva incontra numerosi ostacoli: basti pensare che il ministro britannico Alok Sharma, Presidente della COP26, ha definito la scelta di mangiare meno carne una mera “questione personale”.
Le reazioni dei movimenti contro il cambiamento climatico
Durante tutto il vertice, i movimenti globali impegnati contro il cambiamento climatico hanno organizzato manifestazioni quasi quotidiane e numerose iniziative di discussione pubblica, per spingere i governi a scelte coraggiose quanto necessarie.
“Little Amal”, la bambola di 3,5 metri che ritrae una bambina siriana, simbolo dei giovani rifugiati di tutto il mondo, è arrivata a Glasgow nei giorni della COP26 dopo aver percorso circa 8.000 chilometri attraverso l’Europa. Alla sua presenza si è svolto un partecipato evento sull’uguaglianza di genere nella lotta al mutamento del clima. A causa dell’aumento della temperatura media, alla fine del 2021, ci saranno 435 milioni di ragazze e donne sotto la soglia di povertà in tutto il mondo, secondo i dati pubblicati da WeWorld.
Dal 7 al 10 novembre si è svolto, invece, il People’s Summit: il controvertice cui hanno aderito associazioni, movimenti e organizzazioni della società civile che si battono per il cambiamento climatico. Nel corso della tre giorni sono stati organizzati 50 eventi in diversi punti della città: gli spazi cittadini sono stati messi a disposizione di comunità, movimenti e rappresentanti del popolo indigeno che, in occasione della COP26, hanno deciso di incontrarsi per raccontare gli impatti dei cambiamenti climatici e le soluzioni insufficienti e inadeguate proposte dai leader mondiali.
La Marcia per il clima organizzata nell’ultimo giorno della conferenza ha raccolto almeno 200.000 persone. La scelta recente del Fridays for Future è quella di dare voce, nelle dichiarazioni e nelle mobilitazioni, ai paesi a basso reddito più colpiti dalla crisi climatica, e di puntare a un cambio radicale del sistema produttivo, col risultato di dare una prospettiva sempre più globale ma anche anti-capitalista al movimento.
Da questo punto di vista, non sorprende che le parole più usate per descrivere l’esito della COP26 siano state “fallimento” e “occasione mancata”. Le critiche si appuntano in particolare sul carattere ancora una volta non vincolante degli obiettivi assunti e sul mancato finanziamento annuale promesso dai paesi più industrializzati per quelli a basso reddito: su quest’ultimo punto sarà chiamata a decidere la prossima COP, che si svolgerà nel 2022 in Egitto (scelta criticata da Human Rights Watch per la natura repressiva del governo egiziano).
Greta Thunberg, intervenuta alla Marcia per il clima, ha usato parole dure contro la conferenza: “non è un segreto che la COP26 sia un fallimento. Dovrebbe essere ovvio che non possiamo risolvere una crisi con gli stessi metodi con cui ci siamo entrati”. E ha aggiungendo: “I potenti possono continuare a vivere nella loro bolla piena delle loro fantasie, come quella di una crescita infinita su un pianeta finito o quella di soluzioni tecnologiche che risolveranno improvvisamente la crisi”.
Greta Thunberg ha accusato i governi riuniti a Glasgow di escludere le voci dal basso e di ascoltare troppo le lobby delle energie fossili, allo scopo di mantenere di fatto la situazione attuale mascherandosi dietro propositi “green”. Secondo l’attivista, la crisi climatica esprime uno squilibrio di potere storico ma persistente tra i paesi del mondo: chi ha di più ha il diritto di sfruttare gli altri e scaricare su di loro i costi della transizione. “Ci sono state 26 Cop, decenni di bla bla bla, ma intanto continuano a costruire nuove infrastrutture per le fonti fossili, ad aprire nuove miniere di carbone e a non pagare i danni ai paesi più colpiti. Questo è vergognoso”.
Le ha fatto eco Laura Greco, presidente di A Sud, che ha commentato: “è incredibile che anche a Glasgow, come in tutte le occasioni precedenti, una volta arrivati al punto, i paesi industrializzati si siano tirati indietro, non riconoscendo le proprie responsabilità storiche”.
I movimenti contro il cambiamento climatico non si danno affatto per vinti, al contrario: hanno intenzione di aprire nuovi fronti di rivendicazione e di azione, come quello delle cause legali per inazione climatica da intentare contro i governi. “L’Italia ha ancora target ridicoli di riduzione delle emissioni”, ha dichiarato Marica Di Pierri, Direttrice di Economia Circolare. “Preferiamo voltarci dall’altra parte anche di fronte ai disastri climatici che, sempre più spesso, riguardano il nostro territorio. Non possiamo sperare in una risposta dall’alto. Dobbiamo agire ora e fare causa agli Stati, alle imprese, ai rappresentanti delle aziende fossili, costringendoli per via giudiziaria a rispondere in tribunale delle loro responsabilità”.
Gaia Barbieri studia Scienze per la pace, cooperazione internazionale e trasformazione dei conflitti presso l’Università di Pisa. Attualmente svolge il tirocinio al Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace”.