lunedì, Dicembre 30, 2024
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Liberare la mascolinità dagli stereotipi: intervista al foto-artista Dario Mannucci

Le rappresentazioni mediatiche della mascolinità tendono a oscillare tra due poli: da un lato i “bravi ragazzi” un po’ ingenui che necessitano la guida di donne più scaltre; dall’altro i “macho men” che ostentano una virilità esagerata e appariscente. Entrambe le rappresentazioni ruotano su un’idea “tossica”, estremamente semplificata, di mascolinità. La propensione a classificare e dividere il continuum delle identità e delle espressioni di genere dentro categorie binarie fa fatica a conciliarsi con le infinite sfumature intrinseche a un ambito così fluido. La fotografia può fornire una via d’uscita da questi schematismi, aiutandoci a sviluppare un approccio più ampio, costruttivo e inclusivo capace di dare risalto anche ad altri tipi di mascolinità. Per avvicinarci a questi concetti, abbiamo intervistato Dario Mannucci a proposito del suo progetto fotografico “The Clearing” ed esposto recentemente nella mostra “SuperNatural”, curata da Irene Alison e Paolo Cagnacci, presso la Galleria “Rifugio Digitale” a Firenze. In questo progetto l’autore sfida le rappresentazioni prevalenti e utilizza la fotografia per indirizzare il nostro sguardo su un’idea di mascolinità più complessa e inclusiva, a partire dal riconoscimento della tenerezza e della vulnerabilità come elementi di un “nuovo maschile” emancipato dagli stereotipi.

Le rappresentazioni mediatiche della mascolinità tendono a oscillare tra due poli: da un lato i “bravi ragazzi”, un po’ ingenui che necessitano di un “salvataggio” da parte di donne più scaltre, dall’altro i “macho men”, che ostentano una virilità esagerata e appariscente. Entrambe le rappresentazioni ruotano attorno a un’idea di mascolinità “tossica”. Perché è così difficile rappresentare l’uomo con altre sfumature?

Negli ultimi anni i temi legati alle complessità del mondo maschile, alla crisi della mascolinità tradizionale e alla mascolinità tossica hanno avuto una grande diffusione e sono stati molto dibattuti, non solo a livello accademico ma anche nella cultura di massa. Che se ne parli è già di per sé un fatto positivo; tuttavia, l’approccio con cui ci poniamo di fronte a questi aspetti spesso è limitante e inadeguato. La nostra propensione a classificare e dividere in categorie binarie fa fatica a conciliarsi con le infinite sfumature intrinseche a questo ambito così fluido. In questo senso la fotografia può essere la chiave per aiutarci a sviluppare un approccio più ampio, costruttivo e inclusivo.

Nella fotografia contemporanea assistiamo a una sempre crescente rappresentazione delle molteplici espressioni della mascolinità. Lo spettro delle possibilità si è allargato, mettendo in crisi gli estremi etero-normativi che pretendono di ridurre l’uomo a un’unica modalità. Tuttavia, persistono ancora oggi una serie di stereotipi, che affondano le proprie radici nell’influenza sociale e culturale. Siamo impregnati di patriarcato. La cultura patriarcale è talmente radicata all’interno dei nostri meccanismi mentali da rendere ogni progresso verso una concezione più ampia di mascolinità estremamente lento e difficoltoso. Penso che ci sia anche un aspetto più personale e intimo. Rappresentare le altre sfumature richiede una consapevolezza non solo della vulnerabilità altrui ma anche, e prima di tutto, della propria vulnerabilità, che invece è proprio ciò che molti di noi uomini tendono a tenere nascosto, spesso inconsciamente. Invertire lo sguardo dall’esterno (la società) all’interno (la nostra “anima”) potrebbe essere il primo passo che permetterebbe a ogni uomo di migliorare non solo la propria condizione, ma anche quella di chi gli sta accanto.

Da cosa è originata l’idea di concentrare lo sguardo su un’idea diversa di mascolinità, la “mascolinità tenera”? Come è riuscito a rappresentare fotograficamente una vulnerabilità emotiva maschile rendendola un segno di forza?

Il tema del progetto è nato dalla convergenza tra diverse esperienze e interessi personali e la ricerca della mia propria visione fotografica, ricerca che ha consentito di tradurre un concetto astratto in linguaggio fotografico. Personalmente faccio fatica a immaginare un soggetto più potente della vulnerabilità maschile: è una “fucilata al cuore” di assunzioni e stereotipi consolidati in millenni di storia del genere umano. Il mio contributo si limita al tentativo di fornire, tramite il mio sguardo, una visione autentica che possa semplicemente preservare la forza del soggetto. Quando scatto fotografie ricerco la morbidezza e la delicatezza, del corpo come della luce che lo rivela. Sfrutto la luce del crepuscolo, che crea sfumature di luce e ombra delicate sulla pelle e che ha sempre qualcosa di magico da aggiungere. Mi concentro sull’essenziale, tralasciando volentieri il superfluo. Anche un’immagine fuori fuoco dai contorni sfumati può essere più significativa di una ricca di dettagli realistici.

Nella sua ultima mostra, all’interno del ciclo espositivo “SuperNatural” esposto presso il Rifugio Digitale a Firenze, il filo conduttore è una rappresentazione di mascolinità inserita in un contesto naturale, nel tentativo di indagare la complessa posizione che l’essere umano occupa nel pianeta. Perché questa scelta?

Tutto il progetto è basato su una narrazione che prevede il dialogo tra ritratti e paesaggi naturali. La natura rappresenta il tentativo di riconnettersi con l’essenza primordiale delle cose, alla purezza del mondo e del genere umano. Uno “stato ideale” in cui poter riscoprire la nostra vera essenza, spogliata di tutti gli strati culturali sedimentati sulla nostra pelle nel corso dei millenni. Spesso i corpi sono ritratti come fossero essi stessi paesaggi o elementi naturali, come una roccia, un corso d’acqua, un soffio di vento. Talvolta è la natura a mostrare sembianze umane. Cosa siamo “veramente”, è questa la domanda fondamentale. È un’indagine interiore più che esteriore. È un invito a guardare dentro noi stessi.

Cosa ha guidato la sua scelta dei soggetti da rappresentare? Ha avuto difficoltà a trovare adesioni? Come è riuscito a rappresentare efficacemente una mascolinità vulnerabile al di fuori degli stereotipi prevalenti? I soggetti rappresentati hanno mostrato in certi casi resistenza?

L’unico criterio è stato quello di provare a essere il più inclusivo possibile, cercando di coinvolgere uomini di diverse età, fisicità, provenienze. Complessivamente ho riscontrato più apertura e disponibilità di quanto mi potessi aspettare, anche considerando il fatto che le persone fotografate non sono modelli professionisti e spesso non avevano alle spalle un’esperienza di questo tipo. La chiave per sbloccare le resistenze iniziali è stata lo stabilire una relazione autentica, una connessione genuina. La valorizzazione dell’aspetto umano, affinché l’esperienza potesse essere gratificante per entrambi. La fotografia non è soltanto l’immagine finale, ma il risultato di un lavoro molto più ampio che in buona parte è di tipo mentale e relazionale.

Una delle sue opere esposte nella mostra “SuperNatural” ritrae un bambino. Qual è il messaggio di questa opera?

Alcune delle riflessioni alla base del progetto sono legate all’aspetto intergenerazionale del patriarcato, alle ferite che da millenni continuiamo a trasmetterci di padre in figlio e ai diversi modi di interpretare la mascolinità da parte delle nuove generazioni. Queste considerazioni hanno influenzato la scelta dei soggetti e delle immagini da realizzare, suggerendo di ritrarre uomini di diverse età. Il progetto è concepito per suscitare una riflessione interiore e incoraggiare gli spettatori a mettere in discussione le proprie convinzioni, in particolare su ciò che realmente definisce la nostra identità di uomini. Questo è il messaggio delle mie opere, che non hanno l’obiettivo di fornire risposte ma solo quello di stimolare una ricerca interiore.

Nella sua esperienza, c’è ancora un tabù legato alla rappresentazione del nudo al di fuori dei canoni prevalenti?

Non credo che sia tanto una questione di nudo al di fuori dei canoni prevalenti, quanto di nudo maschile in generale, che storicamente è sempre stato più difficile da accettare, anche quando in chiave artistica e senza scopo di provocazione. È un dato, ad esempio, che le fotografie di nudo maschile vendano meno e trovino minore diffusione nelle gallerie e nei musei rispetto al nudo femminile. Anche in questo caso c’entrano molto il patriarcato e il privilegio maschile. Dall’invenzione della fotografia in poi, l’accesso a questa forma d’arte è stato prevalentemente monopolizzato dagli uomini, i quali hanno spesso ritratto donne per un pubblico di uomini attraverso il loro “male gaze“. Nonostante la fotografia sia diventata oggi più democratica, con un coinvolgimento crescente delle donne nella narrazione del proprio corpo e della propria femminilità, l’influenza di certi bias culturali non sembra ancora pienamente superata.

Che cosa ti ha lasciato questo progetto? Cosa rappresenta nel tuo percorso personale e artistico?

C’è una bellissima frase di Marguerite Yourcenar che dice: “Niente è più lento della vera nascita di un uomo”. Posso sicuramente dire che questi primi anni di lavoro a “The Clearing” [traducibile anche come “la radura” in un bosco, ndr] per me sono stati anni di vera nascita. Ho imparato il potere della vulnerabilità, e quanto questa sia in grado di creare una connessione profonda e autentica con gli altri, che a loro volta è alla base del nostro benessere in quanto siamo animali sociali programmati per essere interconnessi. Al tempo stesso so quanto sia difficile praticarla, e di quanto sforzo di consapevolezza serva per contrastare meccanismi inconsci che a volte ci guidano alla chiusura, alla competizione, alla violenza. “The Clearing” è, per me, l’incarnazione del senso di scopo e direzione, che è uno dei principali elementi che definiscono la mia identità di uomo.

Intervista a cura di Valentina Bartolucci, chiusa in redazione l’8 gennaio 2023.