Piccoli maestri. La ribellione dei bambini alla guerra
Non sono la prima, né sono e sarò l’unica e tanto meno l’ultima ad aver scoperto di non poter più parlare con i miei conoscenti da quando è iniziata la guerra. La lingua è mutata. Macbeth non soltanto ha ucciso il sonno, ma anche la lingua.
Julia Yakovleva
di Maria Bacchi
Le bombe cadono sull’Ucraina, a molti chilometri di distanza dalla Russia. La sopravvivenza della scrittrice russa Julia Yakovleva, dei suoi conoscenti adulti o dei bambini russi non è in pericolo, ma lei scrive che nel confronto tra persone probabilmente coetanee e affini “l’orrore nero di ciò che stava accadendo si ergeva come un muro”. I bambini con i quali sceglie di dialogare si rivelano invece degli interlocutori necessari: non temono di dire cose sbagliate, lasciano affiorare le zone d’ombra di cui gli adulti non vogliono o non possono parlare, danno senso al silenzio. Le permettono così di dar voce anche alla sua angoscia, al suo senso di impotenza e alla sua rabbia.
Cosa pensano i bambini russi dell’Operazione militare speciale contro l’Ucraina? Come vivono una guerra che non può essere chiamata col suo nome ma che incombe sulle loro vite anche se non sono sotto le bombe? Poco dopo l’inizio della guerra Julia Yakovleva ha sentito l’urgenza di cercare risposte a questi interrogativi. Vuole chiedere, ascoltare, trascrivere, lasciare una traccia che sarà utile a chi vorrà riscostruire in futuro la storia difficile di questo tempo.
Il suo libro Orrore, schifo, guerra. L’aggressione all’Ucraina nelle parole dei bambini russi è oggi importante e insolito per diversi motivi: pone al centro il dissenso rispetto alla guerra che circola nella Federazione Russa fin dal momento dell’aggressione militare, mette a fuoco il pensiero di bambini e adolescenti e il loro rapporto col mondo adulto, sviluppa un dialogo tra l’io narrante e l’altro da sé dando all’idea di altro sfaccettature molteplici.
Ed è proprio il dialogo con i ragazzi e le ragazze a mettere in luce l’altra Russia, quella di cui troppo poco i media europei parlano oggi: quella che, in modi diversi, disobbedisce al regime putiniano. Emergono rabbia, angoscia, difficoltà a mettere in parole i pensieri ma anche, in alcuni casi, perplessità. Le perplessità, ad esempio, di alcuni ragazzi che non vogliono schierarsi contro il proprio paese ma si arrovellano in dubbi e interrogativi circa la veridicità delle informazioni e della propaganda diffusa dalle parti in conflitto.
Il dilemma è ancora più drammatico per chi ha padri o fratelli al fronte o nelle mani della polizia. Anche la scrittrice si arrovella e crea un’immagine particolarmente efficace: “Dopo un po’ di tempo mi viene in mente un titolo per denominare questi loro sforzi di comprensione: «Che fare se tua mamma è cannibale?»”. La parola mamma è qui metafora di patria ma la parola patria può essere a sua volta metafora di madre e famiglia, svelando i significati reconditi di questi termini. Ma di cosa si nutrono le madri/patrie?
Nel clima di nazionalismo e bellicismo imperante i ragazzini sono al centro di un rovesciamento dei ruoli che purtroppo ha molti precedenti nel passato e molte analogie nel presente in cui tutti viviamo. Nelle interviste – sempre autorizzate da genitori in gran parte dubbiosi sul fatto che i figli sappiano qualcosa di ciò che accade – spesso ragazzi e ragazze raccomandano alla scrittrice di non riferire niente di quanto dicono alle mamme o si chiedono se dire il proprio nome possa compromettere i genitori: «Ho completamente cancellato i miei account. Vede, ho delle responsabilità, per la mamma, il papà, la nonna, il nonno».
“Mi viene voglia di urlare: quando hai 12 (o 13, o 14, o 15) anni la tua responsabilità è, ad esempio, la scuola, ma non gli adulti della tua famiglia, le autorità del paese o la fine della guerra” scrive con esasperazione l’autrice, sottolineando lo sdegno per un’adultizzazione a cui i giovani troppo spesso sono costretti per far fronte al disagio e ai pericoli dei genitori. È un tema che emerge in molte testimonianze e in vari documenti sulle situazioni di guerra, ma anche negli studi psicoanalitici, quando a volte il figlio viene definito “terapeuta espiatorio” dei genitori.
In Russia la repressione dei dissidenti è vera e forte. Un’altra intervistata racconta alla scrittrice: «Quando mio padre ha detto che avevano arrestato la mamma, mi è salita l’ansia. Temevo che sarebbero venuti a perquisirci a casa, che avrebbero trovato qualcosa di proibito e che ci avrebbero portato all’orfanotrofio». La guerra era iniziata da pochi mesi e l’angoscia della ragazzina sembra profetica.
Un anno dopo, il primo marzo 2023, The Guardian ha raccontato la vicenda di una dodicenne russa interrogata dai servizi di sicurezza per aver fatto a scuola un disegno contro la guerra. Il padre, ritenuto inadeguato all’educazione dei figli, è stato arrestato e la bimba rinchiusa in un orfanotrofio.
Il tema dei bambini che si sono ribellati alla guerra, così come la complessa inclinazione dei figli a proteggere i genitori nelle situazioni di conflitto, sono affrontati nella nota che segue lo scritto di Julia Yakovleva. Durante la Prima guerra mondiale, ad esempio, gli allievi di una scuola elementare vengono processati per disfattismo dal Tribunale Penale di Mantova e condannati il 5 agosto 1918 a pagare multe e spese processuali e a subire una breve detenzione per aver organizzato, nelle vie di un paese della Bassa Mantovana, una manifestazione contro la guerra in orario scolastico.
Nello stesso periodo, sempre con l’accusa di disfattismo, vengono arrestate in diverse parti d’Italia bambine che raccontavano di avere apparizioni in cui la Madonna prevedeva la fine di una guerra che diceva non essere voluta da Dio. Le piccole visionarie attiravano moltissime persone e in alcuni casi sono state condannate a pene superiori ai tre mesi di reclusione.
In questi casi emerge dagli atti processuali che a motivare le forti, anche se diverse, manifestazioni pacifiste era in primo luogo la preoccupazione per i genitori che si trovavano al fronte, il bisogno di proteggerli in qualche modo. La risposta delle istituzioni fu comunque dura e immediata: la madre patria a volte divora anche i suoi figli più giovani.
Un senso di angosciosa ribellione emerge anche in molti discorsi che i ragazzini intervistati scambiano con la scrittrice russa. Spesso la loro rabbia è contro la polizia che reprime il dissenso che i loro genitori esprimono; dai racconti affiora l’immagine di un paese diviso tra una generazione di giovani e giovanissimi contraria alla politica di Putin e molti anziani che invece lo sostengono.
La rabbia spesso si traduce in disobbedienza alle tante raccomandazioni dei genitori, ma l’autrice sa benissimo che i ragazzini hanno una vita segreta, spesso necessaria alla loro crescita: “Ahimè: proibire qualcosa a un adolescente non ha molto senso. Non smetterà di fare ciò che gli è stato proibito. Semplicemente lo farà in modo tale da non farvelo sapere. E lo fa”.
La Russia di Putin, come l’Italia fascista o la Germania nazista, hanno fatto delle scuole vere e proprie “fabbriche dell’amor di patria”, per usare le parole dello storico Antonio Gibelli. Già dalla Prima guerra mondiale i bambini e le bambine “vengono letteralmente arruolati nell’immaginario di guerra (o meglio del tempo di guerra, perché non sempre la guerra è evocata in maniera esplicita)”. In Orrore, schifo, guerra, il racconto di questo arruolamento dei bambini è ampiamente testimoniato.
Il rifiuto di questo dispositivo spesso è radicale nelle parole di molti dei bambini intervistati da Yakovleva: “Odio quando un bambino di tre o quattro anni viene vestito da pilota o militare”. “Cosa c’è che non va in questo?”. “Non è quello che vuole lui!”, si agita l’adolescente; è nell’età in cui il disprezzo della sua opinione lo manda fuori di testa.
In genere, mentre parliamo, a un certo punto mi rendo conto che il bambino sta urlando, contro di me, contro il mondo, contro la vita: “Nessuno è colpevole dell’odio! Io odio i ceceni! I tagiki! Me ne infischio di questi ucraini! Io odio un sacco di gente! Sì! Sono una brutta persona! Ma non vado in giro a gridare: crepate, bestie! Allora sarei un mostro. Non è chi odia a essere colpevole. Sono i mostri a essere colpevoli. Chi concretizza questo odio è colpevole. Queste persone sono dei mostri”.
Con queste parole il ragazzino esplicita la differenza tra l’odio che il pensiero dominante impone e la ‘colpa’ di coloro che diventano “mostri” trasformando questo odio nella morte dell’altro. Una differenza che dovrebbe interrogare la coscienza di tutte e tutti noi. Il tredicenne russo ne sembra lacerato. È un ribelle, un ragazzino oppositivo, incline a trasgredire le regole, a fare il bullo, a provocare compagni e insegnanti. Ma al fondo mostra una consapevolezza del male che apre spiragli di speranza.
Un aspetto che noi adulti sottovalutiamo e che emerge nel corso di questi dialoghi è la profondità delle intuizioni di ragazze e ragazzi e il loro bisogno di andare oltre la cultura delle immagini spettacolarizzate: elementi che mancano sempre più nella società in cui viviamo. Dovrebbero farci riflettere le parole di un’altra adolescente intervistata: «Le foto e i video servono a provocare una reazione in chi guarda, mentre a me interessano di più i meccanismi di quello che accade. Non mi serve una dimostrazione del fatto che in guerra si muore».
Fra i tanti “meccanismi di quello che accade”, forse c’è anche la supponenza di chi trova “etico” allontanare lo sguardo dai dispositivi della società di cui fa parte per centrarlo sulle vittime che essi producono, pensando di riscattare, da una posizione di superiorità, le proprie responsabilità. Un problema che in qualche modo affligge l’Occidente da molti decenni è la difficoltà di intraprendere percorsi di autoconsapevolezza, di dare alle vittime – del nazismo, del fascismo, del colonialismo, del nazionalismo, ad esempio – non solo compassione e qualche volta aiuto, ma verità e giustizia. Ma la presa di coscienza non è possibile se non rovesciando l’ordine del discorso e mettendoci direttamente in gioco nell’analisi dei dispositivi di cui facciamo parte e al cui funzionamento contribuiamo. In che misura siamo distrattamente complici?
L’auspicio è che la ricerca iniziata col libro di Julia Yakovleva prosegua, che qualcuno raccolga con la sua stessa empatia e capacità di mettersi in discussione, prestando ascolto anche alle voci di bambine, bambini e adolescenti che vivono in Ucraina o che da lì sono fuggiti, così come delle donne e degli uomini che soffrono le conseguenze della guerra in corso. Forse in questa guerra, come in quelle che hanno portato alla disgregazione della Jugoslavia, può essere importante anche dar voce a coloro, e non sono pochi, che fanno parte di famiglie miste e sentono – o forse sentivano – una duplice appartenenza, un’idea complessa e multipla di appartenenza e di “patria”, che oggi provoca lacerazioni profonde. Spesso vivono tra noi, ma non hanno la forza né l’opportunità di prendere la parola.
Maria Bacchi si occupa dei rapporti fra infanzia, adolescenza, storia, memoria e narrazione autobiografica. Studia, in particolare, l’elaborazione dei traumi legati alla guerra. Su questo tema, ha curato con N. Roveri per il Mulino, il volume uscito nel 2016 L’età del transito e del conflitto. Bambini e adolescenti tra guerre e dopoguerra: 1939-2015.