Perché questa cattiveria?
di Pierluigi Consorti
Le immagini dei massacri compiuti negli ultimi giorni in terra Ucraina dovrebbero scuotere le nostre coscienze. Nell’ultimo mese la discussione pubblica si sta svolgendo in termini surreali, polarizzata fra chi domanda di schierarsi contro l’aggressore e a fianco dell’aggredito, e chi nega persino l’evidenza per giustificare le ragioni dell’aggressore.
La logica della guerra sta pericolosamente armando le coscienze personali. Ci si schiera di qua o di là, dalla parte del bene anziché del male, accentuando divisioni politiche, nazionali, etniche, economiche, che renderanno sempre più difficile ristabilire un patto di futura possibile convivenza. Queste divisioni si stanno pericolosamente armando.
Per il momento la guerra si sta consumando in uno spazio apparentemente circoscritto ai soli territori dell’Europa orientale, limitato da confini statali che appaiono però sempre più deboli. Le recinzioni territoriali sono state sfondate dalle persone in fuga e dalla comunicazione globale, che porta nelle nostre case le immagini della violenza della guerra.
Non sono immagini nuove. La cattiveria è parte della guerra. Lo spirito di Caino, che uccide il fratello, è parte dell’umanità. Uccidere, seviziare, torturare, distruggere sono il frutto di istinti che emergono come una vertigine e possono avvolgere e stravolgere.
L’umanità è fragile, debole. Facile preda delle semplificazioni. Il senso di umanità è frutto di cura e di scelte. Si cresce in umanità allenandosi alla gentilezza, alla mitezza, alla nonviolenza, alla bellezza. Senza una cura costante, restiamo preda dei nostri istinti e mostriamo di essere le bestie che in realtà siamo.
I campi di concentramento nazisti hanno messo in luce la banalità del male. Il pensiero concentrazionario è banalmente semplice: ciascuno può decidere che l’altro non è un uomo né una donna. Non un’anziana o una bambina, ma un’ebrea, uno zingaro, un deviato, un’anormale. «Cose semoventi», che possono essere distrutte come si fa per le cose inutili.
Abbiamo fatto tanta esperienza della fine dell’umanità. In forme diverse nella storia è emersa questa banalità del male. Per questo abbiamo gridato «Mai più!», eppure quelle tragedie si sono ripetute nello spazio e nel tempo. Città distrutte, bambini in fuga: ieri Dresda, e poi il Vietnam e poi Aleppo, e ora Mariupol. Esperienze di una cattiveria scientifica, calcolata.
La guerra contemporanea è persino peggiore e più cattiva di quella antica. Non distingue militari e civili e non rispetta le regole del diritto umanitario: si spara sulla Croce Rossa, sugli ospedali, si usano armi vietate, si affamano e assetano le persone. Non si fanno prigionieri: e si si fanno, si trattano come ad Abu Ghraib.
I professionisti della guerra contemporanea non sono nemmeno sempre più gli eserciti nazionali.
La guerra è combattuta da esperti di cattiveria, senza patria; senza identità e senza umanità. Uccidono, affamano, stuprano e poi scappano, si nascondono. Progettiamo armi sofisticate, intelligenti. Lo facciamo perché abbiamo dimenticato Leningrado e Sarajevo. Abbiamo dimenticato Srebrenica. O forse li ricordiamo come esempi di successo, di vittoria. Abbiamo così perso la memoria della cattiveria della guerra. Non abbiamo elaborato il lutto.
Oggi fatichiamo a riconoscere che la responsabilità di tutta questa cattiveria è collettiva, e non solo individuale. È collettiva perché non siamo stati capaci di dichiarare pace alla guerra.
Abbiamo bisogno di pace, ma non abbiamo la dignità di riconoscerci bisognosi di pace. Preferiamo discutere di armi, di resistenza armata, di eserciti all’attacco e in ritirata. La mancanza di gas e di mercato ci spaventa più della cattiveria. I conflitti sono complessi, multilivello, transnazionali; attraversano soldi, benessere, economia mondiale e questa complessità ci fa perdere di vista l’orizzonte. Restiamo così imprigionati dalla logica della guerra e la cattiveria ci indigna, ma non ci meraviglia più.
Non è la prima volta che l’umanità cammina sull’orlo di un precipizio. Ma questa è la nostra volta. Per uscire dalla guerra abbiamo bisogno di pace. E ciascuno e ciascuna può operare per la pace. Non bisogna essere Putin, o Biden, o Draghi, o il papa o il patriarca.
Silenziare la bestia che siamo è un compito di umanità alla portata di ciascuno. È una sfida senza tempo e senza luogo definiti, in quanto ogni tempo e ogni luogo è buono per decidere da che parte stare. Possiamo combattere la guerra e scegliere la pace, oppure fare la guerra. Chi sceglie la seconda opzione, per favore, eviti l’ipocrisia dello scandalo del male. Ritenga pure di essere stato costretto a scegliere il male minore, ma non faccia finta di non sapere che poteva anche scegliere per un bene maggiore.
Pierluigi Consorti è Professore ordinario presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa. Ha diretto il Centro Interdisciplinare Scienze per la Pace. Nel Corso di laurea in Scienze per la pace insegna “Approccio interculturale alla trasformazione dei conflitti”, nei Corsi di giurisprudenza “Diritto e religione” e “Diritto interculturale”. E-mail: pierluigi.consorti@unipi.it