giovedì, Dicembre 26, 2024
Cultura

“La lingua è più del sangue”. Attualità delle riflessioni di Klemperer e Kraus (seconda parte)

«Les mots ne sont pas la parole» [Le singole parole non sono la parola], annotava Ionesco sul suo Diario. Che accade quando perdiamo «la parole»? Quando questa – che è sforzo implacabile di riproporre, per meglio comprenderla, la cangiante varietà della vita – è sommersa da «les mots», da un profluvio di parole irrancidite, vilipese, deformate ora in clichés tarlati come la carcassa del cane Bendicò nel Gattopardo, ora in oscurità tanto compiaciute quanto presuntuose? Se è vero che l’uomo è «il vivente dotato di parola» («zoón lógon échon», secondo la nota definizione di Aristotele), allora è lecito affermare che ogni oltraggio inferto alla parola attraverso l’uso di determinate parole sia un oltraggio all’Umano.

Il ‘900 è stato il secolo della morte della parola. Ciò che con sconvolgente lucidità Dostoevskij intuì ne I demoni – l’esistenza di passaggi segreti tra la cultura cosiddetta superiore e il disumano – si manifestò compiutamente nella Germania nazista dove le maggiori conquiste dello spirito – gli atenei, le biblioteche, i musei, le accademie musicali, i laboratori artistici – non solo non riuscirono a porre un argine alla ferocia politica alimentata da parole impazzite, ma se ne fecero addirittura promotori. Fondamentale per la salute di ogni democrazia sarebbe investigare le cause di un simile fenomeno involutivo, cause probabilmente ancora dormienti dentro i nostri cassetti come i bacilli della peste camusiana.

Victor Klemperer e Karl Kraus [nella foto] ci hanno lasciato due testi, rispettivamente La lingua del terzo Reich e La terza notte di Valpurga, che ciascuno di noi dovrebbe leggere come una preghiera del mattino per vaccinarsi contro la quotidiana occupazione della parola da parte di una classe politica e dirigente ormai pericolosamente irresponsabili.

La lingua del Terzo Reich di Victor Klemperer [prima parte]

La terza notte di Valpurga di Karl Kraus 

Uno dei primi scrittori europei a intuire come le parole stessero subendo un assalto micidiale che le avrebbe snaturate, al punto da farne il ricettacolo di menzogne e di barbarie, è stato Franz Kafka con i racconti La metamorfosi (1915) e Nella colonia penale (scritto nel 1914 ma pubblicato nel 1919). Nel primo la trasformazione di Gregor Samsa in «insetto» anticipa con agghiacciante premonizione la morte di milioni di esseri umani: la parola utilizzata da Kafka – «Ungeziefer», «insetto» – è la stessa con la quale i nazisti avrebbero appellato coloro che poi avviarono alla morte nelle camere a gas dei campi di sterminio. Ma è soprattutto Nella colonia penale che l’indagine sull’orrore derivante da un uso corrotto della lingua raggiunge una inquietante chiaroveggenza. L’«erpice», lo strumento di tortura che incide sul corpo del condannato «il comandamento che questi ha violato», non è altro che una pressa tipografica, la medesima con la quale il regime hitleriano da lì a breve, con la connivenza degli organi di stampa abituati già da tempo a svilire le parole in vacuo brusio, avrebbe schiacciato le più elementari libertà prima in Germania e poi nel resto dell’Europa, con un linguaggio infettato di pazzia.

Karl Kraus, nietzschiano «uomo postumo», insieme indefesso «agrimensore» della parola e medico che ne certifica la morte, ne La terza notte di Valpurga (Editori Riuniti, 1996) – un pamphlet monstre contro il nazionalsocialismo scritto nel 1933, ma pubblicato postumo per evitare possibili ritorsioni ai danni di amici citati nel testo – registra in un crescendo d’orrore le scritte che l’«erpice» nazista incide nei cuori e nella mente, complice «un’ipertrofia dei clichés parlati e stampati che hanno portato l’etere e le fabbriche della carta fino al limite massimo delle loro possibilità»: una ipertrofia che «va avanzando come una commozione cerebrale epidemica a cui non si può opporre nulla che abbia ancora un alito di vita». Da qui la tesi, tranciante e spiazzante, secondo la quale «il nazionalsocialismo […] non ha annientato la stampa, è la stampa che ha creato il nazionalsocialismo».

Il ragionamento di Kraus è limpido nei suoi passaggi: quando i giornalisti, che dovrebbero essere i migliori philologi diventano misologi, quando anziché ‘prendersi cura’ (philéin) della parola la spregiano (miséin) al punto o da svuotarla di significato o da pervertirla, ecco che compiono un attentato non di rado mortale contro il Logos, la ‘parola ben ragionata’, ciò che ‘connette’, ‘lega’, ‘tiene insieme’ (questi, e altri ancora, i significati del verbo greco légein) la oratio alla ratio. I tanti lógoi carenti di Logos, le innumerevoli parole prive della Parola presto perdono il loro carattere di metafora e di frusto luogo comune per farsi azione: «è una visione gorgonica quando il sangue fisico comincia a sgorgare dalla crosta della lingua», scrive Kraus. Se questo è il terreno di coltura, può accadere che locuzioni, il cui contenuto originariamente violento, retaggio di remoti tempi barbarici, si è ormai svuotato rivestendosi di un senso soltanto figurato, tornino a essere intese e applicate alla lettera: non ci si stupisca, allora, se un gruppo di nazisti, avendo in mente il modo di dire «spargere il sale sulle ferite», costringe un avversario politico a tenere in un sacco di sale la mano, sulla quale si era provocato un taglio profondo mentre sbucciava le patate («Le grida di dolore del vecchio li divertiva molto»: con questo impareggiabile guizzo termina l’articolo riportato da Kraus).

Se il giornalista, però, smette di essere un «watchdog», un «cane da guardia» della democrazia, può accadere qualcosa di ancora più sconvolgente della mera traduzione in atto di un luogo comune, che questo, cioè, a lungo andare, si trasformi addirittura in Legge (come è noto, «consuetudo facit jus»). Se la parola diviene brutale rumore, se si preferiscono le ovvietà (da ob-vius, ‘ciò che si incontra lungo la via’, senza la fatica di cercare, potremmo aggiungere) ai ragionamenti chiari e rigorosi che richiedono tempo e impegno prima di essere formulati (di una straordinaria complessità, infatti, è la vita), si giunge, dice Kraus, a una generale «ubriacatura» che prima o poi qualcuno chiederà di ratificare in articoli di legge: è in questo oscuro sottobosco disertato dal Logos ma rigoglioso di vacua crudeltà e di nauseabonda retorica, di inflazione verbale e di pacchiane semplificazioni, che maturarono le Leggi di Norimberga in Germania e le Leggi razziali in Italia.

Come se fosse il suo segretario particolare, Kraus, novello Faust, accompagna Mefistofele in una terza Walpurgisnacht, quando sulla cima del monte Broken, nella notte di santa Valpurga appunto, si radunano secondo antiche leggende diavoli e streghe, lamie e spettri per celebrare il sabba, e redige un puntiglioso catalogo di errori lessicali che diventano stupri della logica e, di conserva, sfregi contro la morale.

Lo sgomento, a tutti gli effetti indicibile, provato da Kraus dinanzi all’avvento al potere di Hitler è già riassunto nel folgorante incipit: «Mir fällt zu Hitler nichts ein», «riguardo a Hitler non mi viene in mente nulla» o «non riesco a pensare a qualcosa da dire». «Ci sono mali» continua Kraus «di fronte ai quali […] anche il cervello […] si considera incapace di qualsiasi pensiero. Mi sento come se mi avessero dato un colpo in testa […] di fronte all’instaurazione di una dittatura che oggi oggi possiede tutto tranne la lingua».

Ci piace scorgere in questa affermazione una reminiscenza mitica. Kratos, il Potere, cantano le antiche teogonie, si accompagna sempre a Bia, la Violenza, che è muta, perché mera esecutrice di ordini. Non solo: è proprio grazie all’aiuto di Kratos e di Bia che Zeus riesce a spodestare il padre Kronos e a instaurare, almeno nella prima parte del suo dominio, un regime a tutti gli effetti dispotico, come ricorda il Coro nel Prometeo incatenato di Eschilo. Affermare, allora, che l’hitlerismo possiede tutto tranne la parola significa riconoscere che esso è soltanto bruta oppressione: se avesse la parola ci sarebbe almeno la speranza, se non di abbatterlo, almeno di contrastarlo efficacemente perché la parola è ragionamento e dibattito, dialogo e confronto, concetti che da sempre ogni tirannide ha «a gran dispitto». Le parole ormai, continua Kraus, si sono frantumate in un grido: «coloro che sollecitano ‘una voce’, dovrebbero rendersi conto che essa è destinata a essere voce solo come grido che proviene dal caos soffocante».

Se si considera la abnorme mole letteraria prodotta da Kraus (i trentasette volumi della Fackel, la rivista da lui fondata a Vienna nel 1899 e diretta – e scritta quasi interamente da solo – fino alla morte avvenuta nel 1936) e le innumerevoli esibizioni pubbliche, l’incipit della Terza notte di Valpurga ha dell’incredibile: esso suona come il riconoscimento di un fiasco intellettuale e umano, come una dolente presa di coscienza dell’impossibilità della parola a diradare le tenebre. Cosa resta, allora, se non il «silenzio di tomba», da intendere non come diserzione o rinuncia alla propria vocazione, bensì quale «vendetta più efficace»? Qui Kraus, sulle orme di Kafka (per tutti valga il racconto Il silenzio delle sirene), anticipa un problema – quello del dire l’indicibile – che sarà poi affrontato in termini radicali dalla filosofia e dalla poesia dopo la Shoah: da Theodor W. Adorno, Paul Celan, Nelly Sachs, Primo Levi, per limitarsi soltanto ad alcuni nomi. Con raccapriccio egli si rende conto che incolmabile è ormai «la distanza che separa la lingua tedesca dalla lingua dei tedeschi, il popolo dei poeti dai poeti stessi». Eppure, continua il Nostro, vi è qualcosa di peggiore della profanazione della parola, già di per sé delittuosa: la profanazione della parola unita alle formidabili conquiste raggiunte dalla scienza e dalla tecnica, una perversa sincronia che appena nove anni dopo avrebbe raggiunto la propria acme nella Conferenza di Wannsee, in cui sarebbe stata decisa e pianificata «la soluzione finale del problema ebraico».

Eppure non si può non registrare questo paradosso: Kraus confessa di non aver nulla da dire su Hitler eppure scrive un testo – che ha la veemenza di una catilinaria, la verve di una satira menippea e il rigore del grande reportage – di centinaia di pagine. Forse emerge qui la radice ebraica di Kraus. A fronte della irreversibile perdita della Heimat (patria, luogo natìo) e dell’impossibilità di un ritorno a essa, non resta altro che la parola sia pure sotto forma di monologo o di soliloquio, una parola di cui prendersi cura, da proteggere, da coltivare a oltranza come se non vi fosse altra cosa da fare al mondo. Kraus avrebbe senz’altro condiviso i versi della splendida poesia Parole di Umberto Saba: «Parole, / dove il cuore dell’uomo si specchiava / – nudo e sospeso – alle origini; un angolo / cerco nel mondo, l’oasi propizia / a detergere voi con il mio pianto / dalla menzogna che vi acceca. Insieme / delle memorie spaventose il cumulo / si scioglierebbe, come neve al sole».

Anche se si registra un senso si sconsolata impotenza dinanzi alla «putrida magia teatrale» e alla «sozza stupidità» del nazionalsocialismo, una via d’uscita, ammonisce Kraus, esiste: «[…] se si conquista la lingua, anche il fenomeno Hitler non è in grado di privare questa del pensiero». Un ammonimento, aggiungiamo, di validità perenne, da opporre non soltanto ai futuri Hitler che la Storia potrebbe secernere, ma anche ai comuni guitti del linguaggio (i «disertissimi homines» di cui parla Cicerone) che quotidianamente danno osceno spettacolo nelle nostre democrazie. «Parlare male fa male all’anima» scrive Platone nel Fedone. E gli effetti della misologia sono sotto i nostri occhi: parole un tempo sacre, come ‘straniero’ o ‘profugo’, sono ora aggredite, falsificate, corrotte, intese come una minaccia alla Nazione o meglio al concetto poliziesco che alcune forze politiche, in Italia e in Europa, hanno della parola ‘nazione’. Ma anche qui Kraus potrebbe dire la sua: «Il nazionalismo, che mai è stato un conforto spirituale, insegna davvero oggi alla nazione come diventar scemi a forza di danni; e quello che le lascia in eredità è l’irreparabile inversione di ogni tipo di salvezza proclamata».

Andrea Panzavolta è giornalista pubblicista. Collabora alla rubrica “Film in discussione” di Iride. Filosofia e discussione pubblica, e ad alcune riviste di critica cinematografica. Dal 2014 è il direttore artistico della rassegna concertistica forlivese “Passioni in musica”.