domenica, Dicembre 22, 2024
ConflittiCultura

Parlare di pace in tempo di guerra

di Valentina Bartolucci e Giorgio Gallo

1. Parlare di pace in guerra

Come si può parlare di pace in situazioni di guerra conclamata? Si può fare? Ce lo chiediamo oggi con riferimento all’Ucraina, alla Palestina e alle tante situazioni di crisi troppo spesso dimenticate. Il “buon senso” sembra dirci che non è possibile. Tendiamo così, generalmente, ad aspettare che la guerra finisca (o, meglio, che venga vinta) per poi parlare di come creare le condizioni per garantire la pace, una pace stabile!

Parlare di pace, non di vittoria, oggi non solo è inutile, può essere anche pericoloso. A subirne le conseguenze peggiori sono i pacifisti, in Ucraina, in Israele, in Palestina e non solo. Ma è davvero buono questo “buon senso”? Sembra proprio di no. Esso implica, infatti, lasciare campo libero alla guerra e ai suoi strumenti prediletti, le armi, come unico modo per uscire dalla guerra stessa. Sappiamo bene, tuttavia, che la guerra produce nuova guerra, il che vuol dire che la fine della guerra non è la pace! E troppo spesso, non ne è neppure “il fine”.

Pensiamo alle guerre mondiali del XX secolo. La Prima guerra mondiale produce le condizioni, come aveva anticipato John M. Keynes [1] (1920), che portano al nazismo e a una nuova guerra devastante: la Seconda guerra mondiale «che è stata per molti aspetti una continuazione radicale della prima» (Lukacs, 1989: 165). Con la Seconda guerra mondiale c’è una consapevolezza diversa che porta al Piano Marshall; la sostanza però non cambia dal momento che da essa scaturisce un’altra guerra, fredda per noi, ma molto “calda” per il cosiddetto “terzo mondo”. Come sottolinea lo storico Kimball, «la Seconda Guerra Mondiale fu molto più di un semplice connettore tra la prima e la seconda metà del XX secolo, molto più di un collegamento tra il crollo del vecchio ordine e la creazione di quella combinazione di cinquant’anni di stabilità basata sulla paura e la guerra per procura che noi chiamiamo Guerra Fredda. Si potrebbe sostenere che “la Seconda Guerra Mondiale generò l’inevitabile conflitto sovietico-americano, in quanto due nazioni con sistemi politico-economici completamente diversi si confrontarono su due continenti dilaniati dalla guerra”» (2001: 355) [2].

Lo stesso si può dire degli attacchi dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti d’America che hanno portato a una guerra prima in Afghanistan e due anni dopo in Iraq. Guerre che, all’inizio, sembravano “già vinte”: «I talebani furono sconfitti in appena due mesi alla fine del 2001, e 18 mesi dopo le truppe americane arrivarono nella capitale irachena, Baghdad, in appena tre settimane. La situazione non durò e seguirono numerose altre guerre che uccisero circa 940.000 persone – molte delle quali civili – ne mutilarono a vita altre centinaia di migliaia e sfollarono 38 milioni di persone. Oltre tre milioni di persone sono morte prematuramente a causa degli impatti indiretti delle guerre successive all’11 settembre, che sono costate circa 8mila miliardi di dollari» (Rogers, 2023). Inoltre, la situazione in Iraq e in Libia rimane molto instabile, i gruppi estremisti violenti non hanno cessato affatto di esistere ma sono sempre più ramificati e pervasivi, e i Talebani, tutt’altro che sconfitti, «hanno ripreso il controllo dell’Afghanistan con tutti i mezzi possibili» con conseguenze terribili per quanto riguarda i diritti umani, soprattutto delle donne (Ibid.). Pensiamo infine all’Ucraina e a Israele e alla Palestina oggi. Territori dilaniati da una violenza brutale, teatri di una «terza guerra mondiale a pezzi» [3] con conseguenze drammatiche per l’intera umanità. Il “gioco della guerra”, insomma, fa sì che si continui a “giocare” alla guerra.

2. Pace è… inventare un nuovo gioco

La pace è frequentemente concettualizzata come assenza di guerra. Il latino pax (pace) ha la stessa radice di pactum, il cui significato è accordo o compromesso fatto tra due parti tra loro in contrasto. In effetti la pace è usualmente vista come il risultato di un accordo fra due o più avversari/nemici, un accordo generalmente imposto da chi ha vinto la guerra. L’idea di pace è così collegata a quella di bellum, la guerra. Il suo significato è essenzialmente negativo: la pace corrisponde alla fine di un conflitto armato, ottenibile dopo una vittoria in battaglia oppure firmando un accordo di pace al termine delle ostilità. Una pace “dolorosa” soprattutto per i vinti. Tacito, nell’Agricola, mette in bocca a uno dei capi dei britanni, Calcago, sconfitto dai romani, le parole: «[I romani] rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero; infine, dove fanno il deserto, dicono che è la pace».

Il conflitto in corso in Ucraina, ormai degenerato in guerra aperta, evidenzia come questa ancora sia l’idea di pace a cui più facilmente pensiamo! È quella che tradizionalmente viene definita “pace negativa”. Il punto di partenza è la guerra cioè il conflitto armato/violento. La pace, in questa ottica, si ottiene quando la guerra è superata, con la sconfitta militare di una delle parti, o eventualmente con un accordo fra le parti, anche senza arrivare allo scontro aperto. Questo è ad esempio ciò che è successo dopo le due guerre mondiali del secolo scorso.

Una concettualizzazione di pace di questo tipo non comporta il ripudio della guerra [4]. Eventualmente può comportare dei limiti al suo uso e, in effetti, il diritto internazionale di oggi e le diverse teorie della “guerra giusta” di ieri vanno in questa direzione. «Alla pace, come “fine”, è funzionale la guerra come “mezzo”: le guerre si combattono per ottenere la pace» (cit. in Calore, 2009: 23). Si raggiunge la pace e si fa un accordo con il nemico, meglio dopo averlo vinto. Questo è il paradigma più comune.

La pace, tuttavia, si può “pensare” anche in maniera diversa, vale a dire non come uno stato ma piuttosto come un processo asintotico di “costruzione di”, cioè una tensione verso un orizzonte che possiamo immaginare, ma mai completamente raggiungere, al quale, tuttavia, inesorabilmente tendiamo. Una “pace-utopia” che garantisce pienezza di vita per tutti, partecipazione di tutti alle decisioni importanti, in un senso più vicino allo shalom ebraico che alla pax romana.  Una pace che ha il suo centro in un’idea di società mai definitiva, sempre mutevole. Costruire la “pace-shalom”, infatti, non significa “vincere” la guerra o prevalere sul nemico ma, al contrario, andare al di là della violenza, concentrando attenzione, immaginazione e sforzi concreti sulla nuova società che vorremmo. La pace è allora… “inventare un nuovo gioco”. Un gioco diverso,  che non dipende dal gioco della guerra.

Ma che vuol dire “pace”? Pace vuol dire, riprendendo la poesia di Bertolt Brecht, che a non tutti piace lo stesso gioco, ma non per questo bisogna farci la guerra. Vuol dire libertà di pensiero e di opinione, equa distribuzione delle ricchezze, rispetto delle opinioni degli altri, delle culture altre, delle religioni altre. Tutto questo implica il mettere in discussione le nostre identità, accettando altre identità; vuol dire anche accettare che ciascuno è “ospite” del territorio in cui si trova a vivere e che lo condivide con gli altri. La domanda allora diventa: come inventare quest’altro gioco? Per poterlo fare, bisogna partire da una prospettiva diversa che ha al centro non il “vincere”, sconfiggendo il nemico, ma andare al di là della violenza per costruire una società nuova. È il paradigma della Pace/Shalom (pienezza di vita per tutte e per tutti) che porta alla redenzione/riparazione del mondo (Tikkun in ebraico), compito di ciascuno di noi, per liberare l’umanità e la natura tutta dalla violenza, costruendo così, giorno dopo giorno, la pace (Bartolucci e Gallo, 2022).

Cosa fare però in una situazione come quella che si sta consumando in queste settimane in Israele e Palestina? La priorità è indubbiamente quella di fare cessare l’insensata carneficina di cui siamo testimoni. Ma bisogna anche provare a guardare oltre. Un punto di partenza potrebbe essere quello di concentrarci sulla sofferenza, condizione che accomuna i due popoli, per provare a togliere il terreno sotto i piedi alla violenza. Questo è quello che fanno le donne israeliane e palestinesi dell’associazione Women Wage Peace, che marciano insieme gridando “Basta morti, non vogliamo più vedere morire i nostri figli”.

Tutti noi, anche se viviamo lontano da quella terra martoriata, possiamo e dobbiamo dunque adoperarci per dare voce a chi manifesta gridando “Not in my name!”, così come anche a quei parenti di chi è stato ucciso nell’attacco da parte di Hamas che chiedono che si interrompa l’attacco a Gaza, e a chi, anche nei territori palestinesi occupati, opera in modo nonviolento per la parità dei diritti di tutti.

Ma da studiosi di pace e conflitto possiamo fare qualcosa di più. Dobbiamo adoperarci a trovare vie di “uscita” dal conflitto, dalla situazione di blocco, immaginando “mondi altri”. Nella poesia di Brecht si legge anche: “pace vuol dire/che i disegni degli altri bambini/non sono dei pasticci/che la tua mamma non è solo tutta tua”. Proviamo dunque a metterci in ascolto, a non ritenere le nostre idee superiori a quelle degli altri, a disancorarci dall’idea di possesso della terra, dall’idea di “terra sacra”, e, perché no, dall’idea di Stato nazione (idea peraltro tutto sommato recente). Potremmo cominciare così a immaginare forme diverse di convivenza come quella dello “straniero-residente” (Di Cesare, 2014), o ripensare l’idea di cittadinanza in modo che l’orizzonte di vita di una persona non sia di fatto pre-determinato dalla nascita.

Gli ultimi versi della poesia recitano: “E pace è ancora/ non avere fame/non avere freddo/non avere paura”. Nell’invenzione del nuovo “gioco della pace”, dovremmo anche pensare, seriamente, a una redistribuzione della ricchezza a livello globale che garantisca un assetto economico globale in cui non ci sia chi ha “troppi giocattoli” e chi non ne ha, e in cui la sicurezza di tutti sia garantita. Non sappiamo ancora dove questo processo di immaginazione di “mondi altri” ci porterà. Tutto ciò che possiamo fare ora è individuare una serie di indicazioni di percorso. Dal punto di vista del nostro presente sembreranno impossibili, perché finora non abbiamo conosciuto nessun altro modo di fare. Ma è così che cominciano sempre i progetti di cambiamento più radicali. E la pace è indubbiamente uno di questi. Follia? Utopia? Non ci resta che provare…

I bambini giocano

Bertolt Brecht

I bambini giocano alla guerra.

È raro che giochino alla pace

perché gli adulti

da sempre fanno la guerra,

tu fai “pum” e ridi;

il soldato spara

e un altro uomo

non ride più.

È la guerra.

C’è un altro gioco

da inventare:

far sorridere il mondo,

non farlo piangere.

Pace vuol dire

che non a tutti piace

lo stesso gioco,

che i tuoi giocattoli

piacciono anche agli altri bimbi

che spesso non ne hanno,

perché ne hai troppi tu;

che i disegni degli altri bambini

non sono dei pasticci;

che la tua mamma

non è solo tutta tua;

che tutti i bambini

sono tuoi amici.

E pace è ancora

non avere fame

non avere freddo

non avere paura.

Bibliografia

Bartolucci, Valentina, Giorgio Gallo (2022). “La pace come utopia necessaria”, Scienza e Pace, 13(2): 65-86.

Di Cesare, Donatella. (2014). Israele: Terra, Ritorno, Anarchia. Bollati Boringhieri.

Keynes, John (1920). The Economic Consequences of the Peace. Harcourt, Brace, and Howe.

Kimball, Warren, F. (2001). “The Incredible Shrinking War: The Second World War, Not (Just) the Origins of the Cold War: So what the hell were we fighting for, such a long, long time ago?”, Diplomatic History, 25(3): 347-365.

Lukacs, John. (1989). “The Coming of the Second World War”, Foreign Affairs, 68(4): 165-174.

Montagu, Ashley M.F. (1942), “The Nature of War and the Myth of Nature”, The Scientific Monthly, 54(4): 342-353.

Rogers, Paul. (2023). Paul Rogers: Israel must learn from 9/11 and avoid war with Hamas, openDemocracy, 10 ottobre.

Ruggieri, Giuseppe. (2020). Esistenza Messianica. Rsenberg & Sellier.

Valentina Bartolucci è Ricercatrice aggregata del Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace” dell’Università di Pisa, insegna Sociologia della pace nel Corso di laurea in Scienze per la Pace della stessa università e si occupa di teoria dei conflitti, sicurezza e terrorismo.

Giorgio Gallo è uno dei fondatori del Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace” dell’Università di Pisa, di cui è stato il primo Direttore. Informatico, esperto di modelli e metodi di decision-making in situazioni di conflitto, si interessa da molti anni alla situazione in Palestina.


Note

[1] John M. Keynes era il delegato del Cancelliere dello Scacchiere britannico alla Conferenza per la Pace di Versailles, dimessosi perché contrario a una pace “punitiva” che sarebbe stata secondo lui foriera di nuovi conflitti.

[2] L’autore puntualizza che la Seconda guerra mondiale stimolò, e forse creò, anche notevoli cambiamenti drammatici, sia politici che sociali nelle società di tutto il mondo. Negli Stati Uniti, l’economia nazionale si legò alle spese militari «un’eredità della Seconda Guerra Mondiale che è continuata piuttosto che cominciata durante la Guerra Fredda» (p. 355).

[3] L’espressione è di Papa Francesco ma era stata anticipata con grande realismo nel romanzo “The Third World War” scritto dal generale John Hackett nel 1978.

[4] Tra l’altro la guerra è stata troppo spesso considerata “naturale” e purtroppo lo è ancora. Per una prospettiva completamente diversa rimandiamo a Montagu (1942) che considera la guerra come «la più innaturale, la più artificiale di tutte le attività umane, dal momento che origina da cause artificiali, è condotta da entità altamente artificiali chiamate Stati, per fini artificiali».