Puntare sul caos climatico: come le grandi banche finanziano le aziende del fossile
di Lucrezia Maffucci
Siamo nel pieno di una crisi climatica certificata ormai da numerosi indicatori: dall’aumento delle temperature medie degli oceani allo scioglimento dei ghiacciai e dei ghiacci marini, dall’innalzamento del livello dei mari alla maggiore frequenza e intensità di eventi meteorologici estremi. Quanto tale crisi sia reversibile, dipende dalla rapidità con cui l’attuale modello economico-sociale, fondato sull’uso di combustibili fossili, su attività produttive e modelli di mobilità insostenibili, verrà ripensato e superato.
Ruolo e responsabilità del settore bancario nella crisi climtica
In questo contesto, mentre i movimenti per la giustizi climatica fanno pressione sugli Stati affinché rispettino gli impegni assunti in tema di riduzione delle emissioni, il sistema finanziario globale continua a sostenere l’estrazione e l’uso di combustibili fossili, andando in direzione contraria a quanto stabilito dall’Accordo di Parigi del 2015: mantenere l’aumento della temperatura media mondiale a 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali; aumentare la capacità di adattamento agli effetti negativi dei cambiamenti climatici; rendere i flussi finanziari coerenti con un sistema economico-sociale a basse emissioni di gas serra.
Sul tema è stato pubblicato, lo scorso aprile, il sedicesimo rapporto Banking on Climate Chaos, letteralmente: puntare sul caos climatico. Si tratta di uno studio di livello globale sui prestiti e sulle sottoscrizioni delle principali banche mondiali a oltre 2.700 aziende di combustibili fossili. Il rapporto, promosso da un’ampia coalizione di organizzazioni della società civile coordinata dal Rainforest Action Network, mostra come nel 2024 le 65 maggiori banche del pianeta abbiano investito ben 869 miliardi di dollari in aziende legate ai combustibili fossili, con un incremento significativo rispetto all’anno precedente.
Nonostante la necessità di raggiungere al più presto possibile uno stato di emissioni nette zero, e malgrado le promesse ufficiali di una transizione energetica verso fonti rinnovabili, il sistema finanziario globale continua ad alimentare la crisi climatica, guidato esclusivamente da logiche capitalistiche di breve periodo.
Una crisi climatica che accelera
Il 2024 è stato l’anno più caldo mai registrato, superando il 2023 che aveva visto le più alte concentrazioni di gas serra degli ultimi 800.000 anni. Uragani, siccità e inondazioni, connesse alla crisi climatica, hanno avuto un impatto devastante su numerosi ecosistemi, causando al contempo effetti economici indiretti come l’aumento dei premi assicurativi.
Dieci anni dopo l’Accordo di Parigi, e nonostante gli impegni formali assunti durante la COP28, la soglia critica degli 1,5 gradi di aumento nella temperatura media rispetto all’era preindustriale è stata di fatto raggiunta.
Le resistenze dei governi nel sostenere e accelerare la transizione verso fonti di energia rinnovabili e non climalteranti sono, in buona parte, il risultato delle pressioni delle aziende fossili, che vedono compromessi i propri margini di profitto e non intendono investire nella riconversione. È in questo quadro che va letta criticamente la scelta delle principali banche del mondo di sostenere l’industria del fossile, assumendo su di sé una pesante responsabilità nell’aggravamento della crisi climatica.
La metodologia adottata dal rapporto
Il rapporto Banking on Climate Chaos si basa su fonti pubbliche e commerciali (bilanci, database, comunicati stampa, ecc.), incrociate tra loro per verificarne l’attendibilità e la correttezza. Sono state considerate 65 banche in tutto il mondo, selezionate per le dimensioni e per il diverso grado di coinvolgimento nel sistema finanziario globale: sono stati analizzati prestiti, obbligazioni, linee di credito e project financing, ossia finanziamenti a medio-lungo termine, destinati a beneficiare aziende attive nelle varie fasi della produzione di combustibili fossili.
I dati sulle aziende sono tratti da numerose fonti, come Rystad Energy e Global Coal Exit List, e rappresentano una stima prudente del contributo di tali società alla produzione di combustibili fossili, che tiene conto della non uniformità dei dati nei diversi paesi e di problemi di trasparenza nelle attività aziendali. In effetti, le classificazioni industriali standard non sempre riflettano fedelmente le attività aziendali: molte società, che si definiscono “verdi” o “sostenibili”, nascondono significative esposizioni ai combustibili fossili.
Per far fronte a questi problemi, lo studio include nell’analisi le aziende con un comprovato coinvolgimento nel settore fossile, anche se il loro codice di settore non è “Oil & Gas”. In questa prospettiva, vengono considerate rilevanti anche le filiali finanziarie delle società fossili, in quanto fungono da veicoli cruciali per il loro finanziamento.
La crescita della finanza nel settore fossile
Nel 2024 le 65 banche analizzate hanno finanziato il settore fossile con 869 miliardi di dollari, portando il totale dal 2021 a quasi 3.300 miliardi. JP Morgan risulta il principale finanziatore globale del settore (con 53,5 miliardi nel 2024), seguita da altre grandi banche statunitensi, canadesi, giapponesi, europee e cinesi.
Figura 1 – Le 12 principali banche del mondo che finanziano il settore fossile (2021-2024).
Più di due terzi delle banche considerate hanno aumentato il loro supporto finanziario rispetto all’anno precedente. Questa tendenza contrasta apertamente con gli obiettivi di neutralità climatica dichiarati dopo l’Accordo di Parigi: secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE), gli investimenti fossili dovrebbero essere ridotti di oltre la metà entro il 2030 per raggiungere le emissioni nette zero entro il 2050.
Figura 2 – Finanziamenti cumulativi delle banche ai combustibili fossili (2016-2024)
L’espansione del settore fossile: un vicolo cieco
Il rapporto evidenzia come le banche stiano finanziando soprattutto l’espansione di nuove infrastrutture per il settore fossile. Ciò implica, ai fini della restituzione del finanziamento, il mantenimento prolungato della produzione e quindi della dipendenza energetica dal fossile, ostacolando una seria politica di decarbonizzazione.
Nonostante le dichiarazioni formali, molti progetti partiti dopo il 2021 (data indicata come soglia critica dall’AIE) riguardano ancora fonti fossili. Le motivazioni spesso addotte dalle banche, che i finanziamenti concessi sostengono la transizione, sono valide solo in presenza di piani credibili di riduzione della produzione, piani che mancano nella maggior parte dei casi analizzati.
L’uso del carbone
L’estrazione del carbone e il suo utilizzo, sia termico che metallurgico, producono impatti ambientali e sanitari gravissimi: disboscamento, inquinamento dell’aria e delle acque, malattie respiratorie e rilascio di metano. Il settore siderurgico, in particolare, è responsabile dell’11% delle emissioni globali di CO₂.
Nonostante gli avvertimenti dell’AIE, nel solo 2024 sono stati aggiunti a livello globale 30 GW di nuova capacità a carbone, spesso per alimentare industrie energivore legate alla transizione energetica, come la produzione di minerali critici utilizzati nella produzione di impianti fotovoltaici.
Petrolio e gas: un impatto ancora sottovalutato
Anche il comparto petrolifero e quello del gas presentano gravi conseguenze ambientali e sanitarie. Tecniche come il fracking (un metodo estrattivo che prevede l’iniezione nel sottosuolo di acqua e sostanze chimiche ad alta pressione) sono altamente inquinanti, con effetti documentati sulla salute umana, soprattutto per le comunità che vivono nelle vicinanze dei pozzi.
Il gas naturale liquefatto (metano) è oggi il combustibile fossile in più rapida espansione. Studi recenti hanno dimostrato però che il suo ciclo produttivo – estrazione, liquefazione, trasporto e rigassificazione – comporta nel breve periodo emissioni spesso superiori a quelle del carbone.
Cosa si può fare per responsabilizzare il sistema bancario
Il rapporto si conclude con una serie di raccomandazioni rivolte a banche, governi e cittadinanza, con l’obiettivo di garantire i diritti fondamentali delle comunità, incluso il diritto a un clima integro e salubre.
In generale, per mitigare gli effetti della crisi climatica e rallentarne l’aggravamento, è di vitale importanza interrompere i finanziamenti all’espansione del settore fossile, adottare piani vincolanti di disinvestimento, garantire la trasparenza dei rapporti tra finanza e aziende al fine di monitorare il rispetto degli impegni e progressi compiuti.
I governi devono adottare politiche più incisive e coraggiose, che vietino i finanziamenti incompatibili con gli obiettivi climatici. I cittadini e le cittadine in qualità di risparmiatori e risparimatrici, così come le pubbliche amministrazioni che usufruiscono di servizi finanziari, possono esercitare una pressione sulle proprie banche di riferimento affinché fuoriescano dal settore del fossile. O possono scegliere istituti bancari che sono allineati con gli obiettivi degli Accordi di Parigi. Ma per poter compiere delle scelte consapevoli in materia occorre innanzitutto trasparenza.
Il cambiamento è possibile – concludono gli autori e le autrici del rapporto. Le banche devono scegliere se restare ancorate a un passato distruttivo o diventare protagoniste della soluzione. Il tempo per agire è ora!
Lucrezia Maffucci è studentessa di Archeologia dell’Università di Pisa. Attualmente è collaboratrice part-time del Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace”.