lunedì, Novembre 17, 2025
ConflittiEconomia

Repubblica Democratica del Congo e Ruanda: la pace ha un futuro?

 

di Filippo Fedeli 

Il 27 giugno scorso la Repubblica Democratica del Congo (RDC) e il Ruanda hanno firmato a Washington un accordo di pace, definito storico dai promotori. Il testo dell’intesa prevede la cessazione delle ostilità e il rispetto dell’integrità territoriale del Congo, il ritiro delle truppe ruandesi entro 90 giorni dalla firma e la fine del sostegno ai gruppi armati locali, il disarmo delle milizie non statali, la creazione di un meccanismo congiunto di sicurezza e di cooperazione economica regionale, soprattutto nel settore minerario e infrastrutturale.

Fortemente voluta da Donald Trump, con la mediazione del Qatar, la pace ha fin da subito sollevato dubbi riguardo alla sua sostenibilità nel tempo, in primo luogo perché non coinvolgeva il Movimento 23 marzo: la principale organizzazione paramilitare del Congo orientale, tradizionalmente vicina al Ruanda. Anziché promuovere la risoluzione di un conflitto decennale, agendo sulle sue cause profonde, l’accordo di Washington sembrava rispecchiare piuttosto la volontà statunitense di arginare la penetrazione cinese in Africa e, soprattutto, di controllare le ingenti risorse minerarie congolesi. Il suolo della RDC è, infatti, uno dei più ricchi al mondo di materie prime strategiche come il coltan, il rame, l’oro e il cobalto: si tratta di giacimenti di rilevanza geopolitica che, nel corso del tempo, sono finiti nel mirino di milizie ed eserciti stranieri e che, da oltre trent’anni, costituiscono uno dei maggiori fattori di tensione col vicino Ruanda.

In un significativo sviluppo diplomatico, il 14 novembre scorso la RDC e il Movimento 23 marzo hanno siglato in Qatar un accordo quadro, gettando le basi per una futura pace destinato a porre fine alle ostilità nella tormentata regione orientale del paese. L’intesa non costituisce ancora una risoluzione definitiva del conflitto armato, bensì delinea la metodologia e la tempistica dei prossimi negoziati. Nel documento, le parti confermano la cessazione delle ostilità e rinnovano l’impegno al rilascio dei prigionieri, in coerenza con gli impegni assunti in precedenza. Il centro dell’accordo risiede nell’elaborazione di otto distinti protocolli, il cui negoziato sarà avviato nelle prossime settimane, con l’obiettivo di affrontare e risolvere le cause profonde del conflitto.

Per comprendere se i due accordi di pace siglati a Washington e Doha possano avere un futuro è necessario ricostruire brevemente la storia delle relazioni conflittuali che hanno contrapposto il Congo e il Ruanda, soprattutto dagli anni ’90 a oggi. Occorre comprendere in particolare il peso, in questo contesto, degli interessi economici connessi allo sfruttamento delle risorse minerarie congolesi, compreso il ruolo delle grandi società tecnologiche: a dicembre 2024, infatti, il governo della RDC aveva presentato denunce formali in Francia e Belgio contro le filiali di Apple, accusando la società di utilizzare minerali provenienti da zone di conflitto attraverso i gruppi armati, come l’M23, che controllavano alcune miniere nella parte orientale del paese.

  

RDC e Ruanda: una lunga storia di conflitti post-coloniali 

I conflitti tra la Repubblica Democratica del Congo e il Ruanda hanno spesso avuto tra i loro protagonisti “gruppi etnici”, che affondano le loro radici nell’epoca coloniale.

In Ruanda, prima del Mandato belga iniziato nel 1922, le distinzioni tra Hutu, Tutsi e Twa erano basate principalmente sulla professione tradizionale (agricoltori i primi, allevatori e proprietari terrieri i secondi, cacciatori-raccoglitori e artigiani gli ultimi) e prevedevano la possibilità di passare da un gruppo all’altro. I colonizzatori hanno razzializzato queste differenze applicando la cosiddetta “teoria hamitica”, secondo cui qualsiasi forma di civiltà organizzata presente in Africa fosse l’opera di una “razza” d’origine caucasica, gli Hamiti, discendenti dalla leggendaria figura biblica di Cam figlio di Noé.

Applicata al contesto ruandese, questa teoria pseudoscientifica identificava nella minoranza Tutsi gli Hamiti civilizzatori, votati per natura al comando, allo scopo di legittimare il loro predominio sulla maggioranza Hutu e sui Twa. Queste divisioni, istituzionalizzate nel 1933 con l’introduzione obbligatoria di “carte d’identità etniche”, sono state sfruttate dal Belgio per evitare insurrezioni contro il proprio Mandato coloniale, collaborando con i Tutsi e sostenendo la loro egemonia sociale e politica sul resto della popolazione.

Questo sistema di oppressione istituzionalizzata ha condotto, tra il 1959 e il 1962, alla cosiddetta “Rivoluzione Hutu”. Nel corso del processo di indipendenza dal Belgio, la maggioranza Hutu ha assunto il controllo del paese, portando al massacro di migliaia di persone e allo sfollamento forzato di una parte importante delle comunità Tutsi verso il Congo e l’Uganda.

Nel periodo successivo all’indipendenza, caratterizzato a lungo dalla presidenza di Mobutu Sese Seko (1965-1996) in Congo e di Juvénal Habyarimana (1973-1994) in Ruanda, le relazioni tra i due paesi sono state generalmente positive, grazie al buon rapporto tra i due leader. Le relazioni sono peggiorate con lo scoppio della guerra civile ruandese nell’ottobre 1990, a seguito degli attacchi del Fronte Patriottico del Ruanda (FPR): un gruppo di Tutsi in esilio in Uganda, intenzionati a riprendere il potere.

Il genocidio del 1994 costituisce la fase finale di questo lungo conflitto, scatenato dall’abbattimento dell’aereo del presidente Habyarimana, attribuito dagli Hutu ai Tutsi. Aizzati dai media, in particolare da Radio Télévision Libre des Mille Collines, gli Hutu hanno dato vita alla milizia Interahamwe (letteralmente “Coloro che lavorano insieme”) massacrando almeno 800.000 Tutsi. La vittoria militare del Fronte Patriottico Ruandese, guidato dal generale e attuale presidente Paul Kagame, ha posto fine al genocidio ma ha lasciato dietro di sé un paese profondamente lacerato.

Al tempo stesso, la fuga di oltre un milione di Hutu nel vicino Congo ha modificato la composizione delle province orientali del paese, alimentando tensioni violente tra i nuovi profughi e le comunità Tutsi stabilitesi da decenni nell’area. L’aggravarsi delle tensioni ha condotto a una guerra su larga scala, in cui i governi ruandese e ugandese hanno sostenuto i Tutsi congolesi – riuniti sotto l’Alleanza delle Forze Democratiche per la Liberazione del Congo (AFDLC) guidata da Laurent-Désiré Kabila – mentre il governo congolese guidato da Mobutu si è schierato dalla parte degli Hutu.

La Prima guerra del Congo, terminata ufficialmente a maggio 1997 con la vittoria dell’AFDLC e la nomina di Kabila a Presidente, non ha prodotto la fine delle ostilità. Il 27 luglio 1998 Kabila ha annunciato l’espulsione di tutte le organizzazioni civili e militari straniere, composte in prevalenza da Tutsi ruandesi. Ciò andava contro gli interessi del Ruanda, che sperava di poter controllare i grandi giacimenti minerari delle regioni orientali del Congo attraverso le locali organizzazioni Tutsi.

La decisione di Kabila ha spinto il Ruanda a riprendere il conflitto armato, usando come pretesto la formazione in Congo delle Forze Democratiche di Liberazione del Ruanda (FDLR): un gruppo paramilitare formato da Hutu in cui militavano alcune personalità accusate del genocidio. La Seconda guerra del Congo – conosciuta anche come “Guerra mondiale africana” per l’elevato numero di potenze esterne coinvolte nel conflitto – si è conclusa formalmente soltanto nel 2003, ma l’accordo di pace firmato in Sudafrica tra la RDC e il Ruanda non ha mai messo del tutto fine alle violenze.

 

La crisi del Kivu e la nascita del “Movimento 23 Marzo” 

Dopo la Seconda guerra del Congo le tensioni tra RDC e Ruanda hanno continuato a manifestarsi nelle regioni orientali del Congo, soprattutto nelle province del Nord e Sud Kivu e dell’Ituri.

La presenza in Congo di milizie hutu, come le FDLR, ha portato nel 2006 alla nascita del Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo (CNDP): un gruppo ribelle a predominanza tutsi che godeva del sostegno del Ruanda.

Un accordo di pace tra le parti, siglato il 23 marzo 2009, prevedeva l’integrazione dei miliziani del CNDP nell’esercito congolese e il loro accesso a ruoli amministrativi. Tuttavia, nel 2012, una fazione guidata dal generale Bosco “Terminator” Ntaganda, ha accusato il governo di Joseph Kabila di inadempienza e si è staccata, dando vita al Movimento 23 Marzo (M23). Sebbene inizialmente neutralizzato da una coalizione di forze governative e caschi blu dell’ONU inquadrati nella missione MONUSCO, il gruppo M23 è riemerso con forza a fine 2021, arrivando a controllare all’inizio del 2025 gran parte del Nord e Sud Kivu, incluse le rispettive capitali Goma e Bukavu.

Numerosi rapporti delle Nazioni Unite e di organizzazioni non governative, come Amnesty International, hanno denunciato gravi violazioni dei diritti umani da parte dell’M23, tra cui arresti ed esecuzioni arbitrarie, uccisioni indiscriminate, torture e stupri ai danni della popolazione civile. In questo stesso contesto si inserisce l’uccisione dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio, nonché il parziale ritiro dopo 22 anni dei caschi blu della MONUSCO, segnando di fatto il fallimento della missione. Dietro le attività del gruppo vi sono, con ogni probabilità, le autorità ruandesi.

Le ragioni principali per cui il Ruanda avrebbe continuato a sostenere il gruppo sono due. In primo luogo, la volontà del presidente congolese Felix Tshisekedi di ristabilire il controllo governativo sulle province orientali, dimostrata dalla proclamazione dello “stato d’assedio” nel maggio 2021. In secondo luogo, l’accordo siglato a novembre 2021 tra RDC e Uganda che, sebbene finalizzato a contrastare le Forze Democratiche Alleate (FDA), ha di fatto permesso all’Uganda di schierare truppe nel Congo orientale, contrastando gli interessi ruandesi.

Il controllo indiretto del Congo orientale è strategico per il Ruanda, non solo per le immense risorse minerarie presenti nel territorio, ma anche per il valore strategico dell’area per i trasporti e l’esportazione delle merci ruandesi. Vantaggi di cui beneficerebbero direttamente anche le grandi aziende tecnologiche. Tra queste figura anche Apple, contro cui il governo di Tshisekedi ha avviato un’azione legale in Belgio e Francia, accusandola di favorire il contrabbando delle cosiddette “terre rare” impiegate nella componentistica elettronica.

 

I limiti dell’accordo di Washington

L’accordo di Washington dello scorso giugno è l’esito di negoziati proseguiti con la mediazione congiunta di Stati Uniti e Qatar, dove a marzo i presidenti Kagame e Tshisekedi si erano incontrati per la prima volta. Non è il primo accordo del genere: negli anni precedenti altri si sono visti due importanti tentativi “africani” di condurre a una pacificazione tra RDC e Ruanda, ovvero il Processo di Nairobi, condotto dalla Comunità dell’Africa Orientale (EAC), e il successivo Processo di Luanda, sotto l’egida della Comunità degli Stati dell’Africa Australe (SADC).

Oltre a concludere le reciproche ostilità, in base al nuovo accordo le due parti si impegnano in primo luogo a rispettare l’integrità territoriale altrui e a cessare il sostegno a tutti gli attori armati non-statali presenti nell’area, rispettando il diritto internazionale umanitario e facilitando il ritorno dei rifugiati nelle rispettive patrie. La seconda parte dell’accordo prevede l’implementazione di un quadro di cooperazione economica regionale, in cui RDC e Ruanda dovrebbero collaborare attivamente per l’estrazione e la commercializzazione delle risorse minerarie. Una soluzione che, secondo Donald Trump, sarebbe vantaggioso per tutte le parti in conflitto: la Repubblica Democratica del Congo riacquisirebbe il controllo delle province orientali e la piena sovranità sui giacimenti minerari; il Ruanda non vedrebbe compromessi i propri interessi, partecipando ai processi estrattivi e offrendo le proprie infrastrutture e reti commerciali; gli Stati Uniti godrebbero di diritti di estrazione su molti siti minerari e potrebbero iniziare a processare in loco le risorse estratte, attraverso proprie imprese.

La strategia statunitense, che riprende il modello dell’accordo sulle terre rare concluso con l’Ucraina ad aprile 2025, va letta nel quadro della sfida globale con la Repubblica Popolare Cinese, che risulta essere il maggior investitore straniero nella RDC e che controlla attualmente il 72% delle miniere attive di cobalto e rame. Da qui la lettura critica dell’accordo di pace come mossa strategica, finalizzata a contrastare la presenza cinese nel continente africano e partecipare al business delle risorse minerarie congolesi, più che come espressione di un’autentica volontà di pace duratura.

Nonostante il Presidente congolese Tshisekedi abbia affermato che l’intesa raggiunta a Washington apra la strada a “una nuova era di stabilità, cooperazione e prosperità […] per la regione dei Grandi Laghi”, in molti lo accusano di aver svenduto” il proprio paese agli Stati Uniti e di essersi piegato agli interessi del Ruanda, che esce dalle trattative come il reale vincitore. A titolo d’esempio, l’accordo di Washington definisce il ritiro delle truppe ruandesi come una “rimozione delle misure difensive”, attribuendo la responsabilità del conflitto alle Forze Democratiche di Liberazione del Ruanda, composte in prevalenza da Hutu, di cui si chiede l’immediato scioglimento.

La principale incognita che pesa sull’intesa di Washington è costituita dal Movimento 23 marzo. Non più considerato una semplice milizia, ma vero e proprio gruppo politico-militare, l’M23 non ha partecipato ai negoziati né alla firma dell’accordo, prediligendo la strada dei colloqui bilaterali con il governo congolese, con la mediazione del Qatar. Nei fatti, l’M23 si presenta oggi come un gruppo assai più strutturato rispetto al 2012 e fin da subito ha dichiarato di non voler fare alcun passo indietro rispetto alle posizioni conquistate negli ultimi tre anni, che includono gran parte delle regioni orientali del Congo. Tale condizione pone seri dubbi sulla sostenibilità della pace, ed è ancora troppo presto per valutare se il recente accordo di Doha, tra RDC e M23, sarà in grado di conseguire una pacificazione stabile.

Spia della natura strategica dell’accordo di Washington è il mancato riferimento ai crimini di guerra e alle gravi violazioni dei diritti umani, compiute sia dai vari gruppi paramilitari che dagli eserciti regolari di entrambi i paesi: un elemento necessario per fondare la pace su principi di giustizia, in un territorio che nel solo 2025 ha visto 7.000 morti e mezzo milione di sfollati. D’altra parte, finché il destino della regione continuerà a essere deciso nei palazzi del potere stranieri o nelle sale dei consigli d’amministrazione delle multinazionali, senza tenere conto delle istanze delle comunità locali, le paci firmate sulla carta rimarranno solo un’illusione.

 

Filippo Fedeli si è laureato in Studi internazionali all’Università di Pisa. Attualmente è volontario del Servizio Civile Universale presso il Centro Interdisciplinare Scienze per la Pace.