Piero Calamandrei: “Uomini e città della Resistenza”
di Andrea Panzavolta
«Il testo fondatore della nostra epica resistenziale». Così è definito, nella quarta di copertina dell’edizione Laterza, Uomini e città della Resistenza di Piero Calamandrei. Il volume, pubblicato per la prima volta nel 1955 in occasione del decimo anniversario della Liberazione, fa venire in mente, per strani giochi di corrispondenze e consonanze, la Poetica di Aristotele: non è del tutto temerario, infatti, considerarlo una sorta di ‘trattato di estetica resistenziale’ in cui sono codificati i temi chiave che ritorneranno, poi, come un basso continuo, in ogni futura commemorazione del 25 aprile, quali l’epicedio sulle città e sui borghi contro cui si incrudelì la rappresaglia nazifascista, il ricordo commosso delle vittime civili, l’encomio delle gesta partigiane, l’invettiva contro i carnefici, la severa esortazione rivolta alle generazioni future. Temi chiave, si aggiunge, modulati dall’autore secondo uno stile autenticamente classico, ciceroniano: largo uso della ipotassi, periodare di marmorea politezza, ricorso frequente a tropismi, topica serrata e implacabile, exornationes varie per docere e movere il pubblico. L’idea che se ne ricava è di una parola che gareggia con i monumenti e le lapidi, che vuole diventare essa stessa un monumentum capace, come vuole la duplice etimologia del nome, non soltanto di rammemorare nomi ed eventi, ma anche di ammonire i posteri.
Se subito dopo la lettura di Uomini e città della Resistenza si leggesse il Diario, scritto sempre da Calamandrei tra il 1939 e il 1945, si stenterebbe a riconoscere che medesima è la penna: se il primo testo è attraversato da un furor incontenibile, il secondo è dominato invece da un senso di acuto disagio dinanzi a tempi che avrebbero richiesto scelte più nette, soprattutto da parte di chi faceva aperta professione di antifascismo, e insieme da un senso di colpa, se così si può dire, verso coloro – docenti universitari, intellettuali, studenti, uomini e donne comuni, il suo stesso figlio Franco, uno degli ideatori dell’attentato in via Rasella – che invece non esitarono a dire «io No», per riprendere il titolo della commovente autobiografia di Joachim Fest. Le ultime pagine del Diario cedono il posto all’agenda: anziché leopardiane riflessioni sopra «lo stato presente dei costumi degli italiani», abbondanti almeno prima della liberazione di Firenze, troviamo annotati solamente appuntamenti professionali e politici, come se Calamandrei avesse voluto recuperare il tempo perduto o saldare un debito o rinviare sine die, complice un subisso di impegni, l’ora in cui fare seriamente i conti con se stesso.
Tema ampiamente investigato quello del comportamento di certi intellettuali antifascisti, divisi tra eccessiva tiepidezza e prudente nicodemismo, per darne qui di nuovo conto: considerati i «tempi bui» in cui vissero, forse, brechtianamente, bisogna guardare loro «con indulgenza». Se nulla dell’intimo dissidio – di cui, si ripete, il Diario è implacabile anatomopatologo – traspare sulla superficie levigata delle grandi orazioni civiche sulla Resistenza, questa stessa superficie, tuttavia, a un esame più attento, presenta minuscole fratture, microscopiche faglie simili a repentine dissonanze che di quando in quando lacerano il tessuto tonale di una partitura.
Un passo può essere assunto per tutti a testimonianza di queste aritmie. Nel discorso pronunciato a Ivrea per onorare il martirio degli otto partigiani della banda Perotti, Calamandrei, tra le altre, cita anche l’ultima lettera di uno studente di nome Gioachino scritta ai genitori prima di essere fucilato: «Mi dispiace di non aver potuto coronare il mio sogno, una vita dolce con voi, con lei, con qualche figlio che avrebbe allietato la nostra vita, ma purtroppo non è stato così…». Ciò che sconvolge in questo estremo messaggio, a differenza di tanti altri che, parimenti vergati in hora mortis, si concludevano con parole di conforto ai familiari o di amore per la patria Italia – lettere splendide a cui la solennità del momento imprime il sigillo della Verità – ciò che lascia sgomenti, si diceva, è la chiusa decisamente ‘in minore’. Quel «ma purtroppo non è stato così…» è uno stoppino che si spegne nella notte perché parla di una radicale mutilazione, di un tempo reciso, di sogni che resteranno irredenti. Senza alcuna enfasi, tuttavia. Anzi: è poco più di un sussurro, quell’ultima riga, che proprio «per forza di levare» acquista una indomabile potenza poetica. Essa finisce per essere un compiuto monumentum (nella duplice accezione sopra richiamata) tanto che potrebbe essere apposta quale epigrafe al volume accanto a quella di Guglielmo Jervis («Non piangetemi, non chiamatemi povero. Muoio per aver servito un’idea»): è un monumento propriamente detto, perché fa memoria di un dovere civile – ridare dignità alla parola ‘patria’ – il cui adempimento, in quel 1944, non poteva più essere differito senza il rischio di perdere l’anima. Ed è pure un monito a non dare mai nulla per scontato, a considerare la terra promessa un luogo di là da venire verso il quale si è sempre in cammino, cammino che ogni nuova generazione deve ricominciare come se fosse la prima volta.
Quel «purtroppo non è stato così…» finisce, però, per travalicare i confini di una singola biografia e farsi autobiografia di una lotta (quella resistenziale) e di un paese (l’Italia). Le togate perorazioni di Calamandrei non riescono, infatti, a stornare un sospetto che diviene tanto più manifesto quanto più la prosa si fa sinuosa e solenne: il sospetto, cioè, che dopo dieci anni i valori resistenziali siano stati traditi. Se non si avverte questo timbro drammatico, a tratti verrebbe da dire quasi sconsolato, si rischia di considerare Uomini e città della Resistenza solamente come un grandioso mausoleo o una venerabile galleria di martiri. A guardarlo bene, invece, il libro di Calamandrei presenta in filigrana un dolente scetticismo sulla capacità da parte degli exempla proposti di mantenere inconcussi per i posteri i valori che innervarono la guerra di Liberazione – e questo in sintonia con gli artisti più avveduti, i quali non tardarono ad accorgersi come il nuovo corso delle cose avesse imboccato la strada della rimozione a favore di miopi e asfittici interessi corporativi e politici: basti ricordare, nella letteratura, L’orologio di Carlo Levi e Una notte del ’43 di Giorgio Bassani, e, nel cinema, Una vita difficile di Dino Risi.
Come scrive Calamandrei, il 25 aprile è, sì, una «data bifronte», che segna da un lato «la fine di un periodo di sangue e di orrori», e dall’altro «l’affacciarsi all’orizzonte, al disopra di tante rovine, di una grande speranza fraterna che preannuncia il futuro», e tuttavia al termine della lettura si prova un senso di mestizia, tanto che se qualcuno domandasse che ne è stata di tanta sofferenza, dopo aver biascicato una risposta di prammatica, non si saprebbe cos’altro aggiungere. E non perché si stimi nulla la resistenza opposta alla barbarie da parte di tanti uomini e donne, ma perché proprio non ci si capacita a capire come possa il bacillo della peste sopravvivere ancora dopo quegli abnormi lavacri di sangue.
La potenza oratoria e la raffinata elocuzione di Calamandrei tradiscono un’acuta amarezza: è, infatti, la stessa grandiosità del dire a denunciare impudicamente lo scacco dei resistenti italiani, non già perché questi non siano riusciti a liberare il paese da un regime criminale e omicida, ma perché di scacco occorre parlare ogniqualvolta il patrimonio di una generazione non è raccolto e meditato dalle generazioni future per rendere ancora più salda la via della pace. Già è avvertibile, insomma, nelle pagine del giurista fiorentino la lenta e inesorabile trasformazione del rito in rituale, della ricordanza in commemorazione, del diuturno e salvifico dialogo con i morti in religione della morte. E si prova impotenza e rabbia dinanzi a tanto scialo di vite, di sogni, di utopie.
Andrea Panzavolta è giornalista pubblicista. Collabora alla rubrica “Film in discussione” di Iride. Filosofia e discussione pubblica, e ad alcune riviste di critica cinematografica. Dal 2014 è il direttore artistico della rassegna concertistica forlivese “Passioni in musica”.