venerdì, Aprile 26, 2024
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Libano: un paese, molteplici crisi. Intervista a Francesco Mazzucotelli

Uno degli ultimi atti del Presidente uscente del Libano, Michel Aoun, è stato la firma lo scorso 27 ottobre di un accordo con Israele sul confine marittimo tra i due paesi, con la conseguente possibilità di iniziare lo sfruttamento del gas naturale presente in quell’area del Mediterraneo orientale. In che cosa consiste questo accordo? E perché è così rilevante?

A due anni dall’avvio delle trattative, mediate dagli Stati Uniti, Libano e Israele hanno effettivamente raggiunto un accordo storico sulla demarcazione dei loro confini marittimi. L’intesa pone fine a una disputa che risale almeno al 2011, quando Israele aveva dichiarato alle Nazioni Unite le coordinate della propria Zona economica esclusiva (ZEE), sovrapponendola a quella rivendicata dal Libano. La controversia ha riguardato la sovranità su un’area di 860 km2 e, in particolare, sui giacimenti di gas chiamati Qana e Karish situati in corrispondenza o a ridosso dei confini contestati.

L’attività di trivellazione e sfruttamento di giacimenti sottomarini viene avviata dalle grandi aziende del settore solo se nelle aree interessate non esistono controversie giuridiche (né tantomeno militari): il rischio di vanificare gli investimenti sarebbe, viceversa, troppo elevato. La delimitazione delle frontiere marittime e di quelle che, nel diritto internazionale, vengono definite Zone economiche esclusive (che possono estendersi fino a 200 miglia dalle acque territoriali), costituisce dunque una condizione necessaria per lo sfruttamento del sottosuolo marino.

Negli ultimi dodici anni Libano e Israele non erano riusciti a trovare un accordo sui confini marittimi, rinunciando alle attività di esplorazione ed estrazione del gas naturale nell’area contesa. La situazione di stallo ha pesato soprattutto sul Libano, a causa del suo quadro socioeconomico assai critico: il paese, tra le altre cose, è estremamente dipendente dall’importazione di gas, petrolio e diesel per la produzione di energia elettrica. Le criticità del sistema energetico nazionale producono frequenti blackout, con conseguenze negative sulle attività commerciali e industriali, oltre che sulla vita quotidiana.

L’accordo sul confine marittimo è rilevante anche sotto l’aspetto politico, in quanto Israele e Libano sono tecnicamente ancora in guerra: dal 1949 a oggi, infatti, non è mai stato siglato tra i due paesi un vero trattato di pace, anche se dal 2006 in poi non ci sono più state operazioni militari. Non a caso, nella prima sezione dell’accordo viene ricordata la mancanza di un’intesa sulla frontiera terrestre tra Libano e Israele, attualmente segnata dalla Linea Blu posta dalle Nazioni Unite nel 2000. Come conseguenza di questa situazione particolare, l’accordo non è stato firmato congiuntamente dalle due parti, ma a distanza: un piccolo capolavoro di equilibrismo diplomatico, o di ipocrisia, per ovviare all’assenza di un accordo di pace complessivo.

Le contese di confine in mare non riguardano solo Israele e Libano, ma tutta l’area del Mediterraneo orientale. Nell’estate 2020 ci sono state tensioni tra la Turchia e la Grecia, che hanno riportato all’attenzione la situazione irrisolta di Cipro: la divisione dell’isola tra una parte sud, sede di un governo internazionalmente riconosciuto e parte dell’Unione Europea, e una parte nord sotto il controllo militare della Turchia, complica ulteriormente la delimitazione delle zone economiche esclusive. Inoltre la Turchia non è parte della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, nota come convenzione di Montego Bay (1982), che regolamenta anche i diritti e le responsabilità degli Stati nell’uso dei mari, degli oceani e delle risorse naturali sottomarine. Dietro le questioni strettamente giuridiche si manifestano conflitti politici, la cui profondità storica va ben oltre la questione strettamente energetica.

 

Tenendo conto dei tempi tecnici legati all’effettivo avvio dello sfruttamento dei giacimenti, questo accordo potrà migliorare la situazione energetica ed economica del Libano?

I costi per lo sfruttamento intensivo di questi giacimenti sono elevati e, come è successo ad esempio alla metà degli anni 90 con i giacimenti di gas del Mar Caspio, spesso le prime stime molto ottimistiche lasciano il posto a stime più prudenti via via che prosegue l’esplorazione. La questione, al di là del necessario superamento delle energie fossili per contrastare il cambiamento climatico, è strettamente economica: vale la pena estrarre questo gas? I costi di ricerca, trivellazione e trasporto (sia che si proceda alla liquefazione del gas e al suo trasporto via nave, sia che si realizzi un gasdotto verso i possibili acquirenti) potranno essere compensati dagli utili? Su questo le stime sono variabili. Evidentemente, la crisi energetica in corso e le difficoltà dell’Europa a sostituire il gas russo hanno fatto propendere per la ripresa delle esplorazioni. È ancora presto per valutare se e quanto le future attività di estrazione, una volta entrate a regime, potranno effettivamente incidere sulle difficoltà energetiche ed economiche del Libano.

 

La crisi in cui si trova attualmente il Libano è, innanzitutto, una crisi economico-finanziaria e sociale: il tasso di disoccupazione è al 40%, ma in alcune zone del paese come Tripoli arriva all’80%; tre libanesi su quattro vivono sotto la soglia di povertà; la Lira libanese ha perso in due anni più del 95% del proprio valore; l’inflazione nel 2021 si è avvicinata al 150%. Quali sono state le cause principali che hanno prodotto questa crisi senza precedenti?

Ricordiamo, innanzitutto, che il 9 marzo 2020 il governo libanese è stato costretto a dichiarare default: avrebbe dovuto rimborsare bond europei per 1,2 miliardi di dollari, ma il primo ministro Hassan Diab rese noto che le riserve di valuta estera erano scese a “un livello preoccupante e pericoloso”, tanto da spingere il governo a sospendere il pagamento.

Il debito pubblico del Libano è tuttora uno dei più onerosi al mondo, ammontando a circa il 170% del prodotto interno lordo (sceso a sua volta da circa 55 miliardi di dollari nel 2018 a 20,5 nel 2021). La crisi del debito sovrano non è stata improvvisa: è l’esito finale di una serie di fenomeni critici, i cui effetti si sono cumulati nel corso degli ultimi anni, ma le cui radici affondano negli anni ‘90 del secolo scorso. Ci sono in particolare due fattori, connessi tra loro, che spiegano le cause del default: da una parte, l’aumento del debito pubblico, cui il Libano ha fatto ricorso dal 1991 in poi per finanziare la ricostruzione post-bellica, soprattutto della capitale e delle principali infrastrutture del paese; dall’altra parte, le politiche monetarie e di cambio della Banca Centrale.

Col governo di Rafīq al-Harīrī, intorno alla metà degli anni ‘90, il paese ha fatto una scommessa azzardata: finanziare la ricostruzione del paese facendo di Beirut una delle principali piazze dei mercati finanziari del Medio Oriente. In un paese in cui l’agricoltura è circoscritta a poche aree e la manifattura non è mai stata centrale, si è deciso di puntare sul terziario avanzato, legato a banche e finanza, e sul turismo. La priorità di Ḥarīrī (e dell’élite economico-finanziaria arrivata con lui al potere) è stata quella di attirare capitali stranieri. A rendere attrattivo il paese sarebbero stati il segreto bancario e la bassa pressione fiscale, ma anche la stabilità della moneta: da qui la scelta di ancorare la Lira libanese al dollaro, fissando il cambio a un tasso di 1 a 1507. Queste politiche, secondo alcuni osservatori, hanno attratto anche capitali derivanti da attività illecite consentendo operazioni di riciclaggio. Certamente, hanno alimentato una bolla immobiliare di cui adesso si vedono i resti nei numerosi immobili vuoti o semivuoti, soprattutto a Beirut.

La Banca Centrale è riuscita inizialmente a sostenere il tasso di cambio fisso anche grazie alle rimesse della diaspora libanese. Contemporaneamente, però, ha stampato moneta in maniera disinvolta e ha permesso alle banche private di concedere prestiti anche a utenti che non avevano adeguate garanzie: era solo questione di tempo e il castello di carte sarebbe crollato. Mentre la crisi globale del 2008 è stata superata relativamente bene, i nodi sono venuti al pettine tra il 2014 e il 2016: il prezzo del petrolio è passato da 100 dollari a 24 dollari al barile, provocando una contrazione delle rimesse di quei libanesi attivi all’estero nel settore estrattivo, e si è avuta una progressiva riduzione degli investimenti da parte delle monarchie del Golfo Persico, per spingere il Libano a smarcarsi dall’Iran. Per fronteggiare questa riduzione dell’afflusso di valuta pregiata, la Banca Centrale libanese ha aumentato le emissioni di titoli in dollari ed ha autorizzato tassi di interesse molto più elevati di quelli di mercato per chi effettuava depositi in dollari. Queste misure hanno fallito, così che tra il 2018 e il 2019 la crisi è diventata ancora più evidente: i depositi bancari si sono ridotti, è esploso il deficit commerciale, ha iniziato a salire l’inflazione, le banche hanno iniziato a mettere limiti ai prelievi in dollari. In queste condizioni, la sostenibilità del debito pubblico è stata messa fortemente a rischio.

Uno dei primi effetti del default è stato il crollo della valuta locale: permane ancora il tasso ufficiale 1 a 1507, ma sul mercato nero il cambio è 1 a 30000. A pagarne le conseguenze sono i cittadini e le cittadine, il cui potere d’acquisto è drasticamente calato: se si riceve lo stipendio o la pensione in lire libanesi e il costo dei generi di prima necessità è indicizzato in dollari (anche perché la maggior parte delle merci, compresi i generi alimentari, è di importazione), è evidente che saltano tutti i bilanci familiari. In un paese in cui le diseguaglianze erano già accentuate, il caro vita ha avuto conseguente pesanti sul ceto medio ed ha contribuito a polarizzare ulteriormente la distribuzione della ricchezza.

 

Con quali misure i vari governi hanno cercato di contenere la crisi? Con quali risultati?

La convergenza di molteplici crisi, accompagnate dai movimenti popolari di protesta e dalla forte instabilità politica, non ha certamente facilitato il compito dei governi libanesi.

Sulla carta, il primo obiettivo è stato quello di riallineare il tasso di cambio praticato al mercato nero con quello ufficiale ancorato al dollaro, ma finora non si registrano su questo terreno risultati evidenti. Probabilmente, è proprio l’ancoraggio al dollaro che va superato. Invece, si è cercato di frenare la corsa ai prelievi in dollari: già dal marzo 2020 erano state applicate restrizioni molto severe ai ritiri, fissando delle quote massime mensili. La situazione da questo punto di vista resta molto critica: non è raro vedere persone che entrano nella filiale della loro banca e minacciano i dipendenti, prendendoli persino in ostaggio, per farsi consegnare i propri risparmi.

Ma l’obiettivo principale, in questa fase, è stato rendere sostenibile il pagamento del debito pubblico. A questo scopo il governo ha avviato trattative con il Fondo Monetario Internazionale (FMI) già dal settembre 2020, raggiungendo un primo accordo nella primavera del 2022. Gli aiuti finanziari del FMI sono condizionati all’adozione di riforme, tra cui la ristrutturazione del sistema bancario, l’adozione di controlli sui capitali e l’aumento delle entrate fiscali per finanziare il settore pubblico in grave difficoltà.

La questione è anche che in Libano non c’è più nulla da privatizzare, a parte una percentuale della società che controlla l’aeroporto di Beirut e della compagnia aerea nazionale, la Middle East Airlines. Le misure di austerity, già attuate dal FMI in altri contesti, sono improponibili in un paese dove l’85% della popolazione vive in condizioni vicine alla povertà, a meno di non voler scatenare ulteriore malcontento sociale.

 

Quali sono le principali caratteristiche del sistema politico libanese e come hanno contribuito a creare la crisi attuale?

Esiste un rapporto molto stretto tra la crisi economica in corso e la struttura del sistema politico libanese. Il modello di sviluppo avviato dopo la guerra civile, fondato sull’indebitamento pubblico e privato e sull’attrazione di capitali stranieri, ha garantito a lungo una fonte di rendita per le élite di governo, attraverso il controllo dell’apparato statale, lo sfruttamento di imprese e servizi pubblici, l’utilizzo disinvolto dei fondi statali. I gruppi che si sono tenuti fuori dal “sistema” – vari movimenti di sinistra e alcune sigle sindacali – sono stati e sono troppo deboli per modificare lo scenario politico.

Quando parlo di “sistema” mi riferisco ai due principali blocchi di potere che guidano il paese e che si contrappongono da almeno 15 anni. Si tratta di blocchi molto eterogenei al loro interno, non classificabili secondo la polarità destra-sinistra, ma espressione di due diverse visioni del Libano sulla scena internazionale. Uno dei blocchi è vicino al governo di Bashar al-Assad in Siria e si appoggia tradizionalmente all’Iran, contro quello che chiamano l’imperialismo statunitense. L’altro blocco è molto critico nei confronti di Bashar al-Assad, ha sostenuto l’opposizione in Siria ed è ostile alle influenze iraniane, visibili soprattutto nell’operato del movimento di Hezbollah. Al contrario, vede con molto favore l’influenza e il ruolo degli Stati Uniti e dell’Arabia Saudita.

Questa polarizzazione, sempre più acuta dopo lo scoppio della guerra civile in Siria, ha contributo alla paralisi delle istituzioni libanesi. Sintomi gravi di questa situazione sono visibili fin dal 2007 quando, dopo una fase di manifestazioni e scioperi che hanno bloccato il centro della capitale, non si è riusciti a eleggere un nuovo Presidente della Repubblica per più di un anno. Nel 2009 si sono svolte le elezioni parlamentari, che non hanno avuto un risultato netto né per l’una né per l’altra parte: si è creato quindi un governo di “unità nazionale” senza un vero programma unitario, incapace di prendere decisioni sui temi più controversi, e soprattutto di modificare il modello economico di cui ho parlato prima.

Quando è scoppiata la guerra civile in Siria, gran parte dei partiti ha detto: “cerchiamo di isolare e proteggere il paese da quello che sta accadendo a Damasco, perché altrimenti la guerra civile si estenderà anche da noi”. Ma nonostante l’intento di preservare la pace interna, si è prodotto un lungo “ingorgo istituzionale”. Nel 2013 era scaduto il termine del Parlamento e nel 2014 quello del Presidente della Repubblica, ma la legge elettorale era stata dichiarata inapplicabile: non si poteva procedere alle elezioni del nuovo Parlamento, ma senza il nuovo parlamento non si poteva eleggere neanche il nuovo Presidente della repubblica. Nel frattempo il governo era in carica, ma solo per il disbrigo degli affari correnti. Questa situazione è andata avanti per due anni per quanto riguarda il Presidente della repubblica (eletto nuovamente solo nel novembre del 2016) e per quattro anni per quanto riguarda il Parlamento. Le elezioni politiche si sono svolte nel 2018 quando i due blocchi sono riusciti ad accordarsi su una nuova legge elettorale: le elezioni, però, non hanno prodotto un chiaro vincitore e molti dei candidati eletti erano “indipendenti”, come tali non immediatamente riducibili alle manovre dei due blocchi.

Il rischio di un ingorgo istituzionale si profila oggi, di nuovo, all’orizzonte. Lo scorso maggio è stato eletto il nuovo parlamento. Il governo in carica in questo momento è ancora il governo uscente, guidato dall’imprenditore miliardario Najib Miqati: una figura di compromesso, che ha guidato negli ultimi anni un esecutivo di unità nazionale formato dai partiti del sistema. Mīqātī ha ricevuto l’incaricato di formare un nuovo governo, ma non ci è ancora riuscito: in attesa di trovare un accordo tra i partiti, resta in carica per il disbrigo degli affari correnti. Nel frattempo anche il mandato del Presidente della Repubblica Aoun, che ha più di 90 anni e quindi non si ricandida, è scaduto ma non sembra emergere nessuna figura capace di far convergere su di sé il consenso dei due blocchi di potere. Finora le candidature emerse per il ruolo di Presidente sono molto polarizzanti, dal punto di vista della loro storia politica e del loro carattere, mentre è tramontata la candidatura “tecnica” di un esponente di alto livello delle forze armate.

 

Il sistema istituzionale ed elettorale libanese è molto complesso, rischia sempre di incepparsi e di non offrire quelle risposte di cui la società ha urgente bisogno. Quali sono le caratteristiche fondamentali di questo sistema?

Il Libano è da secoli uno dei paesi arabi più diversificati dal punto di vista religioso, con una comunità cristiana forte e numerosa che, fino a qualche decennio fa, costituiva la maggioranza della popolazione. All’interno della distinzione principale tra cristiani e musulmani esiste poi una ricca articolazione in varie confessioni: oggi sono 18 le religioni riconosciute dallo stato libanese.

Già nelle ultime fasi dell’Impero Ottomano, passando per il protettorato francese nel primo dopoguerra mondiale e per i primi decenni dell’indipendenza ottenuta nel 1943, il sistema istituzionale libanese ha avuto una base confessionale: si è fondato, cioè, sulla suddivisione delle cariche tra le diverse comunità religiose. Lo squilibrio tra la divisione confessionale del potere e l’effettiva composizione della popolazione è diventato sempre più evidente con la crescita dei musulmani ed è tra le cause della guerra civile, che ha diviso il paese dal 1975 al 1990.

Gli accordi di pace di Ṭāʾif (chiamati così dal nome della città saudita dove si sono svolti i negoziati) hanno sancito un nuovo patto tra le comunità confessionali: i parlamentari, aumentati da 99 a 128, sono adesso suddivisi tra musulmani e cristiani secondo un rapporto di 1 a 1, non più di 6 a 5 a favore dei cristiani come in precedenza, sulla base di un censimento del 1932. Anche se l’obiettivo era quello di porre fine gradualmente al sistema confessionale, tali accordi di fatto lo hanno cristallizzato.

Le comunità religiose riconosciute dallo stato hanno diritto a una quota fissa di seggi in Parlamento. I seggi spettanti ai cristiani e ai musulmani sono ulteriormente divisi tra le varie confessioni: così, ad esempio, ai cattolici maroniti (di rito orientale ma dipendenti dalla Chiesa cattolica) spettano 34 seggi, ai greco-ortodossi 14 seggi, ai greco-melchiti 8 seggi, ai musulmani sunniti e sciiti 27 seggi ciascuno, ai musulmani drusi 8 seggi. I seggi sono assegnati con metodo proporzionale sulla base di collegi elettorali dove si possono presentare liste diverse: ciò rende i risultati elettorali complicati da accertare e facili da contestare.

Anche le cariche politiche sono suddivise su base confessionale, sia pure tramite accordi per la maggior parte informali, che però vengono rigidamente rispettati: il Presidente della Repubblica è un cattolico maronita; il Primo ministro è un musulmano sunnita; il Presidente del Parlamento è un musulmano sciita; il Vicepresidente del Parlamento e il Vice primo ministro sono cristiani greco-ortodossi.

Su questo sistema di power sharing ci sono valutazioni molto diverse. Da una parte, si apprezza l’intenzione positiva di voler mantenere un equilibrio e una condivisione tra le diverse componenti della società; dall’altra parte, si critica il fondamento confessionale di questo sistema e la sua degenerazione clientelare. Alla luce della crisi istituzionale ed economica ancora in corso, è difficile dare torto a chi vede in questo sistema più che un veicolo di concordia religiosa e convivenza pacifica tra le diverse confessioni un metodo di spartizione delle risorse pubbliche, che ha alimentato corruzione e clientele.

Periodicamente si discute di come superare questo sistema, ma spesso chi lo vuole modificare intende semplicemente avere una fetta più grossa della “torta”. Il problema è che, in questo momento, non c’è quasi più nessuna torta da spartire: e non è solo una metafora se si pensa ai prezzi cui sono schizzati anche i beni di prima necessità, come la farina, il pane, il latte.

 

Come ha inciso l’epidemia di COVID-19 sul paese e come è stata gestita l’emergenza sanitaria dalle forze politiche di sistema?

Il COVID-19 si è diffuso anche in Libano tra la fine di gennaio e l’inizio di marzo: esattamente in corrispondenza della crisi economico-finanziaria che ha portato il governo a dichiarare il default. Basti questo a rendere l’idea delle difficoltà con cui il paese ha dovuto fare i conti nel fronteggiare la pandemia.

I partiti politici di sistema hanno tentato di utilizzare l’emergenza sanitaria sia per arginare i movimenti di protesta, sia per ricostruire il consenso. Hanno dato mascherine, pacchi di cibo e spesso addirittura vaccini, in cambio del sostegno politico. Questo è stato possibile anche perché in Libano il sistema sanitario nazionale è assai poco sviluppato, tanto che più dell’80% degli ospedali in Libano sono privati. Non c’è stata una vera e propria campagna vaccinale. Il governo ha tentato di attuare un approccio centralizzato istituendo un Comitato nazionale per il contrasto della pandemia, col risultato di dirottare parte delle (già scarse) risorse dai centri di assistenza sanitaria primaria ai centri di emergenza COVID-19. Gli ultimi dati ufficiali registrano che, a metà novembre, il 49% della popolazione ha ricevuto due dosi di vaccino.

Nel contesto della pandemia, inoltre, abbiamo assistito a un reflusso dei movimenti di protesta. Non solo per le misure di contenimento, ma anche per la paura del contagio, non si sono più viste le grandi manifestazioni di piazza che avevano bloccato il paese negli ultimi mesi del 2019.

 

Quando si affronta la situazione del Libano, si dimentica spesso che si tratta del paese che accoglie il più alto numero di rifugiati siriani al mondo in percentuale sulla propria popolazione, cui vanno aggiunti gli storici profughi palestinesi. Qual è attualmente la condizione di chi vive in esilio nel paese?

Sul tema si potrebbe discutere a lungo. I profughi palestinesi sono arrivati in seguito alla Nakba, la “catastrofe”, ossia l’esodo forzato di circa 700.000 arabi palestinesi dai territori occupati da Israele nel corso della prima guerra arabo-israeliana del 1948. Nel 2017 un censimento del governo aveva contato 174.000 palestinesi in Libano, ben sotto gli oltre 400.000 profughi registrati dall’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite creata appositamente per la “gestione” dei profughi palestinesi. L’UNRWA è da tempo in difficoltà economiche e i profughi palestinesi sono in una sorta di segregazione sociale e giuridica: è loro vietato svolgere qualsiasi attività fuori dai loro 12 campi e non hanno alcun tipo di assistenza oltre a quella delle Nazioni Unite. Come noto, Israele nega loro il diritto al ritorno nella terra d’origine.

I siriani presenti oggi in Libano sono stimati tra le 950.000 e un milione e mezzo di persone, rispetto a una popolazione libanese di 5.000.000. È come se ci fossero 15 milioni e più rifugiati in Italia, con le condizioni socio-economiche di cui abbiamo parlato. La fuga dalla Siria è iniziata dopo il 2011, quando nel paese è scoppiata la guerra civile. Anche se la fase acuta del conflitto sembra superata, il paese versa in condizioni ancora molto difficili: la forte recessione, la svalutazione della moneta, l’aumento dei prezzi, il tasso di disoccupazione elevato hanno portato a un grande aumento dell’insicurezza alimentare che, nell’agosto 2021, colpiva ben 12.8 milioni di persone.

Uno dei fenomeni in corso, di cui si parla poco, è il tentativo del governo di rimandare una parte dei profughi in Siria affermando che la guerra è finita o che, almeno, è possibile tornare in quelle province dove non ci sono più combattimenti. Il problema è che molti di questi rifugiati hanno lasciato il paese anche per motivi politici, non solo per il timore della guerra. Il ritorno in Siria è visto con forte preoccupazione: alcuni racconti di ritorno, che non forniscono un’evidenza statistica ma restituiscono il clima che si respira, non sono affatto rassicuranti. Il tema è oggetto di scontro internazionale. Poche settimane fa, all’indomani della visita a Beirut di Filippo Grandi, Alto commissario per i rifugiati, il ministro degli Affari sociali libanese ha accusato l’agenzia delle Nazioni Unite di ritardare il “rimpatrio volontario” di oltre un milione di siriani. Nel mese precedente le autorità avevano effettuato il rimpatrio di alcune centinaia di siriani, dopo che in primavera i governi di Beirut e di Damasco si erano accordati per un piano per il rientro in Siria di oltre 15.000 persone.

Il soggiorno dei siriani in Libano è comunque difficile. La loro condizione sociale e giuridica è debole, anche perché il Libano ha firmato la convenzione di Ginevra di Ginevra sui rifugiati del 1951, ma non il Protocollo aggiuntivo che ne estende la portata. Il risultato è che i rifugiati provenienti dalla Siria godono di una sorta di protezione umanitaria, concessa in maniera unilaterale dallo stato libanese, che non li protegge interamente né dà loro pieni diritti. Inoltre, la rabbia sociale per la crisi si indirizza spesso anche contro di loro.

 

Che prospettive è possibile prevedere per il paese nel breve periodo? E quale ruolo può svolgere la comunità internazionale nel sostenere la ripresa?

Il paese, dopo la fase acuta della crisi economica, non si è solo fortemente impoverito: è anche diventato ancora più diseguale. Si registrano disuguaglianze sociali e territoriali molto marcate, come se in uno stesso paese convivessero due società: una vicina agli standard dell’Occidente e delle aree più ricche del pianeta; l’altra come in un paese in via di sviluppo. Sui social si vedono foto di ristoranti pieni, piscine meravigliose, boutiques e hotel di lusso: c’è evidentemente una clientela, libanese e straniera, che frequenta questi luoghi. Una parte del paese continua a vivere in maniera agiata, in quartieri dove si conduce una vita piacevole: Beirut resta una bella città, in cui è possibile vivere bene, mangiare bene e condurre una vita agiata.

Non dimentichiamo però che il 4 agosto 2020, nel pieno della crisi finanziaria e sanitaria, la capitale è stata devastata dall’esplosione in un magazzino del porto, dove erano depositati materiali pericolosi confiscati da una nave. A seguito delle esplosioni sono morte più di 220 persone e oltre 7000 sono state ferite. Il governatore di Beirut ha stimato che circa 300.000 persone sono rimaste senza casa, ovvero circa 2/3 della popolazione.

Le indagini sono di fatto ferme. L’inchiesta è stata sospesa il 12 ottobre 2021, dopo che Ali Hasan Khalil, ex ministro delle Finanze, e Ghazi Zeaiter, deputato sciita, convocati per un interrogatorio, hanno presentato denuncia contro l’investigatore capo.

Un’articolata ricostruzione di ciò che è accaduto al porto di Beirut è stata realizzata dal centro di ricerca e investigazione Forensic Architecture. Si tratta di un’indagine indipendente, di esperti che provengono dal campo dell’architettura e dell’urbanistica e che comparano fotografie, video, notizie confermate e rilevamenti sul posto: la ricostruzione mette in evidenza una catena di straordinaria irresponsabilità e imperizia da parte delle attività portuali e dei ministri che avrebbero dovuto controllare e che, invece, non hanno fatto nulla. Oltre ai danni materiali, tutto questo aumenta ancora di più la rabbia e il malcontento dei familiari delle vittime e delle migliaia di persone che hanno perso la casa, le proprietà, il lavoro: nessuno ha pagato finora per ciò che è successo.

In conclusione, le ragioni che hanno portato alle grandi proteste dell’autunno 2019, connesse alla crisi economico-finanziaria e alla sua gestione da parte dei partiti di sistema, sono sempre valide. Quelle richieste e aspirazioni di cambiamento radicale non sono state finora ascoltate. La differenza rispetto a tre anni fa è che molte persone in questo momento sono talmente impegnate nella sopravvivenza materiale da non poter quasi concepire la mobilitazione o la militanza politica. Ma ciò non vuol dire che la situazione sia realmente pacificata, anzi: lo stato attuale può anche preludere a un ritorno di mobilitazioni popolari ancora più massicce.

Anche per la comunità internazionale, non è facile capire come intervenire in un contesto del genere. Si pone un vero e proprio dilemma perché, da una parte, gli aiuti internazionali rischiano di foraggiare il sistema politico clientelare ma, dall’altra parte, tali aiuti possono fare la differenza e contribuire a sostenere lo stato, la sua capacità di governare il territorio e soprattutto di rispondere ai bisogni elementari della popolazione.

 

Francesco Mazzucotelli insegna Storia della Turchia e del vicino Oriente e Storia e cultura del Medio Oriente all’Università di Pavia. Nelle sue ricerche, si occupa in particolare di Siria e Libano, dove ha vissuto durante la collaborazione con la American University of Beirut. Email: francesco.mazzucotelli@unipv.it

 

[intervista realizzata da Daniele Risaliti il 9 novembre 2022, chiusa in redazione il 9 dicembre 2022].