martedì, Luglio 29, 2025
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L’addio alle armi del PKK: origini e prospettive della questione curda

 

di Filippo Fedeli 

Lo scorso 9 luglio, in un video diffuso dall’agenzia turca Firat News, lo storico leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), Abdullah Öcalan, ha parlato dal carcere di İmralı dove è prigioniero dal 1999.

Nel videomessaggio “Apo” – come viene spesso soprannominato affettuosamente Öcalan – ha dichiarato che l’obiettivo fondamentale del PKK, ossia il riconoscimento dalla realtà curda, era stato raggiunto. Pertanto, ha sostenuto fosse giunto il momento di porre fine alla lotta armata e di avviare un processo di riconciliazione con le autorità turche, dopo decenni di conflitto.

Due giorni dopo, alcune decine di combattenti del PKK hanno allestito una cerimonia simbolica nei pressi della città di Sulaymaniyya, nel Kurdistan iracheno, durante la quale hanno dato fuoco alle loro armi “come segno di buona volontà e determinazione” nel dare seguito all’appello di Öcalan.

Questo sviluppo si inserisce nel contesto della cosiddetta Terror-free Türkiye initiative, che ha segnato l’inizio di un nuovo processo di dialogo tra l’esecutivo turco e la dirigenza del PKK. L’iniziativa ha preso le mosse dall’inaspettata apertura di Devlet Bahçeli, leader del Partito del Movimento Nazionalista (MHP) – al governo dal 2018 in coalizione con il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) – storicamente fautore della ‘linea dura’ verso la popolazione curda.

Già lo scorso ottobre Bahçeli aveva invitato Öcalan a deporre le armi, offrendo in cambio la sua scarcerazione e l’inclusione dei curdi nel processo politico nazionale. Nel febbraio 2025, alcuni membri del partito filo-curdo DEM (Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia dei Popoli) hanno letto pubblicamente l’Appello per la Pace e una Società Democratica: la risposta ufficiale di Öcalan in cui il leader curdo esortava a deporre le armi e, soprattutto, invocava lo scioglimento del PKK. A maggio, il dodicesimo Congresso del partito ha formalizzato la dissoluzione delle proprie strutture organizzative. 

 

La questione curda e la nascita del PKK 

Quello curdo è uno dei popoli più antichi dell’Asia Sud-occidentale, ne rappresenta il quarto gruppo etnico in termini di grandezza ed è generalmente considerato il più numeroso al mondo a non disporre di un proprio Stato indipendente. In prevalenza di fede islamica sunnita, conta oggi circa 35-40 milioni di persone distribuite tra Siria, Iran, Iraq e Turchia, che ospita la comunità più numerosa composta circa da 20 milioni di individui.

La “questione curda” ha origine con la fine dell’Impero ottomano, all’indomani della Prima guerra mondiale. Le disposizioni del Trattato di Sèvres (1920) prevedevano la creazione di un’entità curda autonoma, potenzialmente destinata all’indipendenza, ma vennero disattese con la nascita della Repubblica di Turchia, riconosciuta nei suoi nuovi confini dal Trattato di Losanna (1923), e l’avvio del processo di assimilazione portato avanti dal primo Presidente turco, Mustafa Kemal “Atatürk”.

Intenzionato a forgiare una nuova identità nazionale, fondata esclusivamente sull’etnia turca, Atatürk ha avviato un’epoca di forte repressione e marginalizzazione nei confronti dei curdi, definiti come “turchi di montagna” e privati di ogni espressione culturale, a partire dall’uso della propria lingua nei luoghi pubblici.

Nel tentativo di evitare insurrezioni, la nuova Repubblica di Turchia ha promosso negli anni la cooptazione dei grandi proprietari terrieri curdi all’interno della burocrazia statale, senza tuttavia affrontare i problemi strutturali delle province sudorientali a maggioranza curda, avviate così a restare isolate, depresse e arretrate rispetto al resto del paese.

La questione curda è tornata con prepotenza alla ribalta verso la fine degli anni ’70, con la fondazione nel 1978 del PKK da parte di Öcalan. Il PKK, movimento di ispirazione marxista-leninista fondato su base etnica, è stata la prima organizzazione politica curda a catalizzare l’attenzione delle fasce giovanili e ad adottare una prospettiva pan-curda, coinvolgendo anche le comunità al fuori dei confini turchi con l’obiettivo di fondare uno Stato indipendente.

Il 21 marzo 1984, durante i festeggiamenti del Newroz (il capodanno curdo), il PKK ha dichiarato l’inizio della lotta armata contro lo Stato turco, dando inizio a un conflitto che ha causato finora oltre 40.000 vittime tra militari e civili. La risposta dell’esercito turco è stata brutale e, nonostante alcuni tentativi di apertura da parte dell’allora presidente Turgut Özal, i soldati impiegati nel sud-est anatolico hanno presto superato le 200.000 unità. Nel corso degli anni sono stati denunciati abusi di potere e gravi violazioni dei diritti umani, con decine di villaggi curdi rasi al suolo e centinaia di persone arrestate e torturate per il solo sospetto di aver collaborato con il PKK.

La situazione è rimasta molto instabile per tutti gli anni ’90, anche a causa della violenta repressione di Saddam Hussein ai danni dei curdi iracheni, ritenuti colpevoli di aver supportato gli Stati Uniti durante la Prima Guerra del Golfo. Da una parte, la repressione ha provocato un consistente flusso di profughi curdi verso la Turchia ma, dall’altra parte, ha condotto alla nascita di un governo regionale curdo (Kurdish Regional Government, KRG), incaricato di amministrare le aree curde irachene in maniera autonoma all’interno di una struttura federale guidata da Baghdad.

Prendeva così corpo uno degli incubi peggiori di Ankara: un’entità curda autonoma a ridosso dei confini turchi, in cui il PKK avrebbe potuto insediarsi con propri avamposti e progettare attacchi verso il suolo anatolico. Tale circostanza si aggiungeva alla già cospicua presenza del movimento in Siria dove, sin dai primi anni ‘80, hanno trovato rifugio molti dirigenti del partito, incluso lo stesso Öcalan.

 

La politica dell’AKP verso i curdi

Nel 2002 la vittoria elettorale del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), seguita dalla nomina di Recep Tayyip Erdoğan a Primo ministro, ha ridisegnato il contesto della questione curda.

L’ottenimento da parte della Turchia dello status di paese candidato all’UE nel 1999 aveva dato avvio a una fase di riforme ‘liberali’ nel paese. In questo quadro, Erdoğan ha abbandato progressivamente la linea dura nei confronti dei curdi, aprendo la strada a una politica di distensione. Nel corso di quegli anni sono state adottate misure senza precedenti, come la rimozione del divieto di parlare curdo in pubblico, e la creazione di dipartimenti universitari e di un’emittente radiotelevisiva in lingua curda.

In vari suoi discorsi di quegli anni, all’interno di una retorica marcatamente islamista, Erdoğan ha definito i curdi come “fratelli”, affermando di amarli in quanto “creature di Dio”. Inoltre, come ulteriore “segnale di apertura”, la condanna a morte di Öcalan – arrestato nel 1999 nell’ambasciata greca a Nairobi dopo che il governo italiano gli aveva negato asilo politico – è stata commutata in ergastolo. Ciò può spiegare, almeno in parte, perché ancora oggi il Presidente turco riesca a intercettare i voti di parte dell’elettorato curdo, soprattutto quello più conservatore.

In linea con questo nuovo approccio, nel 2009 sono stati avviati dei colloqui esplorativi tra la dirigenza dell’AKP e quella del PKK che, nel 2013, hanno portato a una dichiarazione di cessate il fuoco unilaterale da parte di Öcalan e all’avvio del cosiddetto “processo di soluzione” (çözüm sureci). L’accordo prevedeva il ritiro delle milizie del PKK dal territorio turco verso l’Iraq settentrionale, in cambio del riconoscimento costituzionale dell’identità curda, incluso il diritto all’uso della lingua.

Il processo di soluzione, però, non è mai partito conducendo nel 2015 alla ripresa delle ostilità. Molteplici le ragioni di questo fallimento: da una parte, la ripresa delle speranze nazionali curde, grazie ai successi dei curdi siriani contro lo Stato Islamico; dall’altra parte, i successi elettorali del filo-curdo HDP (Partito Democratico dei Popoli) a discapito dell’AKP e la necessità di Erdoğan di avere l’appoggio del partito nazionalista MHP a sostegno della riforma costituzionale dello Stato in senso presidenzialista.

La ripresa delle violenze ha suscitato una nuova ondata repressiva: a pagarne il prezzo politico è stato principalmente l’HDP che, accusato di collusione col “terrorismo” del PKK, ha visto l’arresto di numerosi suoi esponenti, tra cui alcuni sindaci, e il suo candidato alla presidenza Selahattin Demirtaş tutt’oggi in prigione.

La guerra civile siriana, seguita alla repressione e all’estremizzazione dei movimenti antigovernativi, ha conferito alla questione curda una rinnovata dimensione internazionale. Il vuoto di potere nel Nord della Siria è stato prontamente colmato dal Partito dell’Unione Democratica (PYD), ramo siriano del PKK, e dal suo braccio armato: le Unità di Protezione Popolare (YPG).

Dopo aver preso il controllo dei cantoni di Jazira, Kobane e Afrin, PYD e YPG hanno proclamato la nascita dell’amministrazione autonoma della Siria del Nord-Est, nota anche come Siria del Nord-Est o Rojava. Laboratorio di sperimentazione del confederalismo democratico teorizzato da Öcalan, il Rojava ha costituito di fatto una seconda entità proto-statuale curda a ridosso dei confini turchi, costituitasi anche col supporto degli Stati Uniti che avevano individuato nelle YPG il loro principale alleato nella guerra contro l’ISIS.

In risposta a questi sviluppi, il governo turco ha mutato radicalmente strategia, adottando dal 2016 una politica sempre più militarista basata su una logica di “difesa preventiva”. Questo nuovo approccio ha prodotto una serie di pesanti operazioni militari, tanto in Siria quanto in Iraq, che hanno causato centinaia di vittime civili configurando gravi violazioni dei diritti umani e crimini di guerra

  

Addio alle armi e scioglimento del PKK: perché proprio adesso? 

Alla luce di questa lunga e articolata vicenda, viene da chiedersi perché l’addio alle armi annunciato da Öcalan sia giunto proprio adesso. Le spiegazioni possono essere molteplici.

Innanzitutto, pesa certamente sulla decisione la fase di debolezza dei partiti curdi. A partire dal 2019, l’intensificarsi delle operazioni turche ha gravemente compromesso le capacità operative sia del PKK che delle YPG, ormai incapaci di difendere la popolazione dagli attacchi turchi. Questa incapacità è stata aggravata dall’improvvisa conquista di Damasco da parte dei ribelli filoturchi guidati da Hay’at Tahrir al-Sham (HTS), l’ex gruppo affiliato ad al-Qaeda guidato dall’attuale Presidente ad interim siriano, Ahmad al-Shara’.

Si tratta di uno storico cambio di regime, che non solo ha posto fine al dominio della famiglia al-Asad, al potere dal 1970, ma che consolida ulteriormente la posizione di forza della Turchia in Siria, in un momento in cui le altre potenze coinvolte – Russia e Iran – sono impegnate in altri conflitti. Non è un caso che a gennaio 2025, pochi giorni dopo alla presa del potere da parte di HTS, l’esercito turco abbia condotto una nuova, durissima, operazione contro i curdi siriani e ciò che restava del PKK, costretto quasi interamente a ripiegare in Iraq, sulle montagne del Qandil’.

È in questo contesto che si colloca il primo messaggio di Öcalan, risalente al 28 febbraio 2025, letto da una delegazione del partito DEM, in cui veniva accolta l’apertura di Bahçeli e, per la prima volta, si invocava lo scioglimento del PKK. Questo sviluppo è stato, con molta probabilità, accelerato anche dalla rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca, che ha da subito escluso un nuovo coinvolgimento statunitense in Siria, lasciando intendere che al proprio disimpegno e all’abbandono di fatto dell’alleanza con le YPG possa corrispondere un maggiore ruolo della Turchia nell’area.

Pesa, inoltre, il contesto politico interno alla Turchia. Dietro la Terror-free Türkiye initiative sarebbe in gioco, secondo molti, il progetto di una modifica costituzionale che permetterebbe a Erdoğan, giunto al suo ultimo mandato secondo l’attuale Costituzione, di ricandidarsi alla presidenza nel 2028. Attualmente la coalizione di governo, composta da AKP e MHP, non dispone in Parlamento dei numeri sufficienti per approvare questa riforma. Da qui la necessità di avere il sostegno dei 57 deputati DEM, che potrebbero essere convinti a collaborare in cambio della scarcerazione di Öcalan e di una nuova stagione di apertura verso la minoranza curda.

Un compromesso che garantirebbe a Erdoğan di restare al potere, ma che costituirebbe una pesante ipoteca sull’effettiva soluzione della questione curda. 

 

Filippo Fedeli si è laureato in Studi internazionali all’Università di Pisa. Attualmente è volontario del Servizio Civile Universale presso il Centro Interdisciplinare Scienze per la Pace.