“The American”: la cittadinanza e i diritti come premi televisivi

di Sonia Paone
L’idea di trasformare il percorso verso la cittadinanza americana in un reality show non è solo bizzarra: è profondamente inquietante. The American, il programma attualmente in fase di proposta e progettazione, immaginato dal produttore Rob Worsoff (già noto per format come Duck Dynasty), prevede che un gruppo di immigrati competano in sfide culturali e fisiche attraverso gli Stati Uniti per “meritarsi” la cittadinanza americana.
Il progetto è stato presentato al Dipartimento della Sicurezza Interna (DHS), che ha confermato di aver ricevuto una proposta, pur specificando che non c’è stato alcun sostegno formale da parte dell’agenzia o della Segretaria degli Interni, Kristi Noem.
Secondo quanto riportato dal New York Times e da The Guardian, il programma dovrebbe mettere in scena dodici immigrati pre-selezionati che viaggiano da uno Stato all’altro, affrontando varie “prove” come raccogliere pepite d’oro a San Francisco, assemblare una Ford Model T a Detroit o preparare piatti tipici americani. I partecipanti eliminati riceverebbero “premi di consolazione” come miglia aeree, carte regalo o persino offerte di lavoro, mentre il vincitore finale conquisterebbe la cittadinanza statunitense, celebrata in una cerimonia ufficiale a Washington D.C.
A prima vista, il format può sembrare l’ennesimo tentativo grottesco di mescolare intrattenimento e patriottismo. Ma a un’analisi più attenta, si tratta di un’operazione che gamifica un processo cruciale e spesso doloroso come la migrazione, trasformandolo in un gioco competitivo da offrire in pasto al pubblico televisivo. È un esempio estremo della logica neoliberale, in cui i diritti si trasformano in privilegi da guadagnarsi in competizione con altri/e e ogni aspetto della vita sociale viene riconfigurato secondo criteri di efficienza, spettacolo e valore economico.
In questo contesto, l’immigrato/a non è più un soggetto di diritto, ma una figura da giudicare in base alla propria “americanità performativa”. La retorica meritocratica che sostiene il format – secondo cui la cittadinanza si guadagna dimostrando di esserne “degni” attraverso prove e sacrifici – ignora le disuguaglianze strutturali, i traumi, le persecuzioni e le complessità che spingono le persone a migrare.
Come è stato scritto, viviamo in una epoca in cui alcune vite sono considerate degne di lutto e altre no, in base a norme culturali, politiche e mediatiche che regolano chi viene percepito come pienamente umano. Questo avviene soprattutto nei contesti di guerra, terrorismo, e politiche migratorie. La comune “umanità” non è data per scontata, ma è prodotta attraverso il riconoscimento pubblico: se una vita non è rappresentata come vita degna di essere vissuta o pianta, essa viene marginalizzata, invisibilizzata o anche eliminata. In The American il meccanismo diventa ancora più brutale: l’umanità degli immigrati è condizionata alla loro capacità di intrattenere e conformarsi a una narrativa nazionale.
Molti commentatori hanno paragonato lo show a una distopia alla Hunger Games, dove non è la sopravvivenza in gioco, ma l’appartenenza a una nazione. Qui il premio non è denaro o fama, ma un diritto fondamentale: la cittadinanza. La cittadinanza nei regimi neoliberali tende a essere sempre più “flessibile” e condizionata a comportamenti economici o morali specifici. Un format come The American, se realizzato estremizza questa logica: non solo si deve “meritare” l’appartenenza, ma lo si deve fare davanti a un pubblico, come in una gara a premi.
Invece di riconoscere gli immigrati come portatori di valore culturale e di diritti fondamentali, il programma li relega a una posizione subordinata, dove la legittimità dell’inclusione dipende dalla loro capacità di “recitare” l’ideale americano: un processo che riproduce dinamiche postcoloniali di imitazione forzata e assimilazione spettacolarizzata.
In questo scenario, i media non sono più semplici osservatori ma attori centrali nella costruzione delle narrative nazionali e nell’amministrazione simbolica dell’inclusione. La televisione assume il ruolo di giudice morale e culturale, stabilendo chi può accedere all’“americanità” e in quali condizioni. Questo ruolo si inserisce in una più ampia trasformazione del potere, che si esercita sempre più attraverso dispositivi di visibilità e selezione, piuttosto che di normazione giuridica pura.
Nonostante le rassicurazioni dei produttori – che affermano che nessun concorrente verrebbe deportato – il danno simbolico è evidente. La sola idea che gli Stati Uniti prendano parte, anche solo passivamente, a un progetto simile è un segnale preoccupante: testimonia come l’umanità degli stranieri possa essere sospesa, sacrificata sull’altare dell’intrattenimento e del nazionalismo mediatico.
In conclusione, The American non è solo un’idea sbagliata: è il sintomo di una società che, anziché affrontare le sfide della migrazione con strumenti politici e giuridici adeguati, preferisce trasformarle in spettacolo. Una società in cui anche i diritti diventano contenuti da consumare. Un paradosso tragico, e profondamente disumanizzante, che riflette e alimenta una visione dell’identità nazionale in cui tutto – persino l’appartenenza – è soggetto a mercato, audience e competizione.
La trasformazione dell’immigrazione in un reality show competitivo rappresenta perciò una pericolosa spettacolarizzazione di un’esperienza che è, per milioni di persone, una questione di sopravvivenza, dignità e diritti fondamentali. In un’epoca in cui la migrazione è spesso segnata da traumi, respingimenti e violenze istituzionali, trasformare in un gioco a premi il desiderio di libertà e di accedere a una vita migliore non è solo cinico: è un fallimento etico e politico.
Sonia Paone è Professoressa Associata in Sociologia dell’Ambiente e del Territorio presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Pisa, membro del CISP e Presidente dei Corsi di Laurea in Scienze per la Pace: Cooperazione Internazionale e Trasformazione dei Conflitti.