Pianificazione e programmazione al tempo del Covid-19
di Massimo Rossi
La pianificazione e la programmazione possono svolgere un ruolo rilevante nel ridurre le disuguaglianze, attraverso l’elaborazione e l’applicazione di adeguate ipotesi – non neutrali ma orientate all’equità – e di strategie che facilitino il passaggio dalla necessità economica fissata dalle leggi del mercato alla volontà degli esseri umani che orienta l’economia, ossia il passaggio dalla libertà astratta di privilegiati gruppi ristretti alla libertà concreta di tutte e tutti.
Le considerazioni che si presentano qui riguardano tre aspetti metodologici e operativi dell’intervento pubblico di pianificazione e di programmazione in Italia nell’anno del Covid-19, da gennaio 2020 a febbraio 2021. Il primo aspetto si riferisce al contesto territoriale e sociale della diffusione del Covid, segnalando come l’intervento pubblico abbia ipotizzato una omogeneità territoriale e sociale che sottovaluta la priorità di identificare destinatari (targeting) della vaccinazione sulla base di parametri di reddito e di densità abitativa. Ad esempio, a Roma l’intervento pubblico mostra di ignorare che i tassi di contagio sono molto alti in quartieri periferici come Torre Angela e molto bassi in zone privilegiate come il centro storico. Il secondo aspetto riguarda la logica dell’intervento del Piano Nazionale Ripresa e Resilienza (PNRR) / Recovery plan che, dotata di attività e obiettivi ma mancante di risultati attesi, connota il PNRR come un “non-piano”. In terzo luogo, l’articolo constata che gli indicatori utilizzati dal Ministero della salute per il monitoraggio delle zone rosse, arancioni e gialle, essendo troppi, generano incertezza operativa e minano, frenandola, l’efficacia dell’intervento.
Per ogni aspetto, si presentano una constatazione e una proposta. Si ritiene che, fino a oggi, nessuna iniziativa governativa abbia migliorato i tre aspetti dell’intervento pubblico qui richiamati.
Un falsa omogeneità territoriale e sociale
La diffusione del Covid nelle città italiane non è stata uniforme, ma è stata più forte nei quartieri periferici, aumentandovi la marginalità. A titolo di esempio, nella città di Roma i più alti tassi di contagio si sono verificati nei quartieri di Torre Angela e del Prenestino, dove l’alta densità abitativa si accompagna a bassi livelli di reddito. All’opposto, i più bassi tassi di contagio si sono verificati nei quartieri, come il centro storico, connotati da una minore densità abitativa e da più alti livelli di reddito. Le priorità di vaccinazione nelle città hanno riguardato solo parametri come l’età (le età più avanzate) e le professioni (medici e infermieri, in seguito i docenti e le forze dell’ordine), nell’ipotesi di una omogeneità territoriale e sociale non esistente, di fatto falsa.
Nel 1976 Marcello Cini esortava a “spingersi oltre fino a esaminare se nel tessuto stesso della scienza – nei suoi contenuti e nei suoi metodi, nella scelta dei problemi da risolvere e nella definizione delle priorità da rispettare, nella stessa formulazione delle sue ipotesi e nella costruzione dei suoi strumenti – non si potessero rintracciare le impronte dei rapporti sociali di produzione capitalistici, nell’ambito dei quali oggi viene prodotta” (Cini 1976, pp.18-19).
A proposito di non neutralità, anche i non credenti possono riflettere su quanto scritto da Alex Zanotelli (2018) sulla rilettura della Bibbia: “Koregocho è stato per me il battesimo dei poveri, sono stati gli stessi impoveriti ad aiutarmi a rileggere la Bibbia, e a farmi scoprire che Dio non è neutrale, ma è un Dio schierato dalla parte degli oppressi, di chi non ha voce ed è senza diritti” (Zanotelli 2018, p. 105).
Così come la scienza non è neutrale, neanche le visioni dello sviluppo sono neutrali. Le metodologie per la pianificazione/programmazione/progettazione e la valutazione non sono neutrali, ma si fondano su scelte, su ipotesi più o meno esplicite. Tra le ipotesi esplicite che si dovrebbero formulare, due riguardano l’assunzione della falsa omogeneità territoriale e sociale come base per l’analisi e l’azione nella lotta contro le disuguaglianze (Rossi 2016).
Il Forum Disuguaglianze e Diversità (Forum DD), tra i “sei progressi da compiere” per rendere incisivo l’attuale piano di ripresa post-Covid, segnala al terzo posto la diminuzione delle “disuguaglianze territoriali”. Tuttavia lo stesso Forum DD, pur includendo le periferie urbane tra le “aree marginalizzate del paese”, non propone come priorità gli interventi di vaccinazione in queste aree. Nell’articolo Come mettere a frutto il Recovery plan di Maria Grazia Petronio e altri, pubblicato su Scienzainrete e ripubblicato su questo Magazine, si fa riferimento alla pianificazione urbanistica e in particolare alla “rigenerazione dei quartieri periferici”.
Una proposta: secondo la prospettiva qui adottata, le priorità di vaccinazione, così come la pianificazione urbanistica, e più in generale la pianificazione e la programmazione nazionale, devono riconoscere la presenza di quartieri densamente popolati e, insieme, a basso livello di reddito, e dare quindi priorità, nell’identificazione dei destinatari prioritari (targeting) a tali quartieri all’interno delle città, per non aumentare, anche dal punto di vista sanitario, le disuguaglianze tra chi vive in zone svantaggiate e chi vive in zone privilegiate.
Una programmazione senza risultati attesi
Nel citato documento del 12 gennaio 2021, il Forum DD scriveva a proposito della bozza del PNRR presentata al Consiglio dei Ministri: “la maggioranza dei progetti è priva dell’indicazione dei “risultati attesi” (in termini dei benefici per la popolazione) o addirittura indica al loro posto le “realizzazioni” (numero di progetti fatti, di imprese incentivate, di aderenti, di infrastrutture completate)”. Riferendosi a tale documento, Fabrizio Barca ha scritto su Domani lo scorso 14 febbraio: “Chiedevamo, poi, che il piano adottasse il “linguaggio dei risultati”. Solo così si può verificare la validità dei progetti proposti”.
Piani con una logica dell’intervento/catena dei risultati in cui il livello dei risultati viene omesso, sono dei “non piani”, usando la definizione che Goffredo Zappa usava per qualificare come “non progetti” i “progetti speciali” della Cassa per il Mezzogiorno (Zappa 1980).
Nel Corso di laurea magistrale di Scienze per la pace, Fulvio Vicenzo e io presentiamo agli studenti e alle studentesse del corso di Progettazione per la cooperazione allo sviluppo una catena dei risultati con tre livelli (oltre i mezzi e le attività): risultati, obiettivo specifico, obiettivi generale/impatto. Una sequenza logica e temporale condivisa dall’Approccio del Quadro Logico, così come dalla Teoria del cambiamento. Appare spontaneo e lecito chiedersi come sia possibile che degli specialisti di programmazione a livello nazionale (o almeno funzionari e consulenti preposti a tale esercizio), possano aver omesso il livello dei risultati ben noto già agli studenti universitari, a Pisa come in altri atenei del paese.
Quanto alla proposta, condivido quella avanzata dal Forum DD che così affermava, a proposito del necessario passaggio da interventi activity oriented a interventi results oriented: “Sappiamo che questo limite [del PNRR], è il frutto di un processo programmatorio che è partito dall’azione e dalla spesa in sé. Ora. questo limite va corretto. Si dovrà fornire, nei casi in cui manca, la specificazione territoriale dei risultati stessi e quindi degli interventi”.
Troppi indicatori aumentano l’incertezza
L’approssimazione metodologica e operativa dell’intervento pubblico, oltre che all’assenza di risultati attesi nella bozza di PNRR, è anche relativa a quell’aspetto essenziale per il monitoraggio costituito dagli indicatori. Un esempio è fornito dalla gestione della pandemia da Covid-19. A proposito dei 21 indicatori utilizzati, è stato osservato: “La divisione del paese in zone rosse, arancioni e gialle è basata su 21 indicatori decisi in aprile dal Ministero della salute. Sono troppi. Nessuna organizzazione può prendere decisioni sulla base di 21 indicatori, per di più con pesi ignoti o variabili”. Così si sono espressi Tito Boeri e Roberto Perotti, lo scorso 11 novembre, in un loro intervento pubblico su la Repubblica.
Troppi indicatori sono fonte di confusione e minano l’efficacia di un intervento, aumentando l’incertezza invece di fornire supporti quantitativi e qualitativi: al loro crescere aumentano le difficoltà in termini di tempo necessario e di qualità nelle fasi di raccolta dei dati, elaborazione, uso per l’apprendimento e il cambiamento durante la gestione, il monitoraggio e la valutazione.
A livello internazionale, l’International Fund for Agricultural Development (IFAD), a proposito di indicatori raccomanda da tempo di utilizzare l’indicazione “less is more”. Il Department for International Development del Regno Unito (DFID) indica, per un progetto, un massimo di tre indicatori per ogni risultato. L’International Federation of Red Cross and Red Crescent Societies, una grande federazione di organizzazioni che operano in campo sanitario e, quindi, particolarmente significativa nel quadro del presente articolo, identifica come prima tra tre traps relative agli indicatori, proprio la selezione di troppi indicatori: “Having long lists of indicators that nobody ever measure. Be realistic! Indicators only need to capture what is necessary for monitoring and evaluation and to be realistic in terms of data collection (IFRC 2010, p. 38).
Una proposta: condivido quella avanzata da Boeri e Perotti che, nell’articolo citato, suggeriscono una drastica riduzione degli indicatori: “Bisogna limitarsi a tre o a quattro indicatori. Come sceglierli? Partendo dai due obiettivi prioritari in questo momento: fermare la pandemia ed evitare il collasso dei servizi sanitari. Gli indicatori che non hanno niente a che vedere con questi due obiettivi vanno eliminati”.
Considerazioni conclusive
La gestione della pandemia da Covid-19, in particolare la divisione del paese in tre zone a rischio e i relativi divieti è stata, ed è ancora, un esempio di pianificazione più che di programmazione. Non a caso l’ex Presidente del Consiglio dei ministri, Giuseppe Conte, nei suoi discorsi già dal febbraio 2020 si riferiva all’intervento pubblico di emergenza sanitaria come a un caso di pianificazione. Il carattere di pianificazione è legato, infatti, alla obbligatorietà delle misure del governo, che ci permettono di riflettere sul legame tra pianificazione e libertà. La pianificazione (e le programmazione e progettazione ad essa collegate) può avere un ruolo rilevante nella diminuzione delle disuguaglianze, attraverso l’elaborazione e l’applicazione di ipotesi e metodi adeguati a questo scopo, tali in ultima analisi di restituire a tutte e tutti una libertà concreta.
A tale proposito, ricordo quanto scriveva Bettelheim: “In generale la congiuntura economica implica che l’economia evolva secondo le sue leggi proprie, in virtù di un determinismo interno, di una necessità. La pianificazione, al contrario, implica che l’economia cessi di essere dominata dalle leggi economiche: essa implica che l’economia sia ormai dominata dalla volontà degli uomini. In breve, essa suppone che la libertà umana si sostituisca alla necessità economica” (Bettelheim 1974).
Questo concetto di libertà concreta (per tutti) e non astratta (per pochi), legato anche alla pianificazione sanitaria in Italia, è stato criticato nel 2020 da vari interventi di neo-liberisti, preoccupati dell’invadenza dell’intervento pubblico e delle regole. Luciano Violante, a tale proposito, scriveva nell’agosto del 2020 su la Repubblica: “I leader che più caratterizzano sé stessi per la predicazione liberale, Trump, Bolsonaro, Johnson, non sembra che abbiano adottato efficaci politiche di contenimento del virus perché ispirati da una radicale diffidenza per le regole”.
Si segnala che, ad oggi, nessuna iniziativa governativa ha migliorato i tre aspetti dell’intervento pubblico che ho messo in luce qui. Le recenti indicazioni del nuovo Presidente del consiglio, Mario Draghi, riguardano, tra l’altro tre priorità: riforma della pubblica amministrazione, fisco, giustizia. Per quanto riguarda la pubblica amministrazione, centrale e locale, sarà essenziale potenziare proprio le sue capacità di programmazione e progettazione. Per non continuare a percorrere gli stessi sentieri di insufficiente attenzione alle disuguaglianze e di approssimazione metodologica relativamente alla definizione dei risultati attesi e della ragionevole riduzione degli indicatori.
Massimo Rossi insegna Progettazione per la cooperazione allo sviluppo nel Corso di Laurea Magistrale in Scienze per la Pace: trasformazione dei conflitti e cooperazione allo sviluppo presso l’Università di Pisa.
Riferimenti bibliografici
Bettelheim Ch. (1974), Problèmes économiques et pratiques de la planification, Maspero, Paris.
Cini, M. (1976) in G. Ciccotti G., M. Cini, M. de Maria, G. Jona-Lasinio (a cura di), L’ape e l’architetto. Paradigmi scientifici e materialismo storico, Feltrinelli, Milano.
IFRC (2010), Project/programme planning. Guidance manual, International Federation of Red Cross and Red Crescent Societies, Geneva.
Rossi, M. (2016), How to identify development beneficiaries for an equitable change? accessibile su www.europabook.eu
Zanotelli, A. (2018), ll battesimo dei poveri, in ’68, “Micromega”, 2.
Zappa, G. (1980), Mezzogiorno e progetti speciali. Criteri di programmazione e intervento straordinario negli anni ‘70 , Officina Edizioni, Roma.