Le “grandi dimissioni” contro la cultura tossica del lavoro
In Italia quasi mezzo milione di lavoratori e lavoratrici si è dimesso nel secondo trimestre del 2021 e il tasso di soddisfazione di chi lavora è tra i più bassi al mondo, collocandosi al 5%. Si tratta di un fenomeno globale: negli Stati Uniti, in seguito alla pandemia e alle crescenti pressioni sul posto di lavoro, è venuta a crearsi una cultura anti-lavorativa, che evidenzia le criticità dell’attuale modello produttivo. Questo articolo, pubblicato da Valigia Blu, ricostruisce le attività di un gruppo Reddit chiamato r/antiwork: un collettivo che promuove una vita liberata dal lavoro dipendente e sfruttato, e che offre uno spazio di discussione virtuale a lavoratori e lavoratrici che lasciano il posto di lavoro dopo anni di soprusi, violazioni di diritti e inaccettabili compressioni della propria vita privata. Il tutto a fronte di redditi bassi, che non consentono di pagare casa, istruzione e cure sanitarie. Questo fenomeno di “grandi dimissioni” va interpretato come una vera e propria lotta politica condotta da lavoratori e lavoratrici di diversa estrazione, età, settore, identificazione razziale e di genere, che cercano nuovi strumenti collettivi per rovesciare rapporti di forza oggi sfavorevoli.
di Francesca Coin
Le grandi banche d’investimento e gli economisti mainstream sono terrorizzati dal diffondersi della cultura anti-lavorista negli Stati Uniti. Ce lo dice la banca d’investimento Goldman Sachs che in un rapporto titolato Why isn’t the labour force recovering? si chiede come mai la partecipazione alla forza-lavoro non sia tornata ai livelli pre-pandemici. Per Goldman Sachs, il problema è il ritorno del rifiuto del lavoro: la cultura che guida le Grandi Dimissioni, il fenomeno che negli Stati Uniti ha portato circa 24 milioni di persone a lasciare il proprio lavoro nei primi tre trimestri del 2021. Lo indica il successo di r/antiwork su Reddit: un forum che nell’ultimo anno è cresciuto da 100 mila a circa 1.2 milioni di iscritti e il cui obiettivo è abolire il lavoro.
Come scrive Goldman Sachs:
“Un ultimo rischio a lungo termine per la partecipazione della forza lavoro è che le preferenze e gli stili di vita di alcuni lavoratori possano essere cambiati dopo un anno e mezzo di pandemia. Il modo migliore per misurare questo cambiamento è attraverso i social media. La bacheca r/antiwork di Reddit – che incoraggia gli individui a “ottenere il massimo da una vita senza lavoro” – è aumentata in popolarità questo autunno ed è ora anche più popolare della bacheca r/Wallstreetbets che ha guidato un’impennata nell’attività di trading al dettaglio all’inizio di quest’anno. Di conseguenza, vediamo un certo rischio che alcuni lavoratori scelgano di rimanere fuori dalla forza lavoro più a lungo, se possano permettersi di farlo”.
La bacheca r/antiwork di Reddit è dichiaratamente antilavorista. Come scrive un post rappresentativo, “il subreddit è antiwork, non reformwork. Non siamo liberali, un’ideologia capitalista. Siamo di sinistra, anticapitalisti, e vogliamo abolire tutto il lavoro”.
Al suo interno troviamo storie di vario tipo. “C’è il lavoratore che si licenzia dicendo al capo “vai a farti fottere” dopo essere stato pressato a lavorare mentre piangeva la morte di un genitore”, dice Doreen Ford, fondatrice e moderatrice del forum. “Un altro che decide di dimettersi piuttosto che rinunciare a trascorrere la festa del Ringraziamento con la sua famiglia”. Di fatto, r/antiwork è un forum in cui “le persone si incoraggiano a prendere posizione insieme contro lo sfruttamento del lavoro e si danno la fiducia e gli strumenti per farlo”.
Negli ultimi mesi, r/antiwork si è trasformato in uno spazio di organizzazione virtuale in cui discutere di scioperi, dimissioni, rifiuto del lavoro e sindacalizzazione. Su r/antiwork le storie di sovraccarico, burnout e esasperazione trovano solidarietà, condivisione e nuove strategie. È questo che inquieta Goldman Sachs. Per Goldman Sachs, r/antiwork è un problema simile a r/WallStreetBets, il movimento di resistenza finanziaria esploso a inizio anno. Un po’ come è accaduto allora, su r/antiwork la discussione è cresciuta continuamente, sino a innescare il più caldo autunno degli ultimi quarant’anni.
“Ho lavorato 90 ore a settimana, distrutto il mio matrimonio, non ho potuto veder crescere i miei figli ma hey abbiamo creato un prodotto importante”, ha scritto Kat Cosgrove su Twitter. “Ah bene, ma almeno sei ricca adesso” “Oh no no no no, ma sono felice di aver reso ricche altre persone”.
Storie come quella di Kat Cosgrove ben rappresentano il cuore delle discussioni di r/antiwork, che iniziano sempre dalle esperienze personali per creare convergenze o riflessioni collettive. Come la storia di un utente che ha assistito la moglie malata di cancro per cinque mesi, spendendo tutti i propri risparmi di 20 anni perché si potesse curare, nonostante entrambi avessero un ottimo lavoro e un titolo di studio nei migliori college americani, per rendersi conto alla fine che, anche se fai tutto secondo le regole, questo sistema ti divora, ti prosciuga e di sbatte sulla strada.
Di fatto, r/antiwork parla di lavoratrici e lavoratori che lasciano il lavoro dopo essere stati sfruttati in modo cinico per anni. Racconta l’impatto dannoso che un lavoro dequalificato, sottopagato, precario, afflitto da continui tagli al personale, da un carico di lavoro troppo elevato e da una cultura tossica ha sulla salute e sulle relazioni. Parla di salari aumentati del 5% in 40 anni, mentre i profitti aziendali si sono centuplicati. Si sofferma anche su come il luogo di lavoro sia diventato un luogo di abusi e di mobbing, in cui qualunque richiesta della direzione viene considerata legittima, mentre non è mai il contrario.
Direzione: “Il tuo salario non sarà buono all’inizio, va bene per te?”
Lavoratrice: “La mia performance non sarà buona all’inizio, va bene per te?”
“È senza senso che i datori di lavoro ti chiedano lettere di referenze. Perché non mi dai tu tre referenze! Fammi chiamare i tuoi vecchi lavoratori e vedere se li hai trattati bene o di merda, poi ne parliamo!”
In generale, le storie che troviamo su r/antiwork parlano di una trasformazione radicale nella cultura del lavoro, in cui emerge una combattiva sfiducia per la possibilità di riformare il lavoro contemporaneo. Se negli anni Settanta era possibile lavorare un certo numero di ore per comprarsi una casa, oggi bisogna avere un certo numero di impieghi per pagare l’affitto. Il problema non è solo che i salari sono scesi, mentre il costo della vita è aumentato, ma il modo in cui la cultura tossica del lavoro ha lacerato l’esistenza e deteriorato la salute di milioni di persone. Come scrive un utente, “antiwork non significa vivere come un re e mangiare patatine mentre gli altri lavorano duramente. Significa che sarebbe bello non essere costretto con la violenza a fare un lavoro che mi fa male e produce microtraumi che mi renderanno disabile a 60 anni”.
È questa grande disillusione che fa da sotto-testo culturale alle Grandi Dimissioni, trasformando un processo individuale in un fenomeno collettivo teso a rinegoziare il confine tra ciò che è lecito e ciò che non è più accettabile. Non è più accettabile lavorare 60 ore a settimana e non riuscire a pagare l’affitto. Non è accettabile che i salari scendano mentre i profitti aumentano continuamente. Non è accettabile lavorare a tempo pieno e non potersi permettere una casa, l’istruzione o le cure sanitarie. Non è accettabile passare più tempo a lavoro che in famiglia, nel traffico che con i figli. Non è accettabile che ci si debba sacrificare così tanto per un lavoro che spesso non permette nemmeno la sopravvivenza.
È esattamente la natura politica di questa consapevolezza che inquieta Goldman Sachs. Il report di Goldman Sachs nasce dalla necessità di rivedere al ribasso le stime dei tassi di partecipazione al mercato del lavoro per i prossimi mesi. Nonostante l’aspettativa che, “dopo” la pandemia, l’economia sarebbe ripartita senza titubanze, da mesi gli Stati Uniti fanno i conti con una carenza di manodopera che non sembra rientrare. “Incredibilmente” – che meraviglia lo stupore degli economisti mainstream -, non basta un’offerta di lavoro per creare una domanda. Non bastano 10 milioni di posti di lavoro disponibili per indurre gli 8,4 milioni di disoccupati esistenti ad accettarlo. Non è un caso che, nonostante l’offerta, circa 5 milioni di lavoratori non siano rientrati a lavoro e che 3,4 non rientreranno più.
Come afferma il report di Goldman Sachs:
“La maggior parte dei 5,0 milioni di persone che sono usciti dalla forza lavoro dall’inizio della pandemia ha più di 55 anni (3,4 milioni), riflettendo in gran parte i pre-pensionamenti (1,5 milioni) che probabilmente non si invertiranno. Le prospettive per le persone più giovani che sono uscite dalla forza lavoro (1,7 milioni) sono più positive, poiché pochissimi sono scoraggiati e la maggior parte considera ancora le loro uscite come temporanee”.
Secondo la banca d’investimento, le cause di questa astensione sono molteplici. Sebbene le analisi di inizio pandemia suggerissero che la necessità di prendersi cura dei figli fosse una delle cause principali dell’abbandono del lavoro, questa causa è, ora, secondo la banca, meno vincolante. Egualmente meno vincolante è, sempre per la banca d’investimento, l’influenza delle preoccupazioni per il rischio sanitario, né a lungo potrà durare la capacità dei sussidi ricevuti durante la pandemia di fungere da disincentivo al lavoro. Per la banca d’investimento, il vero rischio a lungo termine è dato dalla possibilità “che le preferenze e gli stili di vita di alcuni lavoratori possano essere cambiati”. È la cultura antilavorista di questa trasformazione ciò che inquieta Goldman Sachs: il timore che piattaforme in cui convogliare la rabbia precaria incoraggino gli individui a “ottenere il massimo da una vita senza lavoro”.
In questo senso le analisi sulle Grandi Dimissioni vanno un po’ cambiate. Gli analisti negli ultimi mesi hanno tentato di minimizzare ciò che stava accadendo e hanno descritto le grandi dimissioni come una questione individuale, una forma di job hopping o un fenomeno pro-ciclico che avviene ogni qualvolta il mercato del lavoro torna a essere dinamico. La realtà è che le grandi dimissioni negli USA sono un fenomeno politico: una delle molteplici forme di lotta con cui lavoratrici e lavoratori di diversa estrazione, età, settore, identificazione razziale e di genere hanno cercato collettivamente nuovi strumenti per rovesciare i rapporti di forza.
Non a caso questo movimento è cresciuto parallelamente a una nuova ondata di scioperi.
Un po’ come avveniva nell’Ottocento, quando Paul Lafargue scriveva Il diritto all’ozio, il rifiuto del lavoro si intreccia alle ondate di scioperi e di nuova sindacalizzazione. Per certi versi, il rifiuto del lavoro è una cartina tornasole della resistenza allo sfruttamento che caratterizza il lavoro. In un’epoca nata professando l’amore per il lavoro come strumento di realizzazione personale, questa trasformazione culturale riflette un’abissale disillusione. In questo contesto, il rifiuto del lavoro scandisce la fine delle illusioni neoliberali e l’entrata in scena di gruppi di lavoratori che decidono di dimettersi in blocco perché non sanno più se pagare l’affitto o andare al supermercato, visto che non possono permettersi entrambe le cose.
È il caso di un negozio di Rochester, Minnesota, della catena Hot Topic, in cui i tutti lavoratori hanno deciso di andarsene lasciando all’ingresso questa nota:
“Quasi tutto lo staff di questo negozio se n’è andato perché Hot Topic non supporta né paga un salario minimo. Non possiamo mantenere noi stessi né le nostre famiglie. Abbiamo lavorato duro e non possiamo farlo più. Non si retribuisce il lavoro con la passione. Ci scusiamo per il disagio”.
Questa non è l’unica circostanza in cui i lavoratori si sono dimessi in blocco.
È successo in un Burger King di Lincoln, nel Nebraska, in cui i lavoratori hanno deciso di andarsene tutti, lasciando un cartello all’esterno del ristorante che diceva: “Ci dimettiamo tutti. Ci scusiamo per il disagio”.
Lo stesso è accaduto in diversi ristoranti McDonald’s e Taco Bells, dove egualmente i lavoratori sono usciti contemporaneamente dal luogo di lavoro per non tornare, augurando al loro capo buona fortuna a trovare persone disposte a essere sottopagate.
Mike Elk, uno dei migliori giornalisti del lavoro negli Stati Uniti, ha contato più di 1.670 casi come questi dall’inizio della pandemia. Si tratta, in alcuni casi, di scioperi piccoli, spontanei e indetti da una manciata di lavoratori senza il supporto del sindacato, in cui, a tutti gli effetti, le dimissioni di massa si sono trasformate in uno sciopero spontaneo.
Per Mike Elk, la stampa statunitense ha a lungo dimenticato questi scioperi, che hanno iniziato a ricevere attenzione solo quando 10.000 lavoratori di John Deere – in gran parte bianchi – hanno scioperato in Iowa, Illinois e Kansas, oscurando gli scioperi spontanei di lavoratrici e lavoratori ner@ e latin@. Nonostante la scarsa attenzione da parte della stampa, l’immagine che arriva dagli Stati Uniti parla di un autunno caldo in cui scioperi e dimissioni, sindacalizzazione e rifiuto del lavoro convivono e talvolta convergono.
È così che il mese di ottobre è stato definito Striketober, il mese in cui più di 100.000 lavoratori hanno deciso di scioperare. I settori coinvolti sono molteplici e vanno dai 10 mila dipendenti della John Deere, produttore di macchinari agricoli che dopo trent’anni hanno deciso di scioperare per sette settimane di fila rifiutando ben due accordi con l’azienda sino a ottenere, tra le altre cose, un aumento salariale del 20%. Ai 60 mila filmakers che chiedono migliori retribuzioni e condizioni di lavoro meno pericolose a Hollywood, seguiti dai 1.400 lavoratori che hanno iniziato a scioperare a Kellogg’s il 4 ottobre, per continuare con i minatori dell’Alabama, in sciopero dopo 40 anni da ben 8 mesi, sino alle 20 mila infermiere in sciopero in California, agli studenti e ai lavoratori precari di università come Columbia e Harvard, per continuare con il difficile e controverso sforzo di sindacalizzazione dei lavoratori di Amazon a Staten Island, dove i lavoratori chiedono, tra le altre cose, il diritto di fare pipì. Gli scioperi sono continuati anche a novembre, coinvolgendo i settori più diversi: dal personale delle pulizie dell’aeroporto internazionale di Denver, che ha ottenuto un aumento salariale definito “storico” di 4 dollari all’ora, sino alla campagna internazionale Make Amazon Pay, passando per i processi di sindacalizzazione a Starbucks e HelloFresh. Non è un caso che il tasso di approvazione dei sindacati sia cresciuto sino al 68% nel 2021, un livello mai raggiunto negli ultimi cinquant’anni, a ricordare che la diseguaglianza è diventata talmente manifesta che non c’è più modo di occultarla, di ignorarla né di accettarla.
In questo senso, ha ragione Jon Herrman quando scrive sul New York Times che le Grandi Dimissioni indicano “un cambiamento sismico nelle attitudini che le persone hanno verso il lavoro”. Abbiamo sempre pensato che il lavoro fosse così poco tutelato che bisognava tenerselo stretto perché non c’erano alternative. Ma quanto sta avvenendo rivela un ragionamento di matrice opposta, perché quando le condizioni di lavoro si deteriorano in modo così ineludibile, bisogna chiedersi cosa si perde realmente a lasciare andare un lavoro di merda. Pensiamo al caso dei call centers di Taranto, in cui il lavoro veniva pagato 0.33 centesimi all’ora. È davvero sensato chiedersi come si fa a vivere senza un lavoro così, o ha più senso chiederci come si fa a vivere con un lavoro così?
Di fatto, le Grandi Dimissioni sono il sintomo di una grande “resa dei conti” da parte dei lavoratori, in cui ciascuno soppesa i costi e i benefici del proprio lavoro. L’esito di questa resa dei conti non è univoco: non è detto che tutti coloro che lavorano in condizioni insostenibili possano andarsene né che l’assenza di scioperi o dimissioni rifletta un mondo del lavoro pacificato. Di fatto, in assenza di tutele e cuscinetti sociali come un’indennità di disoccupazione (spesso non accessibile a chi si dimette volontariamente), un reddito di base incondizionato o anche di un tasso di disoccupazione contenuto, dire di no non è sempre possibile, anche quando sarebbe necessario. Questo non significa, dunque, che ci si possa dimettere in massa ogni volta che le cose vanno male, né che vadano bene quando questo non accade. Significa, purtroppo, che le sofferenze quotidiane che vengono liberamente condivise solo quando le persone decidono di andarsene vivono, spesso, nel silenzio. In questo senso, parlare di grandi dimissioni significa anche interrogarsi sulle condizioni che consentono, o meno, di sottrarsi a un lavoro vessatorio e di intercettare il malessere del lavoro prima ancora che questo prenda un’espressione politica.
In questo, l’esperienza statunitense è utile per l’Italia.
In Italia, infatti, mezzo milione di lavoratori si è dimesso nel secondo trimestre del 2021. Il tasso di soddisfazione dei lavoratori, inoltre, è tra i più bassi al mondo – limitato al 5% secondo l’analisi della società di analisi e consulenza Gallup. L’Italia, del resto, è l’unico paese d’Europa in cui gli stipendi negli ultimi vent’anni sono diminuiti invece che aumentare, come dicono i dati OCSE. In cui la pressione fiscale è mediamente più alta rispetto agli altri paesi europei, nonostante salari e tutele sociali siano più basse, come dice il rapporto su Salari e Occupazione in Italia della Fondazione di Vittorio. In cui il mercato occupazionale è caratterizzato dalla crescita dei contratti a termine e del lavoro dequalificato. L’Italia, in questo senso, è sempre più spesso un luogo di lavoro povero e contemporaneamente è anche il paese con il tasso di occupazione più basso d’Europa dopo la Grecia (62,6%).
In questo contesto, parlare di grandi dimissioni significa anche fare i conti con un malessere quotidiano che non necessariamente trova forma politica, data la difficoltà di passare da un impiego all’altro in un mercato del lavoro depresso, povero e precario. Manca, per certi versi, una piattaforma in cui convogliare la rabbia precaria e fare emergere tutte quelle espressioni di malessere che caratterizzano il lavoro contemporaneo, per trasformare l’insoddisfazione individuale in un processo politico e collettivo. Se, infatti, è giusto essere cauti quando si guarda alla situazione italiana, è altresì lecito pensare che anche in Italia, l’aumento tendenziale delle dimissioni volontarie negli ultimi anni parli di uno stato di emergenza che non può più essere trascurato. È indispensabile, quindi, dare voce alle motivazioni che spingono al rifiuto del lavoro anche in Italia. In fondo, come diceva Joseph Lane Kirkland, “se il lavoro duro fosse una cosa bella, i ricchi l’avrebbero tenuto tutto per sé”.
Fonte: Valigia Blu, 7 dicembre 2021